Quali sono i tipi di sanzione previsti dall’ordinamento forense?
Passando brevemente in rassegna le sanzioni codificate, si procede all’avvertimento per le violazioni meno gravi laddove si ritenga che l’incolpato non reiteri la condotta contestata, invitandolo ad astenersi da altre infrazioni; segue la censura, prevista per le condotte che meritano un biasimo formale ma che per la loro relativa gravità, per il grado di responsabilità (elemento soggettivo), i precedenti dell’incolpato ed il suo comportamento successivo, consentono di ritenere che non commetterà altre infrazioni.
La sospensione e la radiazione, al contrario delle sanzioni più lievi la cui natura afflittiva assume un carattere prevalentemente morale, hanno carattere afflittivo sostanziale e, in via mediata, patrimoniale, in quanto impediscono temporaneamente l’esercizio della professione, nel caso della sospensione per un periodo determinato (da due mesi a cinque anni), o in via definitiva allorché venga inflitta la pena disciplinare della radiazione. In particolare la sospensione è l’effetto di comportamenti e responsabilità gravi per cui la sanzione della censura sia ritenuta insufficiente, mentre la radiazione è prevista per le violazioni talmente gravi da rendere incompatibile la permanenza dell’incolpato all’Albo, elenco o registro, ed escludere dunque per sempre lo stesso dall’Ordine professionale; ciò fatta salva la possibilità di reiscrizione del condannato dopo almeno cinque anni dall’esecutività del provvedimento sanzionatorio (art. 62, decimo comma della l. 247/2012), o di riapertura del procedimento disciplinare concluso con provvedimento definitivo, e di nuova e diversa decisione, a seguito della riapertura, ai sensi dell’art. 36 del Regolamento adottato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 21 febbraio 2014.
Quali sono i doveri dell’avvocato nel caso di rinuncia al mandato?
L’art. 32 Codice deontologico affronta i profili deontologici dell’istituto della rinuncia al mandato da parte dell’avvocato, facoltà del tutto legittima, ma da esercitare comunque con la cautela necessaria ad evitare pregiudizi per la parte assistita; ed i principi fissati dalle previsioni in esame, secondo la più recente giurisprudenza dei giudici di legittimità, devono ritenersi applicabili anche ai casi di revoca del mandato quanto meno sotto il profilo della violazione dei doveri di correttezza e diligenza di cui agli artt. 9 e 12 dello stesso codice deontologico (Corte di Cassazione, SS.UU., sentenza n. 2755 del 30 gennaio 2019; analogamente, Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 25 maggio 2018, n. 56, nonché Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 30 dicembre 2016, n. 388).
La cautela e gli obblighi da osservare consistono:
- nel dovere di informare la parte assistita dalla decisione di rinunciare al mandato con un congruo anticipo;
- nel dovere di informare la parte assistita di quanto necessario a non pregiudicarne la difesa, delle eventuali notifiche e comunicazioni ricevute, ma non in quello di provvedere al deposito di scritti defensionali (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 29 novembre 2018, n. 164), né di partecipare alla udienza immediatamente successiva ove venga nominato in quella sede un difensore d’ufficio, non derivandone alcun pregiudizio né al processo né all’imputato (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 30 dicembre 2009, n. 250).
In che cosa consiste il dovere di verità nell’attività difensiva?
L’art. 50 Codice deontologico, nel tipizzare il “dovere di verità” con riferimento all’attività difensiva, enuncia una serie di prescrizioni che vanno interpretate operando un attento bilanciamento tra il diritto-dovere di difesa ed i doveri generali di lealtà, correttezza e probità, indicati dall’art. 9 a tutela del rilievo costituzionale e sociale del ministero difensivo.
In questo schema vanno collocati i canoni deontologici riguardanti i comportamenti da assumere in sede procedimentale dall’avvocato, il quale:
- non deve introdurre prove o elementi di prova (così estendendosi il perimetro dell’obbligo) o documenti falsi; la previsione deve ritenersi applicabile anche in ambito penale nella fase delle indagini preliminari;
non deve egualmente utilizzare tali elementi probatori ove sappia o apprenda che siano falsi, se essi sono stati prodotti o provengono dalla parte assistita; - se la loro falsità viene conosciuta successivamente alla loro introduzione nel procedimento, deve astenersi dall’utilizzarli, ovvero, se non ritenga di assumere tale condotta, anche se per ragioni difensive, deve rinunciare al mandato; così salvaguardandosi anche la professionalità, l’immagine e la dignità del difensore altrimenti coinvolto in gravissime situazioni di falsità probatoria ad opera della parte assistita;
- non può impegnare la propria parola sulla verità dei fatti dedotti in giudizio, non svolgendo comunque il ruolo della parte ma quello del tutto diverso di difensore di quest’ultima con la massima autonomia sulle scelte difensive da adottare;
- gli è fatto divieto di rendere false dichiarazioni in ordine alla esistenza o meno di fatti dei quali abbia diretta conoscenza e sussumibili come presupposto di un provvedimento giudiziario;
nella presentazione di istanze o richieste, deve indicare i provvedimenti già ottenuti, anche di rigetto, e riguardanti le medesime questioni.
Come è disciplinato il conflitto di interessi con la parte assistita?
L’art. 24 si occupa in primo luogo degli obblighi che devono connotare le attività dell’avvocato al fine di evitare che si realizzi o permanga un conflitto di interessi con la parte assistita (conflitto reale), ma anche se tale situazione sia del tutto eventuale (l’espressione “possa determinare” anziché “determini” del codice previgente sembra configurare anche l’ipotesi di conflitto potenziale), o comunque possa interferire con il corretto svolgimento di altro incarico anche non professionale.
In concreto, come precisato nel secondo comma, l’interesse primario tutelato dalla norma deontologica ha riguardo alla indipendenza dell’avvocato ed alla sua libertà da pressioni o condizionamenti nella sua attività professionale, anche se connessi alla sua sfera personale.
Il terzo comma individua ulteriori ed articolate ipotesi di conflitto di interessi:
- a) nel caso in cui il nuovo mandato possa comportare la violazione del segreto professionale in ordine alle informazioni assunte da altra parte assistita o cliente;
- b) nel caso in cui la conoscenza degli affari di una parte assistita possa ingiustamente favorire altra parte assistita o cliente pur se in questioni giudiziali o stragiudiziali diverse;
- c) nel caso in cui il doveroso e corretto adempimento di un precedente mandato limiti la egualmente doverosa indipendenza dell’avvocato nello svolgimento del nuovo incarico.
Come è disciplinato il dovere di segretezza?
Con l’art. 13 del Codice deontologico, rubricato “Dovere di segretezza e riservatezza”, viene imposta all’avvocato la rigorosa osservanza del segreto professionale ed il massimo riserbo su fatti e circostanze conosciuti in qualsiasi modo nell’esercizio dell’attività di rappresentanza e difesa, di consulenza legale, di assistenza giudiziale e comunque per ragioni professionali. Il dovere di cui trattasi può ritenersi disposto solo a tutela dell’interesse del cliente o della parte assistita, ma si manifesta anche come primario diritto dell’avvocato che trova il suo più evidente riscontro normativo nell’art. 200 c.p.p. (segreto professionale), laddove si prevede che “non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne alla autorità giudiziaria … b) gli avvocati”; e ciò pur mantenendosi la possibilità per il giudice, che abbia motivo di dubitare che la dichiarazione resa per esimersi dal deporre sia infondata, di procedere ai necessari accertamenti e di ordinare che il testimone deponga.
La rilevanza dell’istituto ha indotto il Consiglio Nazionale Forense ad una specifica tipizzazione dei comportamenti di rilievo disciplinare con la redazione dell’art. 28 del codice deontologico (Riserbo e segreto professionale) inserito nel titolo II e riguardante i rapporti con il cliente e con la parte assistita, che per ragioni sistematiche appare opportuno immediatamente trattare.
Come si deve comportare l’avvocato rispetto alla controparte assistita dal collega?
L’art. 41 prescrive le regole di condotta che l’avvocato deve osservare nei rapporti con la parte assistita da un collega, ed in particolare:
- il divieto di mettersi in contatto con la controparte ove gli sia noto che è assistita da un collega;
- il divieto, nel corso di un processo, di aver contatto con altre parti, se non in presenza del loro difensore o con il consenso di quest’ultimo;
- il divieto di ricevere la controparte, assistita da un collega, senza informare quest’ultimo della ragione dell’incontro e con adeguato anticipo ed ottenerne il consenso;
- la possibilità di indirizzare corrispondenza direttamente alla controparte, inviando comunque copia per conoscenza al collega che la assiste, solo per invitarla ad assumere uno specifico comportamento, o per metterla in mora, o per evitare prescrizioni, decadenze o altri pregiudizi per il cliente o la parte assistita.
Quali sono i doveri dell’avvocato relativamente alla corrispondenza con i colleghi?
L’art. 48 del codice deontologico si occupa della materia assai sensibile del divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega.
Si tratta di previsioni che intendono tipizzare, senza alcuna pretesa di esaurirne le possibili variabili e la relativa casistica, i doveri di riservatezza, ai quali fa riferimento in via di principio generale il precedente art. 13, nonché di lealtà e correttezza nei confronti dei colleghi (art. 19), contribuendo anche al corretto svolgimento del contraddittorio processuale.
La frequenza di contestazioni riconducibili ai canoni deontologici fissati dall’art. 48 ne impone una disamina di dettaglio anche in considerazione delle rilevanti novità introdotte rispetto all’art. 28 del codice deontologico previgente.
Quali sono i doveri dell’avvocato con riguardo alla gestione di denaro altrui?
L’art. 30 del Codice deontologico individua le infrazioni disciplinari connesse alla negligente o fraudolenta gestione del denaro altrui da parte dell’avvocato; le prescrizioni, che devono comunque accompagnare i generali doveri di tempestiva informazione e rendicontazione delle somme di denaro ricevute dal professionista, nell’adempimento dell’incarico professionale, dalla parte assistita o da terzi, possono così descriversi:
- a) l’avvocato non può trattenere somme ricevute, per conto della parte assistita, oltre il tempo strettamente necessario (ove non autorizzato) e deve immediatamente informare quest’ultima (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 20 marzo 2018, n. 14; Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 31 dicembre 2016, n. 401);
- b) non può egualmente trattenere il denaro ricevuto dal cliente al fine di consegnarlo alla controparte (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 19 marzo 2018, n. 4); né può trattenere somme ricevute dal cliente a titolo di compenso se non con l’espresso specifico consenso del cliente stesso, e mai per facta concludentia, salvo sempre l’obbligo di rendiconto (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 3 agosto 2017, n. 105); né tantomeno corrispondere al proprio assistito una somma inferiore a quella ottenuta dalla controparte, trattenendo il resto e così procurandosi un ingiusto profitto (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 10 maggio 2017, n. 54). L’avvocato deve rifiutare di ricevere o gestire fondi non riferibili ad uno specifico cliente, e ciò anche a tutela dei rigorosi principi in materia di antiriciclaggio;
- c) ove accetti di gestire o detenere un deposito fiduciario, l’avvocato deve contestualmente ricevere dal cliente istruzioni scritte ed attenersi alle stesse.
In che cosa consiste l’accaparramento di clientela?
L’art. 37del Codice deontologico (divieto di accaparramento di clientela) va esaminato nel quadro generale dei divieti fissati dagli articoli precedenti, dei doveri di corretta informazione (artt. 17 e 27 codice deontologico) ed in materia di pubblicità (art. 10, l. 247/2012).
Dunque non è consentito all’avvocato acquisire clienti utilizzando agenzie o procacciatori o con modi non conformi alla correttezza ed al decoro professionale; né riconoscere compensi o provvigioni ai colleghi o a terzi quale corrispettivo per l’ottenimento di incarichi professionali.
Altre condotte, frutto di mal costume implementato nell’ultimo ventennio, vengono specificamente censurate, quali:
- l’offerta di omaggi, prestazioni o altre utilità a terzi in cambio di incarichi;
- l’offerta di prestazioni professionali personalizzate (e non richieste) o a domicilio, o nei luoghi di lavoro o di svago dei potenziali clienti, o in luoghi pubblici o aperti al pubblico (teatri, cinema, stadi, uffici giudiziari, segreterie politiche); sono consentiti invece gli incarichi professionali ricevuti dagli iscritti a patronati o rappresentanze sindacali, per questioni attinenti ai rapporti di lavoro, fiscali, previdenziali. Appare indifferibile tuttavia un adeguamento dei principi deontologici di cui trattasi ad istituti processuali, quali le class actions, che suppongono reti organizzative e di acquisizione degli interessati le cui modalità operative potrebbero rientrare nei divieti deontologici.
Per avere la risposta completa consulta le pagine 53 s. del “Compendio di deontologia e ordinamento forense” a cura di Marco Zincani, scritto da Federico Ferina. Troverai anche le risposte a tutte le altre domande dell’esame orale avvocato 2019.
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