Questione assai controversa è l’ “Esaurimento del diritto conferito dal marchio di impresa” nell’ambito della circolazione delle merci nello spazio della comunità europea , spesso frutto di diverse interpretazioni , che generano non pochi problemi alle aziende , agli organi ispettivi e giudicanti nell’applicazione delle norme in materia.
È indubbio che ad un primo approccio , un eventuale importazione/acquisto da un rivenditore/licenziatario “Europeo” effettuato da un concorrente , appaia al detentore di un diritto di proprietà industriale (ad esempio altro licenziatario stesso marchio) come un operazione di concorrenza sleale , di violazione della proprietà industriale e quindi del diritto del marchio e di quanto ad esso collegato o addirittura di condotte che possano “apparire” penalmente rilevanti, facendo configurare giusto per citarne uno il reato di contraffazione .
Invero, la situazione è molto più complessa , poiché anzitutto non vi sono requisiti di azione penale , anche preventiva (come eventuali sequestri) , cosa che spesso invece accade , sulla scorta di un errata o artefatta ricostruzione dei fatti e di una restringente interpretazione delle norme nazionali e comunitarie , che spesso supportano richieste di intervento della Magistratura Penale.
Senza contare le diverse azioni civilistiche intentate nei confronti di importatori che non violano come vedremo alcuna norma , poiché la tutela del marchio e i diritti legali ad esso sono soggetti al così detto esaurimento del diritto stesso.
Ebbene, restringendo il campo ad esempio al mondo manifatturiero con particolare riferimento all’abbigliamento , è frequente che un azienda Italiana in totale rispetto della normativa vigente e mai in spregio a diritti di proprietà industriale ed intellettuale altrui, acquisti capi d’abbigliamento da un’altra società con sede nella Comunità Europea .
Detta società straniera , comunque con sede legale in Europa , è ad esempio regolare licenziataria di importanti brand notori internazionali e/o comunque tutelati , questa tranne nei casi l’eventuale contratto di licensing non preveda diversamente (fermo restando la tutela del terzo acquirente in buona fede) , o se vi sono accordi di esclusiva (cosa assai difficile proprio per le norme esistenti, poiché difficilmente gestibile dai licenzianti o proprietari dei marchi ) può tranquillamente vendere alla società Italiana in virtù dell’art. 7, n. 1 della direttiva n. 89/104 CE (“Esaurimento del diritto conferito dal marchio di impresa”: Il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare dello stesso di vietare l’uso del marchio di impresa per prodotti immessi in commercio nella Comunità con detto marchio dal titolare stesso o con il suo consenso.) ciò è ripreso anche dall’art. 5 del Codice della Proprietà Industriale, introdotto a mezzo D.lgs n. 30 del 2005 che abrogava l’art. 1-bis, 2° comma legge marchi – D.lgs 480/92, il quale attuava la suddetta direttiva comunitaria ( oggi direttiva Comunitaria 2008/95 CE).
Pertanto il diritto del titolare del marchio è esaurito ( non potrà cioè opporsi alla commercializzazione ) quando i prodotti siano stati immessi in commercio all’interno dello spazio economico europeo dal titolare o con il suo consenso(licenziatario).
Il titolare del marchio e/o un suo licenziatario, quindi, non possono opporsi alla ulteriore commercializzazione dei suoi prodotti , una volta che li abbia posti in commercio all’interno del See (Spazio economico europeo).
Pertanto, la legittimazione e quindi la titolarità della concessione dell’uso del marchio “x” in capo anche ad un eventuale altro licenziatario nazionale, non può in alcun modo limitare eventuali commercializzazioni di merce anche se importata e quindi libera di circolare nell’Unione Europea, con gli stessi marchi, assolutamente non contraffatta, poiché prodotta e/o distribuita in forza a regolare contratto di licensing.
Dunque, in virtù del suddetto principio su enunciato, il fatto che la Società Italiana acquisti merce regolarmente prodotta e commercializzata e non contraffatta, anche sul territorio di un altro stato membro, per poi commercializzarla anche in Italia non viola alcuna norma vigente in materia sia penale che civile.
Si pensi per ipotesi, se si verificasse la stessa situazione denunciata dalla querelante a parti invertite e cioè nel momento in cui un cliente straniero dell’asserito licenziatario italiano del marchio “x”, acquistasse dalla stessa o da un suo distributore in Italia merce contrassegnata con tale marchio e rivendesse successivamente in altro stato membro della Comunità europea, di nulla potrebbe dolersi l’eventuale licenziatario straniero del medesimo marchio nei confronti di chi legittimamente commercializza gli eventuali prodotti in forza al principio della libera circolazione delle merci imperante nello Spazio economico europeo ( artt. 34 e 36 TFUE).
Va però precisato , anche per una sorta di regolamentazione e per la tutela dovuta al consumatore finale che mai l’azienda Italiana potrà apportare modifiche al prodotto importato nè
nel suo aspetto ivi incluso quello stilistico grafico , nè tantomeno nell’etichettatura che dovrà sempre riportare i riferimenti del produttore e del licenziatario autorizzato anche se straniero .
Quanto detto , quindi, rimarca quelle che sono le dinamiche assolutamente lontane da una presunta “concorrenza sleale” , “frode ad aziende nazionali” e/o addirittura di “Vendita di prodotti industriali con segni mendaci” , tranne nel caso non vi siano particolari condizioni che nel caso in esempio siano state previste dal licenziante e approvate dal licenziatario , nello specifico accordo.
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