Il DASPO urbano: quadro normativo e natura giuridica
Le ricostruzioni prevalenti collocano la nascita del sistema preventivo inteso come branca del diritto definita, con una propria autonomia e principi rettori nettamente separati da quella penale, verso la fine del diciannovesimo secolo[1]. Il delinearsi delle sue caratteristiche è inscindibilmente legato ed al tempo stesso contrapposto alla progressiva specificazione e alle codificazioni del principio di legalità nel pensiero illuministico. La legislazione nata dal pensiero illuministico, infatti, fatica fin dal principio ad accettare e dare collocazione alle norme di prevenzione, ereditate dai precedenti sistemi giuridici e dirette a colpire le più svariate categorie di persone percepite secondo il momento storico socialmente pericolose o degne di sospetto. L’impossibilità di accogliere nel diritto penale, retto ormai dal principio di legalità, delle ipotesi di azione repressiva che prescindessero dall’accertamento di un reato ha reso necessario creare una collocazione specifica per le misure preventive: quella delle leggi di pubblica sicurezza, con un corredo tutto proprio di strumenti sanzionatori e – pur apparentemente meno di quelli penali – afflittivi. Il sistema delle misure preventive si è mantenuto in salute e in auge attraverso tutti i mutamenti delle legislazioni anche per la sua duttilità e la possibilità di adattarlo ai più svariati soggetti e fini. Si pensi al suo utilizzo per il controllo degli oppositori politici[2] così come nella lotta alla criminalità organizzata e alle manifestazioni neonaziste per poi approdare alla sicurezza nell’ambito delle manifestazioni sportive.
La ricostruzione dell’evoluzione normativa che ha preceduto la creazione della nuova misura di prevenzione atipica del daspo urbano costituisce un punto di partenza necessario a comprendere la natura giuridica della misura in commento e può fornire, al contempo, informazioni utili riguardo ad alcuni aspetti non del tutto chiari della disciplina vigente.
Le misure di prevenzione fanno ingresso nel sistema repubblicano attraverso il perdurante vigore del Testo unico di pubblica sicurezza del 1931, per essere poi riformulate e trasposte all’interno della l. 27 dicembre 1956, n. 1423, recante “Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità”. In questo testo, che per lungo tempo ha rappresentato la disciplina generale della materia, le misure di prevenzione mantenevano ancora il loro duplice carattere di misure volte a colpire sia l’indiziato (per il quale non si fosse raggiunta la prova piena della colpevolezza) che il meramente sospettato[3]. Con i due noti interventi della Corte Costituzionale del 1956[4] viene compiuto uno sforzo considerevole di riconduzione delle misure di prevenzione verso la compatibilità con i principi costituzionali e dello stato laico e pluralistico, rifiutando la prevenzione di meri comportamenti e moralità che nulla avevano di criminoso, costituendo solamente un modo di essere distante da quello considerato normale nei valori dominanti.
Tutti i soggetti destinatari delle misure di prevenzione, nel testo risultante a seguito delle sentenze della Corte, sono identificati non più sulla base del mero sospetto ma anche in relazione ad elementi di fatto e ad attività penalmente rilevanti (ove provate). La l. 31 maggio 1965, n. 575, estende l’applicabilità delle misure di prevenzione ai sospettati di appartenere ad organizzazioni criminali di tipo mafioso. Un decennio dopo, la legge Reale del 22 maggio 1975, n. 152, amplia il novero dei soggetti destinatari delle misure ai “sovversivi”. Fino a questo momento, in ogni caso, le misure di prevenzione sono solamente quelle personali ed è solo con l’ulteriore intervento ad opera della legge Rognoni-La Torre, 13 settembre 1982, n. 646, che vengono inserite quelle patrimoniali, di maggior efficacia nel contrasto della criminalità organizzata e di stampo mafioso.
Fino a questo momento, di quello che sarà poi chiamato daspo urbano, non c’è traccia. Un suo precursore viene inserito nell’ordinamento italiano ad opera della l. 13 dicembre 1989, n. 401, contenente interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini (e sebbene una misura di contenuto analogo già corrispondesse ad una delle prescrizioni applicabili come contenuto della sorveglianza speciale). L’art. 6 di questa legge dispone, per una serie determinati soggetti[5], il divieto di fare accesso ai luoghi in cui si svolgono competizioni agonistiche. Nessun coordinamento viene operato tra i testi vigenti al momento dell’emanazione della normativa né, d’altra parte, era questo l’intento del legislatore che mirava con quell’intervento al contrasto delle scommesse clandestine. Viene introdotta una nuova misura di prevenzione atipica, accanto a quelle personali e patrimoniali già conosciute dall’ordinamento, senza che ancora si decida di intervenire in maniera organica sul testo del 1956. Il fatto che si tratti di una misura di prevenzione emerge indiscutibilmente dai presupposti necessari alla sua applicazione: tutti i soggetti elencati dall’articolo 6 sono connotati dal tratto caratteristico e comune della pericolosità sociale, ricostruita talvolta attraverso elementi di fatto, talaltra da condanne (definitive e non) o denunce. In generale, i soggetti destinatari di questa misura tendono ad essere identificati tramite fatti già commessi[6].
Ora, è chiaro da questa brevissima ricostruzione come la disciplina della materia andasse via via complicandosi quanto più le misure di prevenzione venivano applicate ad ambiti e soggetti diversi, senza che ancora si fosse giunti ad una riformulazione unitaria ed organica della normativa. Questa ricostruzione, pur meno organica di quanto si poteva auspicare, arriva solamente con il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, il c.d. Codice delle leggi antimafia. Pur dal titolo fuorviante, la nuova legge abroga la normativa precedente in materia e si pone come nuovo testo di riferimento per quello che viene spesso chiamato il “terzo binario”, rispetto a quelli delle sanzioni penali e delle misure di sicurezza. La legge del 1989, fra l’altro e come era intuibile per la specificità della materia trattata, rimane del tutto estranea a quest’opera di risistemazione, continuando tutt’oggi a contenere la disciplina di una misura di prevenzione considerata atipica e di riferimento per il più recente daspo urbano.
Per trovare il divieto di accesso in funzione di tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano, dobbiamo attendere il d.l. 20 febbraio 2017, n. 14 – ribattezzato dai media decreto Minniti-Orlando, dai nomi degli allora Ministri dell’Interno e della Giustizia – convertito, con modificazioni, in l. 18 aprile 2017, n. 48, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città e che introduce, all’articolo 10, una nuova misura di prevenzione atipica. Il daspo considerato più vicino precursore della misura in commento era stato previsto, nel testo di legge del 1989 sopra menzionato, in una duplice veste: quella di pena accessoria ad una condanna eventualmente in combinazione con l’obbligo di presentazione agli uffici idi polizia (art. 5) e quella – che qui rileva – di misura di prevenzione personale (art. 6, c. 1). Il d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, fra l’altro, rinvia proprio a questa normativa per la disciplina della convalida e dell’impugnazione dei divieti di accesso più incisivi e irrogati in misura compresa tra uno e due anni nei confronti di soggetti già condannati con sentenza definitiva o confermata in grado di appello, nel corso degli ultimi cinque anni, per reati contro la persona o il patrimonio. Il rinvio alla disciplina della convalida (almeno in alcuni casi) e, soprattutto, il riferimento alla pericolosità sociale quale parametro da valutare per l’emanazione del divieto di accesso, confermano la natura di misura di prevenzione della nuova misura contenuta nell’art. 10 del d.l. in commento.
La normativa in commento, tuttavia, non introduce solamente il divieto di accesso (rappresentando il daspo urbano solamente un’evoluzione potenziale rispetto a precedenti illeciti) ma anche l’ordine di allontanamento.
Se è vero che il tratto distintivo delle misure di prevenzione nell’ordinamento repubblicano e quello che continua a qualificarle come sanzioni ante delictum (in contrapposizione alle misure di sicurezza che il delitto, invece, presuppongono) è la pericolosità sociale accertata in concreto, sembra allora che, nel caso dell’ordine di allontanamento introdotto con l’articolo 9, se ne perda del tutto il contenuto. Se la pericolosità sociale non è il criterio di applicazione, viene da interrogarsi circa il contenuto tipico del comportamento che può dar luogo ad un ordine di allontanamento. Pur accogliendo la definizione delle misure preventive come praeter delictum, infatti, rimane evidente che nel caso di specie quello che l’apparato di pubblica sicurezza intende scongiurare non sembra essere un delitto quanto, semmai, un modo di essere di alcuni che di per sé rischia di nuocere alla sensibilità o al modo di vivere di altri. In assenza del requisito della pericolosità sociale, si dovrebbe poter fare affidamento su una più marcata tipicità del comportamento descritto dalla norma[7]. Tuttavia, fuori dai casi in cui il presupposto è costituito dalla commissione di determinati reati nei luoghi interdetti allo stazionamento (ovvero i casi elencati dal comma 2 dell’art. 9), è francamente opinabile ricostruire quali siano le condotte cui fa riferimento l’art. 9 c. 1 e che “impediscono l’accessibilità e la fruizione” dei luoghi identificati dalle ordinanze. Ecco che, mentre non sembrano esserci dubbi circa la natura di misura di prevenzione da attribuire al divieto di accesso disciplinato all’art. 10 del d.l. 20 febbraio 2017, n. 14[8], qualche perplessità in più sorge in relazione all’ordine di allontanamento disciplinato dall’art. 9.
Questa misura, dal contenuto prettamente cautelare, non prevede che il soggetto sia valutato come socialmente pericoloso e non è sottoposta a convalida. Non solo: per la sua brevissima permanenza in vita (l’ordine non può estendersi oltre le 24 ore) appare perfino di fatto sottratta a qualsiasi forma di concreta giustiziabilità[9]. Ecco che, anche volendone riconoscere la natura di misura di prevenzione, ne sfuggono tuttavia i contorni di tipicità. Una possibilità di ricostruirne il contenuto è quella di fare riferimento al bene tutelato, ovvero la sicurezza urbana, non senza trarne conclusioni allarmanti. Se la sicurezza urbana è messa in pericolo da comportamenti che non devono preludere alla commissione di un reato, sembra che questa misura riporti nel sistema della prevenzione quel significato di “pene del sospetto” che la Corte Costituzionale aveva inteso immediatamente scongiurare, pena l’impossibilità di mantenere un simile sistema sanzionatorio nel nostro ordinamento. Per verificare se non siamo di nuovo di fronte ad una pena del sospetto, può forse risultare utile indagare il significato di sicurezza urbana.
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L’ordine di allontanamento e il divieto di accesso tra sicurezza urbana e libertà di circolazione
La definizione di sicurezza urbana ci viene fornita dall’art. 4 del d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, che, nella versione vigente recita: “Ai fini del presente decreto, si intende per sicurezza urbana il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale, e recupero delle aree o dei siti degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione della cultura del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile, cui concorrono prioritariamente, anche con interventi integrati, lo Stato, le Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano e gli enti locali, nel rispetto delle rispettive competenze e funzioni”. La sicurezza urbana è, quindi, un bene collettivo che ha come contenuto la vivibilità ed il decoro. Il resto della norma è dedicato alle azioni per conseguire tale sicurezza e, per quanto ci riguarda nello specifico, una delle attività finalizzate in tal senso è quella di prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio.
La tutela della sicurezza urbana, ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, spetta al sindaco nella sua qualità di ufficiale del governo (artt. 4 e 4 bis dell’articolo citato) e, nel caso di specie, si articola attraverso la previa identificazione di zone interdette allo stazionamento mediante regolamenti di polizia urbana, senza la quale non potrebbe essere elevata la sanzione amministrativa collegata alla violazione di tale divieto. Una recente pronuncia del T.A.R. fiorentino ci dà indicazioni utili in merito a cosa debba intendersi, attualmente, per sicurezza urbana[10]: “non è possibile delineare una netta distinzione […] tra ordine pubblico da un lato e sicurezza urbana dall’altro poiché il mantenimento del primo è presupposto del secondo: in assenza di ordine pubblico non può certo darsi alcuna sicurezza urbana” definendo, in sostanza, la sicurezza urbana come un’articolazione territoriale dell’ordine pubblico. Nel quadro così delineato dal legislatore del 2017 si ha un sistema articolato su più livelli nel quale, sempre sotto l’ombrello di un servizio pubblico nazionale, diverse autorità intervengono a diversi livelli nella tutela di interessi pubblici più circoscritti. Senza che possa tracciarsi un confine netto tra competenze sindacali e prefettizie, anche considerando che in materia di sicurezza pubblica e come poc’anzi ricordato, il sindaco agisce in veste di ufficiale di governo.
Proseguendo nell’analisi della normativa di riferimento, dispone l’art. 9, c. 1 del d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, che “chiunque ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione delle predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti, è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300”. Alla sanzione amministrativa si accompagna[11] l’ordine scritto di allontanamento: “Contestualmente all’accertamento della condotta illecita, al trasgressore viene ordinato, nelle forme e con le modalità di cui all’articolo 10, l’allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto”. L’atto contenente l’ordine di allontanamento reca anche il termine di efficacia di 48 ore e le motivazioni dell’irrogazione della sanzione[12]. Le motivazioni, evidentemente, devono risolversi nell’aver impedito l’accesso alle aree interdette allo stazionamento ma in che modo questo impedimento metta a rischio la sicurezza urbana non è chiaro: sembra che la norma tenda piuttosto a tutelare il decoro urbano piuttosto che la sicurezza.
Il comma due dell’art. 9, come si accennava precedentemente, estende il medesimo trattamento sanzionatorio amministrativo – che va, evidentemente, ad aggiungersi alla contestazione degli altri reati contravvenzionali – a coloro che, nelle aree interdette allo stazionamento, pongano in essere alcune condotte penalmente rilevanti e, in particolare, quelle di cui agli articoli 688 c.p. (ubriachezza), 726 c.p. (atti contrari alla pubblica decenza e turpiloquio), 29 D.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (commercio abusivo), art. 7, c. 15 bis del nuovo codice della strada (attività di parcheggiatore abusivo o guardiamacchine).
Le aree potenzialmente interessate dai divieti di stazionamento sono quelle “aree urbane su cui insistono presidi sanitari, scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli, ovvero adibite a verde pubblico”. Le parole “presidi sanitari” sono state inserite dall’art. 21, c. 1, lett. A) del d.l. 4 ottobre 2018, n. 113 (il c.d. decreto Salvini) convertito, con modificazioni, nella l. 1° dicembre 2018, n. 32[13], e sono quelle che, come si dirà a breve, sono state oggetto del giudizio di legittimità costituzionale.
Ad impartire l’ordine di allontanamento, assieme alla sanzione amministrativa, è l’organo accertatore identificato tramite rinvio all’art. 13 della l. 24 novembre 1981, n. 689, ovvero – sembrerebbe – sia l’agente che l’ufficiale di polizia.
Il comma 4 dell’articolo 9 prevede, poi, che “per le violazioni di cui al comma 1 […] l’autorità competente è il sindaco del comune nel cui territorio le medesime sono state accertate, che provvede ai sensi degli articoli 17 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689”. Sebbene la tecnica legislativa renda la lettura della norma e la comprensione della disciplina estremamente faticose, sembra che il sindaco sia competente per l’elevazione della sanzione a seguito del rapporto presentato dall’organo accertatore che concretamente ha ordinato l’allontanamento e contestualmente elevato la sanzione amministrativa consistente nel pagamento della somma di denaro[14]. Il rinvio al testo di depenalizzazione del 1981 deve valere, altresì, per la disciplina dell’opposizione all’ordinanza ingiunzione.
Il procedimento attraverso il quale l’ordine di allontanamento può costituire il presupposto di un successivo ed eventuale divieto di accesso è contenuto nel comma 1 dell’art. 10 (appunto già rubricato “divieto di accesso”) e consiste nella trasmissione con immediatezza della copia del provvedimento al questore competente per territorio con contestuale segnalazione ai competenti servizi socio-sanitari, ove ne ricorrano le condizioni[15]. In questo modo l’autorità questorile viene messa in condizione di conoscere chi sono i soggetti che stazionano in violazione dei divieti in alcune aree della città, andando a creare una lista di soggetti “noti” cui, in caso di reiterazione della condotta e valutato il pericolo per la sicurezza, potrà essere applicato il provvedimento interdittivo del divieto di accesso.
Attraverso l’analisi della normativa siamo giunti, infatti, al momento più complesso della disciplina del daspo urbano: ad una prima violazione di un divieto di stazionamento ex art. 9 c. 1 o 2, deve aver fatto seguito una reiterazione del comportamento (non è che chiaro se la violazione del primo divieto possa costituire essa stessa una reiterazione né quante reiterazioni siano necessarie) ed una valutazione caso per caso e in concreto da parte del questore del pericolo che questo stesso comportamento rappresenta per la sicurezza (urbana).
Il ruolo del questore, in questa fase, è centrale e si esplica tanto attraverso la valutazione della pericolosità, che nella durata (fissata nel massimo di sei mesi) e nella modulazione concreta delle modalità applicative della misura che, ai sensi dell’art. 10, c. 2, devono essere comunque rispettose delle esigenze di mobilità salute e lavoro del destinatario. Infine, in assenza di qualsivoglia specificazione, il provvedimento deve ritenersi impugnabile unicamente dinanzi alla giurisdizione amministrativa e per via gerarchica[16].
Dalla ricostruzione normativa emerge come le misure preventive in esame debbano essere considerate atipiche non solamente per la loro collocazione al di fuori del codice antimafia ma anche per il particolare tipo di sicurezza che intendono tutelare in via preventiva: la sicurezza urbana, intesa come sottocategoria della pubblica sicurezza. Infine, sebbene i provvedimenti che non incidono in maniera duratura sulla liberta personale si ritengono limitativi della sola libertà di circolazione, vi è da dire che una restrizione discrezionale, difforme da comune a comune e, magari, scarsamente conoscibile delle zone in cui si può stazionare liberamente, rischia di creare una generale compressione di fatto anche della libertà personale[17].
Il daspo urbano dopo il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, e l’intervento della Corte Costituzionale
Uno dei primi provvedimenti che ha fatto applicazione della nuova, discussa normativa è rappresentato dall’ordinanza emessa dal Prefetto di Firenze Laura Lega con il quale venivano interdette allo stazionamento ben diciassette aree del capoluogo toscano, incluse le aree di un presidio sanitario cittadino. Nel caso di specie, il provvedimento amministrativo datato 9 aprile 2019 è stato annullato dal TAR assieme a tutti gli altri provvedimenti ad esso presupposti o conseguenti poiché veniva stabilito un irragionevole automatismo tra l’essere stato destinatario di contestazioni di reati in materia di stupefacenti, contro la persona o in materia di commercio abusivo e l’impedire l’accessibilità e la fruizione delle diciassette aree identificate e ribattezzate nel dibattito pubblico le “zone rosse”. In altre parole, i soggetti generalmente denunciati per alcuni reati (quindi anche ipoteticamente assolti all’esito di un procedimento) venivano automaticamente ritenuti responsabili di comportamenti incompatibili con la sicurezza urbana e la vocazione e destinazione di diciassette aree della città.
Il provvedimento prot. n. 0052287, pubblicato sul sito informatico della Prefettura di Firenze il 10 aprile 2019, era stato emanato nell’esercizio dei poteri di ordinanza di necessità e urgenza[18] previsti dall’art. 54 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, ovvero il T.U. enti locali sull’esplicito presupposto che “il d.l. 14/2017, convertito dalla l. 48/2017, recante “disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”, ulteriormente implementato con d.l. n. 113/2018, convertito nella legge 132/2018, prevede la possibilità di sottoporre a particolare tutela determinate aree urbane, con facoltà di disporre l’allontanamento da quelle aree di soggetti particolarmente qualificati che possano porre in essere condotte che impediscano l’accessibilità e la fruizione di queste”. L’annullamento dell’atto, nel caso di specie, è avvenuto senza che alcun provvedimento fosse stato adottato in conseguenza dell’individuazione delle zone e non può ancora dire niente delle concrete modalità applicative che verranno utilizzate dalle forze di polizia nell’impartire gli ordini di allontanamento o i divieti di accesso. Ci si limita a rilevare che, in via generale e all’interno dell’ordinanza, non erano state introdotte delle indicazioni attinenti le modalità specifiche di allontanamento di persone evidentemente bisognose di cure mediche. Tuttavia, tali modalità sono un requisito che la legge richiede per il provvedimento di daspo e niente vieta che solo in quella fase eventuale tali modalità possano essere individuate.
L’entrata in vigore del decreto Salvini così come la sua conversione in legge con blande modifiche[19], è stata accompagnata da un acceso dibattito che, pur non avendone mutato in maniera significativa contenuti ed intenti, ha creato l’occasione per un ricorso dal sapore politico da parte di alcune Regioni. Non che non vi fossero delle evidenti problematiche poste dalla nuova normativa ma il tema di fondo del dibattito – e, poi, del ricorso – si inseriva nel solco della tradizionale contrapposizione tra sicurezza pubblica e libertà personali (quasi che la prima fosse appannaggio unicamente della destra e le seconde della sola sinistra). A questo tema, si è affiancato nel ricorso quello della ripartizione tra competenze statali e regionali.
Scendendo nel dettaglio, con ricorso in via principale le Regioni Emilia-Romagna, Toscana e Calabria, hanno promosso, fra le altre, questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, lett. a) del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 114 (disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata) convertito con modificazioni nella legge 1° dicembre 2018, n. 132. La disposizione, modificando l’art. 9, comma 3, del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni nella legge 18 aprile 2017, n. 48, ha inserito, dopo le parole “su cui insistono”, le parole “presidi sanitari”. Le Regioni ricorrenti hanno ritenuto che la disposizione emergente a seguito della modifica legislativa risultasse in contrasto con gli articoli 3 (secondo la sola Regione Emilia-Romagna), 32 (secondo tutte le Regioni ricorrenti), e 117 terzo comma della Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione. La Corte riassume la questione in questi termini: “Assumono le ricorrenti che l’ampliamento dell’elenco dei luoghi in relazione ai quali, al fine di tutelarne il decoro e la sicurezza pubblica, può trovare applicazione il divieto di accesso in specifiche aree urbane (il cosiddetto DASPO urbano) consente che, a fronte di una delle condotte previste a presupposto della misura (stato di ubriachezza, compimento di atti contrari alla pubblica decenza, esercizio di commercio abusivo e attività di parcheggiatore abusivo), la persona bisognosa di cure mediche possa essere colpita dal provvedimento di allontanamento proprio da quelle aree urbane su cui insistono «presidi sanitari» con conseguente lesione del suo diritto alla salute”. Per un verso l’estensione della misura violerebbe il diritto alla salute della persona che sia bisognosa di cure mediche, precludendole o comunque ostacolando la necessaria assistenza sanitaria, così assoggettandola ad una misura sproporzionata e irragionevole. Sotto altro aspetto, sarebbe lesa la competenza concorrente del legislatore regionale in materia di salute prevista dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione non essendo prevista alcuna forma di leale collaborazione tra i due livelli di governo statale e regionale.
La Corte Costituzionale ha preliminarmente ritenuto ammissibile la questione sollevata. Il vaglio di ammissibilità, in questo caso, passava attraverso la valutazione della ridondanza della normativa nazionale sulle competenze regionali, caso che si può verificare anche quando le norme all’attenzione della Consulta, pur non rientrando tra quelle che sovrintendono direttamente al riparto di competenze, possano comunque avere effetti sulle attribuzioni costituzionali delle Regioni. Nel merito, invece, ha dichiarato l’infondatezza della questione in relazione ai parametri evocati, esistendo la possibilità di offrire un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma sottoposta al vaglio di costituzionalità.
L’interpretazione adeguatrice muove da un dato testuale presente nella normativa – l’art. 10, comma 2 del d.l. 20 febbraio 2017, n. 14 – per fornire indicazioni in merito alle modalità con le quali il daspo può essere eventualmente imposto senza ledere il diritto alla salute del destinatario. La norma dispone, infatti, che il questore debba individuare e indicare nel provvedimento restrittivo “modalità applicative del divieto compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario dell’atto”. La Consulta ha ritenuto che “una lettura di tale disposizione orientata alla conformità ai parametri evocati (3 e 32 Cost.), comporta che tale destinatario può comunque fruire dei servizi sanitari per ragioni di cura, senza che gli sia precluso l’accesso, anche ove egli sia stato destinatario del provvedimento del questore, che per il resto gli abbia fatto divieto di accedere a tale area per ogni altra ragione”. Anticipando ogni possibile futura censura, la Corte estende tale lettura adeguatrice anche all’ordine di allontanamento pur in assenza, in questo caso, di un riferimento esplicito nel testo di legge “così delimitando l’ambito applicativo dell’ordine di allontanamento dal presidio sanitario negli stessi termini previsti per il divieto di accesso”. Il presupposto logico dell’interpretazione adeguatrice fornita è la comparazione tra i due interessi in gioco: il diritto alla salute e l’esigenza di sicurezza pubblica[20] e decoro urbano. Pur riconoscendo, quindi, la prevalenza del diritto alla salute, la Corte non esclude che la persona che debba accedere alle prestazioni sanitarie, previa verifica del personale del presidio, possa comunque essere sanzionata in via amministrativa per le eventuali condotte che abbia posto in essere in violazione delle disposizioni richiamate dal comma 2 dell’art. 9. L’interpretazione fornita garantisce sia il diritto alla salute delle persone che il rispetto del principio di leale collaborazione, non essendovi in concreto alcuna incidenza sull’organizzazione dei presidi sanitari, ricadente nelle materie di legislazione concorrente in materia di salute. Concludendo, il decreto Salvini è rimasto, pur a seguito delle pronunce della Corte Costituzionale[21], del tutto intatto così che i regolamenti di polizia urbana continuano a poter ricomprendere tra le aree interdette allo stazionamento, e nelle quali, pertanto, potranno essere impartiti ordini di allontanamento, anche le aree urbane ove insistano presidi sanitari. Le autorità che impartiscano ordini di allontanamento e divieti di accesso dovranno necessariamente individuare modalità compatibili con le esigenze di salute del destinatario delle misure.
Conclusioni e questioni aperte: la mancanza dell’avviso di avvio del procedimento
La misura del daspo urbano, tanto nella sua versione originaria che in quella successiva all’intervento del 2018, apre importanti riflessioni circa la sua concreta applicabilità, la sua efficacia e la sua legittimità che, tuttavia, non hanno trovato riscontro nella sentenza della Corte Costituzionale.
In via preliminare, sorge spontaneo chiedersi se i divieti di stazionamento siano realmente conoscibili e se vi sia una soglia minima di doverosa pubblicizzazione del divieto, soprattutto quando si consideri che nella maggior parte dei casi coloro che nella realtà quotidiana incorreranno in tale divieto saranno soggetti senza fissa dimora o comunque dediti a stazionare nell’area in mancanza di reali alternative. Non solo, il momento della conoscibilità del divieto di stazionamento coinciderà, nella maggior parte dei casi, con l’imposizione dell’ordine di allontanamento, con il sostanziale azzeramento degli intenti dissuasivi o preventivi ma con un ampio dispendio di forze di polizia dedicate ad impartire gli ordini. Ma tant’è: la sola possibilità che sembra aprirsi in tal senso è quella dell’impugnazione dei provvedimenti che individuano i luoghi in cui è vietato lo stazionamento e le ragioni dell’interdizione da tali luoghi. La legislazione, infatti, detta criteri di identificazione delle aree interdette allo stazionamento e requisiti in base ai quali poter allontanare e poi interdire le persone da determinate aree ed i provvedimenti – di allontanamento o di daspo – a tali criteri devono attenersi[22].
Un altro aspetto che desta attenzione è quello relativo all’avviso di avvio del procedimento. Nel cercare di chiarire la natura e la disciplina del daspo urbano, si è fatto riferimento costante alla disciplina del suo più vicino predecessore, ovvero il divieto di accesso ai luoghi ove si svolgono le manifestazioni sportive. Anche la giurisprudenza di riferimento, pertanto, sarà quella formatasi sulla medesima figura e, più in generale, sulle misure personali di prevenzione. Le pronunce sono tendenzialmente uniformi con riguardo alla questione della comunicazione di avvio del procedimento ritenendola non dovuta, in contrapposizione all’art. 7 della l. 7 agosto 1990, n. 241 che la prescrive in via generale per gli atti amministrativi “ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento”[23]. Questo aspetto rileva tanto più in quanto la Corte Costituzionale, nel fornire l’interpretazione adeguatrice in commento, esplicita la necessità che la misura personale introdotta dal d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, e modificata dal successivo “decreto Salvini”, sia sostanzialmente compatibile con le esigenze di salute del destinatario. Tali esigenze, a meno di voler rendere la formula del tutto vuota di reale significato, sono evidentemente conoscibili solo attraverso un qualche tipo di contraddittorio che però, in assenza della comunicazione di avvio del procedimento (lo strumento che ricopre proprio la funzione di mettere l’interessato in grado di interloquire con la p.a.) o magari anche di una precedente impugnazione dell’ordine di allontanamento, sono evidentemente inconoscibili per il questore che emani il divieto di accesso[24]. È appena il caso di notare, poi, che una pur minima istruttoria sarebbe necessaria, in ogni caso, anche per accertare la pericolosità sociale del destinatario del daspo. Tuttavia, difficilmente questa stessa istruttoria potrà valere anche per conoscerne le esigenze di salute. In sostanza, allora, le esigenze di cura dell’interessato finiscono per essere più utili come ragioni di impugnazione che come criteri di valutazione preliminari all’emanazione della misura.
Dall’esame delle pronunce relative alla necessità di far precedere il provvedimento interdittivo dalla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, emerge come le ragioni che ne giustificano l’esclusione siano quelle di garanzia di celerità del procedimento e della necessità e dell’urgenza del provvedimento. Si potrebbe argomentare, allora, che solamente i provvedimenti che traggono origine da divieti di stazionamento contenuti in ordinanze di necessità e urgenza possano essere sottratti dall’obbligo di comunicazione. Negli altri casi, ovvero tutti quelli in cui le aree siano identificate in regolamenti di polizia, non si vede quale urgenza possa giustificare una simile omissione. E, invero, c’è da chiedersi se non sia la materia in sé del decoro urbano che mal si presta ad interventi emergenziali[25].
Alcune sporadiche pronunce, in ogni caso, si assestano su una posizione contraria a quella prevalente ritenendo necessario l’avviso[26] anche in relazione alle misure di prevenzione. E in effetti, se la necessità e l’urgenza del provvedimento possono valere a giustificare l’assenza dell’avviso, in relazione agli ordini di allontanamento e di daspo urbani, sembra difficile immaginare che almeno una parte delle situazioni concrete non consentano l’avvio di un contraddittorio con il destinatario della misura. Se nei casi di urgenza effettiva, il contraddittorio potrà essere recuperato eventualmente in sede di ricorso gerarchico o istanza di riesame in autotutela, in tutti gli altri casi dovrebbe poter essere instaurato prima dell’adozione dell’atto, in ossequio alla disciplina ordinaria dei provvedimenti amministrativi. In assenza di questo contraddittorio, le prescrizioni adeguatrici della Corte rischiano di rimanere del tutto inattuate ed inattuabili, riducendosi – quantomeno in relazione al divieto di accesso[27] – ad un salvataggio formale della normativa.
Infine, alcuni interrogativi sorgono sulla legittimità in radice di una misura preventiva che, pur menzionando la pericolosità sociale tra i requisiti applicativi, sembra tornare a punire il mero sospetto. Si fa riferimento, in particolare, a quei casi in cui il daspo sia stato irrogato a seguito della reiterata violazione dell’ordine di allontanamento impartito a causa di condotte meramente impeditive dell’accesso ad una determinata infrastruttura. In altre parole, se non desta particolare preoccupazione l’applicazione della misura a coloro che ripetutamente si rendano autori di reati in certe zone (si pensi ai parcheggiatori abusivi che nella cronaca sono divenuti noti anche per le condotte aggressive e fortemente limitative della libertà degli altri cittadini), si intravede il rischio che in certi altri casi la misura possa andare a colpire soggetti che corrispondono alla superata categoria degli oziosi e dei vagabondi della legge del 1956. Mentre nei confronti di questi soggetti le misure da attuare sarebbero quelle che l’art. 4 chiama di “eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale”, c’è da chiedersi se non si cederà alla tentazione di applicare loro la logica dell’aggiramento e dello spostamento del problema, magari verso le periferie e le aree meno in vista. In ogni caso, l’intervento richiesto alla Corte Costituzionale non atteneva la valutazione complessiva della legittimità della misura di prevenzione in commento e, conseguentemente, non sono stati forniti elementi in tal senso. La prassi applicativa potrà fornire, forse, alcuni spunti per futuri interventi di più ampio respiro.
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Bibliografia
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Note
[1] Uno tra tutti, D. Petrini, La prevenzione inutile. Illegittimità delle misure praeter delictum, Napoli, Jovene, 1996, 51 ss.
[2] Il riferimento è, ovviamente, alle leggi di pubblica sicurezza del 1926 e 1931 che prevedevano il confino – ovvero l’allontanamento e l’assegnazione al domicilio coatto ma più tardi anche il lavoro forzato – di coloro che erano ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico, sia dal punto di vista della delinquenza comune, sia dal punto di vista politico. Tra loro intellettuali e politici antifascisti.
[3] Questa è il caso degli oziosi e dei vagabondi, cioè i soggetti che per il loro modo di vivere suscitano diffidenza e timore nelle società in quanto, secondo il sentire comune, potenzialmente autori di reati contro il patrimonio o la quiete o la moralità pubblica, categoria ancora presente nella l. 27 dicembre 1956, n. 1423.
[4] Si fa riferimento alle note sentenze n. 2 del 14 giugno 1956 e n. 11 del 19 giugno 1956.
[5] Ovvero, nella versione attualmente vigente a seguito di vari interventi modificativi, a) coloro che risultino denunciati per aver preso parte attiva a episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza; b) coloro che, sulla base di elementi di fatto, risultino avere tenuto, anche all’estero, sia singolarmente che in gruppo, una condotta evidentemente finalizzata alla partecipazione attiva a episodi di violenza, di minaccia o di intimidazione, tali da porre in pericolo la sicurezza pubblica o da creare turbative per l’ordine pubblico nelle medesime circostanze di cui alla lettera a); c) coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti per alcuno dei reati di cui all’articolo 4, primo e secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, all’articolo 2, comma 2, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, agli articoli 6-bis, commi 1 e 2, e 6-ter della presente legge, per il reato di cui all’articolo 2-bis del decreto-legge 8 febbraio 2007, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2007, n. 41, o per alcuno dei delitti contro l’ordine pubblico o dei delitti di comune pericolo mediante violenza, di cui al libro secondo, titoli V e VI, capo I, del codice penale o per il delitto di cui all’articolo 588 dello stesso codice, ovvero per alcuno dei delitti di cui all’articolo 380, comma 2, lettere f) e h), del codice di procedura penale, anche se il fatto non è stato commesso in occasione o a causa di manifestazioni sportive; d) ((soggetti)) di cui all’articolo 4, comma 1, lettera d), del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, anche se la condotta non è stata posta in essere in occasione o a causa di manifestazioni sportive.
[6] Avvicinandosi così a quella tipizzazione della prognosi di pericolosità che faccia riferimento ad almeno un fatto di reato pregresso auspicata da parte della dottrina (Guerrini-Mazza-Riondato, v. opera citata sub nota 3, 31 ss.).
[7] Autorevole dottrina (Nuvolone) avvalla l’opinione diffusa secondo la quale la pericolosità sociale che vale a legittimare le misure di prevenzione dovrebbe essere accertata in base ad un doppio parametro: quello astratto della fattispecie-presupposto e quello concreto del giudizio svolto dall’autorità (a seconda dei casi) giurisdizionale o di polizia. Nello stesso senso Guerrini-Mazza-Riondato: “se nel momento in cui viene formulata la disposizione si prescinde dall’esperienza dello stesso soggetto interessato, ed in particolare da pregressi fatti illeciti da quest’ultimo commessi, il giudizio di pericolosità si risolverà il più delle volte in affermazioni incontrollabili” (v. opera citata sub nota 3, 35).
[8] E d’altra parte la giurisprudenza di legittimità, seppure formatasi in relazione al daspo in ambito sportivo, è ormai assolutamente uniforme in tal senso. Ex multis v. Cass. Pen. SS.UU., n. 44273/2004 ma anche, più recentemente, T.A.R. Lombardia Brescia, sez. II, 20 giugno 2011, n. 912.
[9] L’impugnazione è disciplinata per rinvio alla l. 24 novembre 1981, n. 689, e la sua utilità sembra collegata alla necessità di impugnare la sanzione amministrativa evitando che questa finisca ad essere il primo episodio di una possibile reiterazione la quale, a sua volta, costituisce il criterio necessario (ma non unico) per l’emanazione di un futuro daspo urbano. Anche l’impugnazione in sede giurisdizionale dei daspo, considerata la loro durata limitata in relazione a quella dei procedimenti dinanzi al TAR, difficilmente servirà mai a paralizzarne gli effetti in corso di applicazione.
[10] T.A.R. Toscana, sez. II, sent. 4/6/2019 pronunciata nel ricorso n. 549/2019 Reg. Ric.
[11] Pare senza margine di discrezionalità da parte dell’organo accertatore, sebbene la Corte Costituzionale, introducendo la normativa oggetto di giudizio di costituzionalità, faccia espresso riferimento alla possibilità per l’organo accertatore di ordinare l’allontanamento: “oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria, l’organo accertatore può ordinare l’allontanamento dalle aree interne di tali infrastrutture” (sentenza Corte Cost. 195/2019, punto 3 delle considerazioni in diritto).
[12] L’obbligo di motivazione, sebbene desumibile dalla disciplina generali degli amministrativi e sanzionatori, è stato specificato in sede di conversione del decreto legge con modifiche.
[13] Il decreto Salvini ha aggiunto anche le parole “aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli”.
[14] Sembra invece frutto di un malinteso interpretativo, come rileva anche Vergine, la ritenuta competenza del sindaco ad intimare l’ordine di allontanamento. In questo senso L. M. Di Carlo, Prime riflessioni sul c.d. “Daspo urbano”, in Federalismi.it, 17, 2017.
[15] Prima ancora di rilevare come reiterazione ai fini dell’emanazione del divieto di accesso, la violazione dell’ordine di allontanamento impartita comporta una sanzione amministrativa raddoppiata rispetto a quella compresa tra i 100 ed i 300 Euro di cui all’art. 9, comma 1. Considerando i possibili destinatari degli ordini di allontanamento, sorge spontaneo chiedersi quale sia la reale portata dissuasiva della sanzione pecuniaria e la concreta possibilità che le somme vengano effettivamente recuperate per essere destinate “all’attuazione di iniziative di miglioramento del decoro urbano”. Questo ambizioso obiettivo è previsto nell’ultimo capoverso dell’art. 9 ma, pur non disponendo di dati sugli effettivi introiti derivanti dalla misura, sembra risolversi in un proclama di buone intenzioni. Cortesi, al contrario, ritiene il provvedimento “funzionale e di sicuro rilievo” (M.F. Cortesi, DASPO urbano: provvedimenti a tutela delle città e del decoro urbano, in Digesto penale, Torino, Utet, aggiornamento 2018, 108).
[16] Solamente i divieti di accesso i cui destinatari siano soggetti condannati, con sentenza definitiva o confermata in grado di appello, nel corso degli ultimi 5 anni per reati contro la persona o il patrimonio hanno durata compresa tra 1 e due anni e sono sottoposti a convalida da parte dell’autorità giurisdizionale. Il provvedimento di convalida, a sua volta, è ricorribile in Cassazione. La disciplina è individuata per rinvio dall’art. 10, c. 4, del d.l. 20 febbraio 2017, n. 14.
[17] È pressoché pacifico, in ogni caso, che il daspo limiti unicamente la libertà di circolazione ex art. 16 Cost. e non quella personale. In questo senso: Corte Cost. n. 512 del 20 novembre 2002; Corte Cost. n. 136 del 23 aprile 1998; Corte Cost. n. 193 del 12 giugno 1996; Cass. sez. unite n. 44273 del 27 ottobre 2004; Cass. pen., sez. III, n. 21790 del 16 febbraio 2011. Le prescrizioni ulteriori come quella di presentazione presso gli uffici di polizia, invece, sarebbero restrittive della libertà personale e come tali sottoposte a convalida dell’autorità giudiziaria. Il caso di cui ci occupiamo, nello specifico, non ricade tra queste ultime. Merita rilevare, in ogni caso, come la sicurezza urbana strettamente intesa (ma si è visto che forse l’attenzione è rivolta maggiormente al decoro urbano) non sarebbe neppure tra le materie espressamente previste tra quelle che, ai sensi dell’art. 6 del protocollo IV CEDU, giustificano limitazioni della libertà di circolazione. La norma dispone, infatti, che: “L’esercizio di tali diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono previste dalla legge e che costituiscono, in una società democratica, misure necessarie alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e libertà altrui”.
[18] Già Di Carlo (v. citazione sub nota 15) prende a modello di riferimento per il suo commento due tra le prime ordinanze contenenti la misura di allontanamento: l’ordinanza n. 1 del 23.02.2017 del sindaco di Gallarate titolata “Ordinanza contingibile e urgente in materia di tutela della sicurezza urbana e decoro del centro abitato”; l’ordinanza n. 43 del 15.03.2017 del sindaco di Seregno titolata in modo identico alla precedente. In proposito rileva che “La previsione della sanzione di allontanamento temporaneo è contenuta in ordinanze di necessità ed urgenza. Queste ordinanze non appaiono differenti da analoghi provvedimenti adottati precedentemente al “decreto Minniti”, salvo per l’esplicito richiamo al nuovo art. 50 TUEL, sulla cui base trovano il loro fondamento giuridico; vi è però una particolarità̀ ulteriore: viene previsto che la violazione dei divieti imposti dall’ordinanza produca, a carico del trasgressore, la possibilità̀ di essere destinatario di un provvedimento di allontanamento”.
[19] In proposito G. Di Cosimo, decreto Minniti, il daspo urbano e la libertà personale, La costituzione.info, 20 marzo 2017: “Durante la discussione alla Camera è stato attenuato un pochettino il concetto: la sanzione potrà essere irrogata solo a chi impedisce l’accesso ai luoghi (il testo iniziale faceva riferimento a coloro che “limitano” l’accesso). Comunque resta la sostanza della cosa: con un suo provvedimento amministrativo il sindaco può impedire a qualcuno di sostare in certi luoghi della città. La questione tocca delicate corde costituzionali: la libertà di circolazione, il confine fra sanzioni amministrative e sanzioni penali, il concetto di sicurezza, ecc.”
[20] In questo modo si conferma come la sicurezza urbana non sia altro che una sottospecie ed una specificazione della più ampia sicurezza pubblica trasposta a livello locale.
[21] Si fa riferimento anche all’altra pronuncia – n. 194 del 2019 – che, pur trattando di profili del tutto diversi, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 12 e 13 del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, in legge 1° dicembre 2018, n. 132, promosse dalle Regioni Umbria, Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Calabria.
[22] Sebbene gli atti che individuano le zone interdette allo stazionamento siano necessariamente atti a contenuto generale, è pacifica la loro impugnabilità quando sussista una lesione immediata e diretta delle posizioni dei destinatari che determina l’insorgenza di un attuale interesse al ricorso. Ben si può immaginare, allora, che determinati provvedimenti vadano a ledere in via potenziale ma diretta determinate categorie di persone nel momento in cui alcune aree rivestano per alcuni un interesse specifico e qualificato in aggiunta, magari, ad una valutazione apodittica o dettata da automatismi della pericolosità sociale che per nessun motivo può essere presunta in assenza di una pur minima istruttoria.
[23] In questo senso si vedano C.d.S., sez. VI, 8 giugno 2009, n. 3468, Cass. Pen. Sez. I, 8 novembre 2011, n. 950 e, con riferimento specifico al daspo in ambito sportivo, Cass. Pen. Sez. III, 3 novembre 2016, n. 7960.
[24] Rilevava questo aspetto, già in riferimento alla disciplina previgente l’intervento del d.l. 113/2018, M.F. Cortesi, DASPO urbano (provvedimenti a tutela delle città e del decoro urbano), in Digesto penale, Torino, Utet, aggiornamento 2018, 108.
[25] V. in proposito L.M. Di Carlo, Prime riflessioni sul c.d. “Daspo urbano”, in Federalismi.it, 17, 2017.
[26] In senso conforme, ex multis, Cons. St., sez. IV, 16 ottobre 2006, n. 6128, ma tra le pronunce di segno contrario v. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 22 marzo 2001, n. 906 (ord.).
[27] In relazione all’ordine di allontanamento, la presenza del destinatario dell’atto serve di per sé all’esigenza di partecipazione al procedimento. Dovrebbe poter essere l’interessato stesso ad esplicare le proprie esigenze di mobilità lavoro e salute. Sul tema v. Consiglio di Stato, sez. V, sent. n. 5034/2003: “Si può prescindere dalla comunicazione di avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. 7 agosto 1990, n. 241, anche quando: “il soggetto interessato ha comunque acquisito “aliunde” la conoscenza del procedimento, in tempo utile per realizzare l’eventuale partecipazione all’”iter” istruttorio, ossia in una fase idonea a consentirgli la prospettazione di fatti, documenti, memorie ed interpretazioni di cui la p.a. procedente deve tener conto in sede d’emanazione”.
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