Nel caso di utilizzazione senza titolo di un bene, spetta all’amministrazione il potere-dovere di eliminare la situazione di incertezza attraverso l’emissione di un provvedimento che determina la restituzione o l’acquisizione dell’immobile.
Pertanto, la scelta, la ponderazione di interessi, può avvenire soltanto attraverso il procedimento delineato dal legislatore nel T.U.Es.
Il privato può partecipare al procedimento o concludere con l’Amministrazione un contratto traslativo, ma al privato non può essere totalmente attribuita la scelta dell’acquisizione o della restituzione (cfr.Adunanza Plenaria, sentenza n.2 del 20/01/2020, Adunanza Plenaria, sentenza n. 4 del 20/01/2020).
Peraltro, anche la cessione volontaria dell’immobile non è assimilabile ai normali contratti di compravendita di diritto privato ma viene ricondotta al genus dei c.d. contratti ad oggetto pubblico, che si diversifica dai normali contratti di compravendita di diritto privato (Consiglio di Stato, Sezione II, sentenza n. 705 del 28/01/2020).
Dai recenti approdi giurisprudenziali emerge, pertanto, come gli istituti di diritto pubblico abbiano delle peculiarità rispetto agli istituti civilistici e come anche laddove trovino spazio agli accordi, tali istituti abbiano un necessario ed imprescindibile collegamento con il procedimento.
Espropriazione per pubblica utilità
L’espropriazione per pubblica utilità è il provvedimento ablatorio con cui viene sottratto un bene ad un privato per ragioni di pubblica utilità.
Tale istituto trova fondamento nell’articolo 42 della Costituzione, il quale stabilisce che la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale.
Trovano, pertanto, fondamento costituzionale tre garanzie a tutela dell’espropriato: a) la riserva di legge; b) l’indennizzo a compensazione del sacrificio subito dal privato; c) la sussistenza di un pubblico interesse.
Per quanto attiene l’ordinario procedimento di espropriazione l’articolo 8 T.U.Es. stabilisce che il decreto di esproprio può essere emanato qualora “a) l’opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio; b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità; c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l’indennità di esproprio”.
Il vincolo preordinato all’esproprio è la prima fase del procedimento, viene apposto attraverso uno strumento urbanistico, ed ha una durata di 5 anni. Al termine dei cinque anni deve essere intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità. Tuttavia, è possibile al termine dei 5 anni reiterare il vicolo per altrettanto periodo con idonea motivazione. Sul punto è intervenuta anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 179/1999, la quale ha previsto che “nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità, commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto”.
La dichiarazione per pubblica utilità è disciplinata dall’articolo 13 T.U.Es. il quale ne fissa i contenuti: “Il provvedimento che dispone la pubblica utilità dell’opera può essere emanato fino a quando non sia decaduto il vincolo preordinato all’esproprio. Gli effetti della dichiarazione di pubblica utilità si producono anche se non sono espressamente indicati nel provvedimento che la dispone. Nel provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera può essere stabilito il termine entro il quale il decreto di esproprio va emanato. Se manca l’espressa determinazione del termine di cui al comma 3, il decreto di esproprio può essere emanato entro il termine di cinque anni, decorrente dalla data in cui diventa efficace l’atto che dichiara la pubblica utilità dell’opera.”
Inoltre, l’indennità di esproprio viene determinata nell’ambito di un sub-procedimento, deve essere calcolata nella misura del valore del bene ed accettata, salvo eccezioni, dal privato.
L’articolo 42bis del T.U.Es. prevede una forma semplificata di espropriazione nel caso di utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico. In particolare, l’articolo 42 bis prevede che l’Autorità che utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse pubblico, dopo aver valutato, con un procedimento d’ufficio, gli interessi in conflitto, adotti un provvedimento conclusivo del procedimento con cui sceglie se acquisire il bene o restituirlo, al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto. In particolare, “valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico” […] “può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale”.
Tale disposizione, elaborata dal legislatore all’interno dei parametri costituzionali e nel rispetto a quanto affermato dai principi europei, ha disciplinato la c.d. occupazione provvedimentale o acquisizione sanante, con cui viene attribuito alla Pubblica Amministrazione il potere di acquisire in sanatoria con atto ablativo avente effetti ex nunc.
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La cessione volontaria dell’immobile va ricondotta al genus dei contratti ad oggetto pubblico
La ponderazione di interessi pubblico/privato, può avvenire soltanto attraverso il procedimento amministrativo delineato dal legislatore nel T.U.Es., il privato può partecipare al procedimento o concludere con l’Amministrazione un contratto traslativo ma tale contratto ha un essenziale collegamento con il procedimento amministrativo, distinguendosi per questo dai contratti di diritto privato.
Il Consiglio di Stato, Sezione II, sentenza n. 705 del 28/01/2020 ha affermato che la cessione volontaria dell’immobile può essere ricondotta al genus dei c.d. contratti ad oggetto pubblico, che si diversifica dai normali contratti di compravendita di diritto privato.
In primo luogo, quello che caratterizza la cessione volontaria dell’immobile consiste nell’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità. In particolare, la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio.
Inoltre, altro aspetto caratterizzante la cessione volontaria consiste nella preesistenza di una dichiarazione di pubblica utilità e di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971.
Infine, il prezzo di trasferimento volontario non è retto dai principi di autonomia contrattuale ma è necessariamente correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione.
Il Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n.7445 del 30/10/2019 ha affermato che laddove non siano riscontrabili tutti i requisiti al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione.
Presupposto necessario perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è dunque il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare. La causa del contratto pubblicistico di cessione va quindi ricondotta a tale modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti – tra cui la determinazione del prezzo di cessione – alla disciplina contenuta in norme di legge imperative.
La Corte Costituzionale, sentenza n. 191 del 2006 ha chiarito che l’utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l’esistenza in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l’accordo sostituisce l’atto unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un provvedimento espressione di potere autoritativo. Da qui l’impossibilità di ricondurre sic et simpliciter l’accordo allo schema del contratto di diritto privato e la conseguente giustificazione dell’assegnazione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva anche per quelle controversie che attengono alla sua esecuzione. In definitiva, attraendo la cessione volontaria nella famiglia dell’accordo sostitutivo o integrativo di provvedimento, sia pure nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire, in ragione del riconosciuto mantenimento della sua connotazione di atto autoritativo, caratterizzato semplicemente dalla confluenza in un unico testo di provvedimento e negozio, si può affermare che le controversie relative alla sua esecuzione, diverse da quelle in tema di indennità, ricadono nella giurisdizione del giudice amministrativo.
Le tre sentenze del Consiglio di Stato, pronunciate in composizione Plenaria, non ammettono la rinuncia abdicativa nella materia dell’espropriazione per pubblica utilità
Si è detto sopra come il privato possa partecipare al procedimento o concludere con l’Amministrazione un contratto traslativo, ma ad esso non può essere totalmente attribuita la scelta dell’acquisizione o della restituzione del bene.
In tale contesto si colloca la questione attinente alla possibilità o impossibilità di ammettere la rinuncia abdicativa nel sistema espropri e di conseguenza la soluzione delineata dalle Plenarie. Dottrina e Giurisprudenza si sono a lungo interrogate sulla possibilità di riconoscere la rinuncia abdicativa nell’atto di proposizione in giudizio della richiesta di risarcimento del danno per perdita della proprietà illecitamente occupata dalla P.A. in seguito all’irreversibile trasformazione del fondo occupato.
La rinuncia abdicativa è un negozio giuridico unilaterale non recettizio che consente al titolare di una facoltà di legge di rinunciarvi, senza con ciò trasferire tale diritto ad un altro soggetto.
Tale negozio giuridico unilaterale, pur essendo riconducibile alle obbligazioni di cui all’art. 1173 c.c. e, precisamente, alle obbligazioni derivanti “da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”, non risulta disciplinato da alcuna specifica norma di legge.
Tuttavia, la prevalente dottrina è concorde nel riconoscerne l’ammissibilità, così come la S.C. di Cassazione ne ha più volte confermato la validità nel diritto civile.
Anche nella materia degli espropri, la rinuncia abdicativa è stata ammessa dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, per i casi devoluti alla giurisdizione del giudice civile, nei giudizi instaurati prima della entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, che ha previsto la giurisdizione amministrativa esclusiva.
Tuttavia, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato non condivide la possibilità di configurare la rinuncia abdicativa, trattandosi di un istituto privo di uno specifico fondamento normativo nell’ambito della materia delle espropriazioni per p.u.
Il principio di diritto enunciato dalla sentenza n. 2 del 20/01/2020 è il seguente:
“[…] per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata.”
La rinuncia abdicativa non sembra contemplata nel sistema espropri
La disciplina del procedimento espropriativo ex art. 42 bis d.P.R. n.327/2001 non sembra contemplare la rinuncia abdicativa. Pertanto, il Consiglio di Stato, V Sezione, nell’ordinanza di rimessione alla Plenaria n. 5391 del 30 luglio 2019 dubita che nel sistema previsto dal testo unico sugli espropri sia concepibile una rinuncia abdicativa. L’ordinanza, nella quale i giudici si esprimono con formula dubitativa, giunge a sostenere che la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42 bis. L’art. 42 bis, in definitiva, avrebbe esaurito la disciplina della fattispecie, con una normativa completa ed autosufficiente, rispetto alla quale non dovrebbero rilevare prassi ulteriori, limitative dell’applicazione della legge.
Le tre Plenarie del 20/01/2020 contestano l’ammissibilità della rinuncia abdicativa nel sistema espropri.
L’Adunanza Plenaria, sentenza n.2 del 20/01/2020 ritiene che la rinuncia abdicativa nell’atto di proposizione in giudizio della richiesta di risarcimento del danno per perdita della proprietà illecitamente occupata dalla P.A. non possa essere condivisa, rilevando un triplice ordine di obiezioni.
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Non idoneità a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’Autorità espropriante
La rinuncia abdicativa potrebbe comportare astrattamente la perdita della proprietà privata.
Tuttavia, la rinuncia da parte del privato non trasla tale diritto su altri.
Pertanto, la rinuncia abdicativa non costituisce titolo idoneo per il trasferimento della proprietà in capo all’Autorità espropriante.
- Mancanza delle caratteristiche dell’atto implicito
La rinuncia abdicativa viene ricostruita quale atto implicito, senza tuttavia avere le caratteristiche essenziali del provvedimento implicito ovvero la manifestazione chiara di volontà dell’organo competente e la non equivocità di una specifica volontà provvedimentale.
- Assenza di fondamento normativo
In particolare, la Plenaria afferma che la rinuncia abdicativa non è provvista di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato sia dalla Costituzione (art. 42 Cost.), sia dal diritto europeo.
Inoltre, ammettere la rinuncia abdicativa significherebbe reintrodurre una forma di espropriazione indiretta non contemplata dalla norma, riproducendosi una problematica analoga a quella passata relativa all’istituto della c.d. occupazione “appropriativa” o “acquisitiva”. Come noto, l’istituto, che pure rispondeva all’esigenza pratica di definire l’assetto proprietario di un bene illegittimamente occupato, risultava privo di base legale ed è stato pertanto ritenuto illegittimo dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
L’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 2 del 20/01/2020 non ammette la rinuncia abdicativa nella materia degli espropri ed enuncia il seguente principio di diritto: “[…] per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata.”
L’Adunanza Plenaria, sentenza n. 3 del 20/01/2020 non ammette la rinuncia abdicativa nel sistema espropri.
Chiarisce come la scelta di acquisizione o restituzione del bene sia effettuata esclusivamente dall’Amministrazione o dal commissario ad acta nominato dal giudice. Pertanto, il compimento della scelta non spetta né al privato né al giudice.
Inoltre, precisa come una domanda solo risarcitoria, può essere accolta dal giudice, tuttavia tale accoglimento consiste necessariamente nell’accertamento della illegittimità della procedura espropriativa e nella scelta da parte del privato di uno dei rimedi dati dalla legge. Infatti, è la legge ad indicare gli effetti dell’accertata illegittimità. In tal caso non si realizza il trasferimento, ed il bene va restituito, tuttavia l’amministrazione in tal caso è tenuta, nell’esercizio di un suo dovere, di una sua funzione, a valutare se procedere alla restituzione del bene previa riduzione in pristino o ad acquisire il bene nel rispetto dei dettami dell’articolo 42 bis T.U.Es..
Il privato, pertanto, ha adeguati strumenti previsti dalla legge nel caso di utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e giunge a pronunciare il medesimo principio di diritto a cui è pervenuta la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 2.
L’Adunanza Plenaria, sentenza n. 4 del 20/01/2020 negando l’ammissibilità della rinuncia abdicativa in materia espropriativa, in particolare, sottolinea come la trasposizione della figura negoziale della rinuncia abdicativa dall’ambito privatistico al settore dell’espropriazione per pubblica utilità, come rimedio per il privato spogliato del suo bene, genera a ben vedere un’irrazionalità amministrativa in quanto lascia irrisolta la questione dell’effetto acquisitivo in favore della pubblica amministrazione, non potendosi ricondurre all’articolo 827 c.c., il quale prevede l’acquisto (a titolo originario) dei beni vacanti da parte dello Stato.
Peraltro, anche la giurisprudenza a favore dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa nella materia espropriativa, non ha individuato una soluzione in ordine all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante obbligata al risarcimento dei danni.
Pertanto, l’Adunanza Plenaria n. 4 del 2020 formula il seguente principio di diritto «Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo».
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