L’occupazione usurpativa e acquisitiva di origine pretoria
La Corte Edu prima e l’Adunanza Plenaria[1] poi hanno posto fine al noto dibattito sull’ammissibilità delle espropriazioni indirette, quali l’occupazione acquisitiva e usurpativa, definendole illegittime tout court. Il risarcimento spettante al singolo in tali ipotesi è sottoposto, pertanto, alla disciplina generale dell’art. 2043 c.c.[2] L’orientamento maggioritario in dottrina e giurisprudenza, infatti, inscrive la responsabilità della PA in quella aquiliana, respingendo le diverse tesi della natura contrattuale o da contatto sociale.
La giurisprudenza[3] in passato distingueva due ipotesi di occupazioni illegittime in ragione delle diverse circostanze in cui avveniva il fatto illecito dell’amministrazione; mentre l’occupazione usurpativa veniva eseguita in assenza della dichiarazione di pubblica utilità e costituiva un illecito permanente, quella c.d. acquisitiva avveniva in assenza del solo decreto di esproprio. La presenza della dichiarazione di pubblica utilità, atto presupposto al decreto di esproprio, attribuiva un minor disvalore a tale condotta legittimando l’acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione che si perfezionava al momento della trasformazione irreversibile del bene. L’occupazione in tale secondo caso veniva definita acquisitiva proprio perché la P.A. acquistava a titolo originario la proprietà del bene tramite accessione invertita.
Il compimento dell’opera fissava pertanto il momento in cui si perpetrava l’illecito e definiva il dies a quo da cui decorreva la prescrizione quinquennale dell’azione risarcitoria. La giurisprudenza maggioritaria ravvisava in tal caso un’ipotesi di illecito istantaneo con effetti permanenti differente dall’illecito permanente creatosi con l’occupazione usurpativa.
L’ultimazione dell’opera portava alla perdita definitiva e irreversibile del diritto di proprietà del singolo che poteva agire per equivalente nel termine di cinque anni decorrenti dall’ultimazione dell’opera o trasformazione irreversibile del bene. In particolare il danno ingiusto risarcibile corrispondeva alla perdita definitiva del diritto di proprietà e doveva essere calcolato sulla base del valore del bene.
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Espropriazioni indirette e Corte EDU
La Corte Edu ha censurato entrambe le fattispecie di creazione pretoria ritenendole lesive del principio di legalità, nonché della certezza e garanzia dei diritti del singolo. La compromissione dei diritti del proprietario non era giustificata da alcuna previsione formale che definisse i presupposti dell’occupazione e i relativi strumenti di tutela del proprietario. Le limitazioni del diritto di proprietà non trovavano alcuna giustificazione sul piano formale, in quanto risultavano violate le norme del TU espropriazione e si ricorreva a una forma di acquisizione sanante in assenza di una norma di legge che ne definisse limiti e contenuti.
La dottrina nazionale, inoltre, criticava il riferimento stesso all’accessione invertita ex art. 938 c.c.. Il codice civile tipizza tale modo di acquisto, infatti, in riferimento ad una situazione specifica e particolare, ossia lo sconfinamento di una costruzione sul fondo confinante. Al fine di risolvere e prevenire eventuali conflitti tra vicini si prevede una deroga alla disciplina generale dell’accessione, che vedrebbe la proprietà del bene mobile accedere a quella del fondo. Al contrario il costruttore può acquistare a titolo originario la parte di proprietà occupata dalla costruzione in presenza di particolari presupposti. In particolare il proprietario del bene non deve aver fatto opposizione nel termine di tre mesi e il costruttore deve essere in buona fede. Il proprietario del fondo ha inoltre diritto al pagamento di una somma di denaro pari al doppio del valore della parte occupata[4].
Da quanto ricostruito appare evidente la differenza tra la fattispecie dell’art. 938 c.c. e l’occupazione acquisitiva, nonché il diverso tenore dei rimedi posti a tutela del proprietario. In relazione alle occupazioni dell’Amministrazione il privato non aveva la possibilità di opporsi e non poteva agire con azioni a difesa della proprietà, unico rimedio era quello risarcitorio. La giurisprudenza faceva riferimento ai soli effetti dell’accessione invertita senza estenderne la relativa disciplina in presenza di un procedimento illegittimo eseguito dall’amministrazione.
La Corte EDU e successivamente la giurisprudenza nazionale ha censurato entrambe le ipotesi di espropriazioni indirette, parificandole. Costituirebbero entrambe illeciti permanenti rispetto a cui il privato può tutelarsi in primo luogo tramite azioni reali possessorie o petitorie ed eventualmente anche per equivalente.
L’accoglimento unanime di tale tesi ha inciso inevitabilmente anche sull’entità del danno risarcibile.
Si rileva infatti come la domanda di risarcimento del danno costituisca una forma implicita di rinunzia abdicativa del bene, in quanto con essa l’attore rinuncia al suo diritto di proprietà. Il momento della rinuncia, corrispondente alla domanda risarcitoria, è rilevante anche sul piano processuale in quanto è idoneo interrompe la permanenza dell’illecito e a far decorrere il termine per la prescrizione[5]. A seguito di tale atto l’amministrazione espropriante, tuttavia, acquisterà la proprietà del bene in via derivativa, e non originaria, a meno che non si rintraccino i presupposti per la discussa figura dell’usucapione pubblica. Nello stesso senso si pone l’art 42-bis con cui il legislatore è andato a tipizzare un’ipotesi di acquisizione sanante avente efficacia ex nunc. [6]
Il Cons. St., sez. IV, 13 agosto 2019, n. 5703
La censura delle occupazioni illegittime ha avuto importanti ricadute sulle tecniche rimediali e in particolare sul quantum di risarcimento ottenibile dal singolo. Una recente pronuncia del Consiglio di Stato ha, infatti, sottolineato come venuto meno il riconoscimento della valenza acquisitiva dei comportamenti di apprensione materiale del bene posti in essere sine titulo dall’Amministrazione, l’eventuale risarcimento debba ascriversi nell’alveo dell’ordinario illecito aquiliano, avente ad oggetto il risarcimento del solo danno da perdita della disponibilità materiale del bene.
Tale sentenza pone luce agli effetti che ha avuto l’evoluzione giurisprudenziale nell’ordinamento interno rispetto proprio alla tutela del proprietario. L’orientamento attualmente dominante ritiene, infatti, sempre possibile per il privato richiedere la restituzione del bene, ipotesi di risarcimento in forma specifica. Tra i presupposti della stessa acquisizione sanante, su cui vi è un obbligo di motivazione, vi è l’inesistenza di alternative ragionevoli a tale provvedimento. Se il singolo lo richiede ed è possibile all’occupazione illegittima deve seguire la restituzione della proprietà.
Nel caso in cui, però, il proprietario decida di agire per ottenere il risarcimento per equivalente del danno subito perde il diritto di proprietà con effetti ex nunc, con ricadute sul quantum risarcibile. Ad essere risarcito, infatti, è il danno subito dall’impossibilità di godere della proprietà nel periodo di occupazione e non quello derivante dalla perdita della proprietà. Il diritto reale permane in capo al ricorrente fino al momento della sua rinuncia, implicita nella domanda risarcitoria, e si trasferisce in capo all’amministrazione per volontà del proprietario stesso. Sarebbe pertanto irragionevole risarcire la perdita della proprietà derivante da una rinuncia del privato in quanto a venir meno sarebbe lo stesso danno ingiusto.
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Note
[1]Cons. St., A.P., 9 febbraio 2016, n.2
[2] Cons. St., sez. IV, 13 agosto 2019, n. 5703 ha di recente affermato che l’Ente è responsabile per il risarcimento del solo danno (“a carattere permanente”) da perdita della disponibilità materiale del bene, in quanto la proprietà è rimasta in capo ai ricorrenti.
[3]Cass. S.U. n. 1464 del 1983
[4]Da rilevare, in particolare, come la somma di denaro prevista assuma una funzione in parte punitiva. La previsione di una somma pari al doppio del valore del bene, infatti, evidenzierebbe la ratio della norma, tesa a risolvere e prevenire i conflitti tra vicini. Si tratterebbe di un indennizzo idoneo a prevenire tali condotte e a attribuire un vantaggio più che ripristinatorio al proprietario leso.
[5]In tal senso il Cons. St., A.P., 9 febbraio 2016, n.2 secondo cui la condotta illecita dell’amministrazione viene a cessare solo in conseguenza della restituzione del fondo, di un accordo transattivo, rinunzia abdicativa implicita nella richiesta di risarcimento, usucapione pubblica, provvedimento ex art. 42-bis t.u. espropri.
[6]La disposizione ha sostituito il vecchio all’art.43 t.u. espropriazione, censurato dalla Corte Costituzionale, tra i vari motivi, proprio per la previsione di effetti retroattivi del provvedimento sanante.
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