Indice:
Il fatto
La Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza emessa in primo grado con cui l’imputato è stato condannato per il reato continuato di evasione commesso in sei diverse occasioni, il 12.7.2016 (due volte nello stesso giorno), il 16.7.2016, il 6.8.2016, l’8.8.2016 e il 24.8.2016.
Le doglianze difensive
Il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione eccependo la violazione degli artt. 649 c.p.p. e 385 c.p.
Più precisamente, il difensore ha evidenziato che l’imputato era già stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per due condotte di evasione perpetrate il 16.7.2016 ed il 25.9.2016 e che dunque, alla luce delle precedenti condanne, non vi sarebbe prova che l’imputato, tra il 12.7.2016 (data in cui sarebbe stato commesso uno dei fatti per il quale era intervenuta condanna) ed il 16.7.2016, avesse fatto rientro presso la sua abitazione.
Parimenti, non vi sarebbe prova che l’imputato, tra il 6.8.2016 (data in cui sarebbe stato compiuto un altro episodio per cui era intervenuta condanna) ed il 25.9.2016, l’imputato fosse rientrato presso la sua abitazione.
Le medesime censure presentate alla Suprema Corte erano state avanzate anche in sede di appello. Tuttavia, la Corte territoriale, contrariamente all’assunto difensivo, aveva rigettato l’atto di gravame sul presupposto che fosse onere della difesa fornire la prova del mancato rientro nel domicilio.
La decisione della corte
La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza di secondo grado non avendo condiviso il paralogismo logico-giuridico operato dalla Corte di Appello secondo cui <<in assenza di elementi di prova, che neppure l’indagato ha allegato, non sarebbe plausibile ritenere che questi si fosse allontanato dalla propria abitazione per segmenti temporali lunghi>>.
Secondo gli ermellini, la sentenza impugnata sembra attribuire all’imputato l’onere di fornire una probatio diabolica e valorizza una serie di circostanze non dimostrate dall’assunto accusatorio contravvenendo, dunque, alle regole dell’accertamento probatorio che impongono al pubblico ministero il fatto oggetto della imputazione e la sua attribuibilità soggettiva al di là di ogni ragionevole dubbio.
Più volte la Suprema Corte ha statuito che <<violano il divieto previsto dall’art. 649 c.p.p. la pluralità di condanne di evasione relativi a fatti commessi nello stesso arco temporale in cui si è sostanzialmente protratto l’allontanamento del soggetto dal luogo ove era detenuto, laddove si accerti che l’effetto permanete del primo ingiustificato allontanamento non sia stato interrotto con un concreto e stabile rientro in quel luogo, attuato in maniera tale da permettere un controllo da parte delle autorità competenti[1]>>.
Conclusione
La presente sentenza ribadisce, ancora una volta, che nel nostro ordinamento vige il principio del ne bis in idem e che sono, inoltre, inidonei i meccanismi presuntivi poiché vanificano l’obbligo di motivazione relativo alla prova della condotta penalmente rilevante.
Note:
[1] Cass. pen. Sez. 6, n. 27900 del 22/09/2020, Harfachi, Rv. 279676; Sez. 6, n. 12664 del 09/03/2016, Pantaleo, Rv. 266785; Sez. 6, n. 25976 del 04/05/2020, Silvestri, Rv. 247819)
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento