In questa sede, ci occuperemo non di qualsivoglia tipo di comunicazione venga veicolata dalle società, quanto piuttosto delle comunicazioni sociali, che per espressa previsione di legge, sono dirette ai soci o al pubblico.
Indice
- False comunicazioni sociali delle società quotate
- Soggetti attivi
- Ingiusto profitto
- Fatti materiali
- Induzione in errore
- Insidie e pericoli: conclusioni
1. False comunicazioni sociali delle società quotate
È l’art. 2622 c.c. a stabilire cosa debba intendersi per false comunicazioni sociali delle società quotate. Nella sostanza, il reato della specie è integrato quando “nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico” si espongono consapevolmente “fatti materiali non rispondenti al vero” ovvero si omettono “fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene”.
La disposizione normativa in esame è diretta a garantire la trasparenza e verità delle informazioni sociali e, dunque, tutela un interesse di natura obiettivamente diffusa. Infatti, l’obiettività e attendibilità delle informazioni relative alla situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società possono avere un impatto concreto sulla cura degli interessi di una molteplicità di stackholders, interni ed esterni alla società.
2. Soggetti attivi
Il reato di false comunicazioni sociali rientra nella categoria dei cosiddetti reati propri e cioè in quella classe di reati che per poter essere perpetrati richiedono al soggetto agente il possesso di una specifica qualifica personale.
Secondo l’art. 2622 c.c., rispondono del reato di false comunicazioni sociali “gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell’Unione europea”.
Il novero dei potenziali soggetti attivi per il reato in questione ha dunque carattere tassativo. Tuttavia, tale tassatività, è bene precisarlo subito, è meno monolitica di quanto possa a prima vista apparire.
È lo stesso Codice civile a prevedere, in termini generali e astrattamente, la possibilità che i reati societari di cui al Titolo XI, Libro V – nell’ambito dei quali è ricompreso quello relativo alle false comunicazioni sociali – possano essere commessi anche da soggetti agenti che non rivestono qualifiche formali all’interno delle società a beneficio delle quali prestano la propria opera.
E infatti, l’art. 2639 c.c. stabilisce che “al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.
3. Ingiusto profitto
Ai sensi dell’art. 2622 c.c., la condotta antigiuridica è integrata dai soggetti apicali poc’anzi menzionati laddove essi consapevolmente espongano fatti materiali non rispondenti al vero ovvero omettano fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge “al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto”.
Quest’ultimo è un aspetto rilevante perché, laddove manchi l’ingiusto profitto, la sola esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero relativi alla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società oppure la loro omissione, quando la loro comunicazione è prevista dalla legge, non è sufficiente ad integrare il reato di false comunicazioni sociali.
Ora, secondo la S.C., da un lato per ingiusto profitto deve intendersi qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, conseguito dall’autore del reato, non ricollegabile ad un suo diritto, ovvero perseguito con uno strumento antigiuridico o ancora con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso (Cass. pen., 17 aprile 2012, n. 14759) e, dall’altro, va opportunamente sottolineato che anche l’omessa esposizione di un dato contabile rilevante in bilancio non integra il reato di false comunicazioni sociali se non vi sono stati raggiri e se manca il profitto, ovvero un qualsiasi vantaggio, anche non patrimoniale, ricavabile dalla commissione del reato (Cass. pen., 16 maggio 2018, n. 21672).
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4. Fatti materiali
Fulcro dell’art. 2622 c.c. è, dunque, l’uso distorto e distorcente dell’informativa sociale, a fini di ingiusto profitto, da parte dei soggetti apicali poco sopra puntualmente elencati.
Ma quali sono i fatti materiali non rispondenti al vero esposti al mercato ovvero non comunicati che fanno venire ad esistenza il reato di false comunicazioni sociali?
Ebbene, deve trattarsi di fatti materiali non rispondenti al vero ovvero di fatti materiali rilevanti non comunicati, relativi alla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. Dunque, non ogni fatto materiale non rispondente al vero (o non comunicato) integra la condotta antigiuridica in esame, ma solo quelli che, in qualche modo, appaiono più incidenti ai fini della valutazione circa l’andamento della società e la sua situazione economica, patrimoniale e finanziaria e sempre che essi siano ricompresi nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico “imposte dalla legge”.
5. Induzione in errore
Vi è poi un ulteriore, decisivo aspetto da considerare. E cioè la circostanza che la falsa comunicazione sociale deve essere articolata “in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore”.
Essa, dunque, da una parte deve essere oggettivamente idonea a perseguire un fine ingannevole e, dall’altra, attraverso il richiamo alla dimensione della concretezza, fa sì che debba ritenersi esclusa la punibilità della “condotta incriminata che non altera in modo sensibile la rappresentazione economica, patrimoniale o finanziaria della società” (Cass. pen., 22 gennaio 2013, n. 3229).
6. Insidie e pericoli: conclusioni
La fattispecie di reato esaminata è particolarmente insidiosa per molteplici ragioni.
Innanzitutto, perché successivamente alla riforma attuata dalla Legge 27 maggio 2015, n. 69 il delitto di cui all’art. 2622 c.c. si è trasformato da reato di danno in reato di pericolo, diventando come tale perseguibile non più a querela della persona offesa, ma d’ufficio.
Come poc’anzi visto, per poter integrare il reato della specie – in presenza di tutti gli altri presupposti previsti dalla legge – è sufficiente, infatti, che sia presente il mero intento di danneggiare soci, creditori e in generale qualsiasi terzo vanti un concreto interesse nei confronti della società, inducendoli concretamente in errore.
In secondo luogo, occorre considerare che, nel tempo, il novero dei fatti materiali, dalla cui omessa o falsificata comunicazione possono discendere rilevanti conseguenze in termini di corretta e veritiera rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, è andato notevolmente ampliandosi.
Si pensi al sempre maggiore peso che il rispetto dei parametri cosiddetti ESG finisce per esercitare sul complessivo andamento delle società, non solo in termini di green reputation, ma anche in termini più squisitamente economico/patrimoniali.
È questo un aspetto da considerare con molta attenzione. Non solo perché il D.Lgs. 30 dicembre 2016, n. 254 ha reso obbligatoria, in recepimento della Direttiva U.E. 95/2014, la redazione del bilancio di sostenibilità (relazione consolidata non finanziaria) per le aziende di maggiori dimensioni, fra le quali nella maggioranza dei casi rientrano quelle quotate, ma soprattutto perché se un’azienda, ad esempio, dichiara che abbatterà i consumi energetici, o migliorerà la produttività, o utilizzerà i processi tipici dell’economia circolare, ciò equivale a comunicare al pubblico una riduzione dei costi e dunque in un maggiore utile e infine un incremento del patrimonio netto.
Con il che appare evidente che le eventuali comunicazioni mendaci riguardanti tali aspetti, quando rivolte ai soci o al pubblico, al fine di perseguire un ingiusto profitto, e in modo concretamente idoneo a indurre in errore, non potranno non avere rilevanza ai fini della commissione del reato di false comunicazioni sociali.
Infine, considerato che non sono infrequenti le ipotesi in cui il reato di false comunicazioni sociali è posto in essere dal soggetto agente con la finalità di procurare un ingiusto profitto alla società in seno alla quale ricopre una delle qualifiche di cui al comma 1, art. 2622 c.c., ecco che viene in rilievo la responsabilità amministrativa della società, dipendente da reato ex art. 5 D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
E non si tratta di responsabilità da poco, atteso che, secondo quanto stabilito dall’art. 25 ter, comma 1, lettera b) del D. Lgs. 231/200, si applica alla società “per il delitto di false comunicazioni sociali previsto dall’art. 2622 c.c., la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote”, sempreché l’ente non abbia conseguito un profitto di rilevante entità, nel qual caso la sanzione pecuniaria risulterà aumentata di un terzo.
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