Famiglie di fatto: discriminazioni di diritto

Vorrei esporre le mie considerazioni su un argomento finalmente tornato ad essere oggetto di attenzione dell’opinione pubblica: le coppie di fatto ed i registri delle unioni civili.

Procedo con ordine..

L’istituzione dei registri delle unioni civili, è al momento realizzata solo in POCHI comuni.

Fermo che lo Stato Italiano consta al 1 gennaio 2014 di 8071 comuni, se al 31 dicembre 2013 i registri delle unioni civili approvati sono 153 (145 approvati da comuni, 8 da consigli di quartiere e municipi), non si può dire che abbiano riscosso gran successo..

Vero è però che, dal 1993 quando è stato istituito ad Empoli il primo registro delle unioni civili, ad oggi si continua a coglierne soli gli aspetti simbolici ed ideologici della questione.

A mio avviso, laddove un’Amministrazione Pubblica, come una mosca bianca nel panorama istituzionale, decida di garantire tutta una serie di benefici a persone legate non da vincoli “legali” (matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela) ma solamente da vincoli “affettivi” (e/o reciproca solidarietà), NON lo fa mossa da mera ideologia.

L’istituzione del registro delle unioni civili lancia un messaggio forte alla Comunità: rappresenta l’impegno formale ma, soprattutto, sostanziale di tutelare e sostenere le unioni di fatto, assumendosi l’onere di creare condizioni non discriminatorie nell’accesso ai servizi/interventi territoriali.

E’ l’impegno di una P.A. ad evitare condizioni di svantaggio economico-sociale a quanti affidano i propri progetti di vita a forme diverse di convivenza, per favorirne l’integrazione nel contesto sociale, culturale ed economico del territorio, al fine di realizzare condizioni di pari opportunità, libertà, uguaglianza.. PRINCIPI COSTITUZIONALI, tanto per intenderci…

La possibilità, in quanto coppia non giuridicamente riconosciuta, di accedere ad agevolazioni, benefici, opportunità in aree di competenza comunale (casa, sanità, servizi sociali, politiche giovanili, anziani, sport, tempo libero, formazione, scuola, servizi educativi, trasporti, etc.) alle medesime condizioni riconosciute per legge alle coppie matrimoniali, concorderà con me che trattasi di affermazione di diritti civili.

Gli effetti amministrativi che ne derivano non sono trascurabili:

  • l’accesso ad un contributo per l’affitto;

  • l’accesso a graduatorie per l’agevolazione sui servizi (es. asilo nido, ristorazione scolastica);

  • l’iscrizione nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica;

  • la partecipazione al fondo anti-crisi per ottenere un contributo di solidarietà;

  • il rilascio di permessi di sosta e circolazione in zone a traffico limitato;

  • l’utilizzo della stessa classe di rischio nell’adozione di una assicurazione RC auto;

  • l’equiparazione a “parente prossimo” che consente, in caso di degenza, l’ottenimento di informazioni sanitarie, la possibilità di assistenza o di decidere in merito alle spoglie;

e altro ancora…, riguardano aspetti pratici, concreti, relativi alla normale gestione della quotidianità.

Naturalmente col riconoscimento dei diritti a seguito dell’istituzionalizzazione di una unione/coppia di fatto, derivano anche dei doveri poiché implica una responsabilizzazione della coppia che pubblicizza la relazione dinanzi alla Comunità. Una sorta di investitura..

Il solo Registro delle unioni civili non può bastare e non può sussidiare al vuoto normativo esistente, né può farlo la giurisprudenza. Con la Sentenza n° 461/2000 la Corte Costituzionale individuava la “differenza sostanziale tra famiglia e convivenza more uxorio nella stabilità e certezza, .. assente nella seconda e, viceversa, fondata sull’affettività senza alcun vincolo o impegno ed in ogni instante liberamente revocabile e si caratterizza per l’inesistenza di quei diritti e doveri reciproci derivanti dal matrimonio”.

Ma la famiglia è un’istituzione in movimento, non cristallizzata, che va interpretata tenendo conto delle trasformazioni degli ordinamenti e dell’evoluzione della società e dei costumi.

Nella realtà alla famiglia tradizionale si affiancano ormai “le famiglie”: coppie monoparentali, famiglie ricomposte in cui coppia genitoriale e coppia coniugale non coincidono, coppie omosessuali.

A partire dalla Sentenza Schalk e Kopft della Corte di Strasburgo del 2010 la nozione di famiglia si svincola dal concetto di matrimonio e si preferisce parlare di “formazione sociale stabile e duratura” da cui scaturiscono doveri di natura sociale, morale e conseguenze di natura giuridica.

Orientamento ormai consolidato è che si tratti di manifestazioni solidaristiche costituzionalmente rilevanti e come tali meritevoli di riconoscimento e tutela. Concetto ribadito con varie sentenze della Corte Costituzionale (v. n° 138/2010, n° 4184/2012, n°7/2014, n°1277/2014, n° 7214/2013); e vari interventi legislativi caratterizzati da frammentarietà (Legge 54/2006 sull’affido condiviso anche ai genitori non coniugati; Legge 219/2012 che abolisce la discriminazione tra figli naturali e figli legittimi; Legge 40/2004 che prevede l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita alle coppie di fatto).

Diviene doveroso l’immediato riconoscimento di uno status giuridico per quanti non possano/vogliano accedere all’istituto giuridico del matrimonio, l’estensione delle tutele a TUTTE le famiglie, cioè a tutte le “formazioni sociali stabili e durature” presenti sul territorio italiano.

Se secondo i dati ISTAT nel 2011 in Italia v’erano 972.000 famiglie di fatto, vuol dire che ben 1.944.000 persone vivono una situazione affettiva caratterizzata dal vuoto normativo.

Non si tratta di legalizzare i sentimenti.

Il “sentimento” (dal latino sentire, percepire coi sensi), in quanto stato d’animo non può essere imbrigliato in codicilli giuridici. Può/deve però essere legalizzato il rapporto di stabile e duratura convivenza che ne deriva, riconoscendole quella dignità che per troppo tempo le è stata negata.

Gli stessi contratti di convivenza promossi dal Notariato sono strumenti che possono disciplinare contrattualmente molti aspetti patrimoniali ma che non risolvono del tutto i problemi di una coppia di fatto (sono esclusi i diritti ereditari, ad esempio), oltre che avere un costo che non è fisso ma dipende da quanto viene in concreto regolato.

Vero anche che l’assistenza sanitaria può essere garantita con la nomina ad amministratore di sostegno.

C’è da dire però che, conditio sine qua non alla nomina, è che la condizione di impossibilità di provvedere ai propri interessi sia ATTUALE. In ogni caso, a meno che non vi sia carattere di urgenza, il termine ordinatorio (non perentorio!) per la nomina da parte del Giudice Tutelare è di 60 giorni.

Il risultato di tutti questi escamotages è che la relazione sia gestita tra avvocati, notai, commercialisti..

L’unico modo per garantire alle coppie di fatto (eterosessuali ed omosessuali) stessa dignità e stessi diritti rispetto alla famiglia tradizionale, è una normativa in materia, liberale, non oscurantista, aderente alla realtà italiana, rispettosa delle scelte private dei cittadini. NESSUNO escluso.

Le resistenze al cambiamento a mio avviso sono di ordine culturale, religioso, politico, economico ed è su questo che bisogna lavorare.

La lingua, la forma di governo, le istituzioni che lo rappresentano, l’ordinamento giuridico, i codici di comportamento, la religione stessa, cambiano e si adeguano ai tempi. Così la lettura di alcuni passi del Levitico o del Deuteronomio suggerisce la poligamia, la misoginia, l’intolleranza per i deformi e disabili; il Codice Civile del Regno d’Italia prevede i quindici anni di età minima per le novelle spose, l’inammissibilità della separazione in caso di adulterio del marito (a meno che non mantenga la concubina in casa), l’intervento di un consiglio di famiglia nel caso una donna decida di risposarsi dopo un lutto. Tutte cose che oggi fanno un po’ sorridere e che fanno parte del nostro passato. Già nel 1888 Emile Durkheim scriveva: “Non esiste un modo di essere e di vivere che sia il migliore per tutti (…). La famiglia di oggi non è né più né meno perfetta di quella di una volta: è diversa. Perché le circostanze sono diverse.”

Ora Vi racconto una storia, la mia..

Dopo una convivenza decennale, io e la mia compagna ci siamo sposate in Portogallo. Non siamo né le prime, né le ultime a Reggio Emilia. All’estero, alla ricerca di diritti qui negati.

Il nomadismo dei diritti (ahimè) si è fermato alla frontiera italiana. Il mio certificato di matrimonio è definito dallo stato Italiano VALIDO, EFFICACE ma INIDONEO a produrre effetti giuridici in Italia.

Il nostro status coniugio, non essendo riconosciuto il matrimonio same-sex, cessa di esistere varcato il confine. Questa condizione di fatto ci priva di:

  • diritto al congedo matrimoniale;

  • diritto agli assegni familiari;

  • diritto a giorni di permesso o congedo per malattia/infermità/lutto di coniuge e/o sua prole;

  • diritto al permesso di soggiorno e all’assistenza del Servizio Sanitario Nazionale se la coniuge è cittadina europea ma priva di lavoro (paradossalmente sarebbe meglio se fosse cittadina extraeuropea..);

  • diritto alla cittadinanza italiana allo scadere del termine fissato per legge che decorre dalla data di matrimonio;

  • diritto al regime di coppia concordato;

  • diritto di estendere l’assistenza sanitaria integrativa alla coniuge (privilegio garantito invece ai parlamentari);

  • diritto di partecipare agli utili dell’impresa familiare a meno che non si stipuli contratto di società o di lavoro subordinato;

  • diritto, a parità delle altre coppie, di punteggio nelle graduatorie occupazionali, concorsi pubblici, trasferimento per ricongiungimento familiare;

  • diritto di figurare come parente in caso di ricovero in struttura socio-sanitaria e riabilitativa;

  • diritto di configurare il reato di “maltrattamenti in famiglia” in caso di maltrattamenti da parte della coniuge;

  • diritto a colloqui e permessi di visita se la coniuge sconta una pena detentiva;

  • diritto in caso di successione ereditaria se non nella quota “disponibile”;

  • diritto della coniuge a percepire la pensione di reversibilità in caso di decesso;

  • diritto al trattamento di fine rapporto in caso di decesso della coniuge;

  • diritto al risarcimento del danno conseguente alle lesioni o alla morte della coniuge;

  • diritto di adozione della prole della coniuge deceduta;

  • diritto, in caso di decesso della coniuge conduttrice, di succedere nel contratto di locazione o di comodato;

  • diritto, in caso di decesso della coniuge proprietaria esclusiva dell’immobile, di continuare ad abitarlo salvo che vi sia disposizione testamentaria (che non violi le quote spettanti agli eredi legittimi);

  • diritto di decidere, in caso di decesso della coniuge, modalità e luogo in cui dare degna sepoltura alla salma.

Per lo Stato Italiano siamo due perfette estranee che, in barba all’art. 143 c.c., non hanno alcun obbligo di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia, coabitazione e che, in caso di separazione, non hanno un dovere al mantenimento.

Anche qui si tratta di aspetti pratici.

Se è vero che dinanzi a specifiche situazioni la coppia titolare del diritto alla vita familiare può adire i giudici comuni per far valere il diritto ad un trattamento omogeneo, è pur vero che la giurisprudenza non può in eterno soccorrere in mancanza (e a causa della mancanza) di una normativa uniforme ed organica.

Qui il tema non è di tipo etico, moralistico, non disquisisco su una pretesa giustezza morale. Né tanto meno è in discussione la liceità delle coppie di fatto, eterosessuali o omosessuali che siano, non discuto su una pretesa giustezza giuridica.

Il problema è un altro: cosa è di interesse pubblico? Cosa di interesse privato? Dove comincia il pubblico? Dove finisce il privato? E’ questo il punto centrale, altrimenti si rischia di far passare per pubblico ciò che è di esclusiva pertinenza privata, e per privato ciò che è di competenza pubblica. Il rischio è che un altro Consiglio Comunale in Italia approvi un ordine del giorno sulla tutela della famiglia fondata sul matrimonio proprio come è accaduto a Macerata qualche giorno fa. Lì si è deciso di contrastare l’introduzione di disposizioni relative al matrimonio same sex e leggi contro l’omofobia. NON si tratta di provvedimenti simbolici o ideologici.

Mi chiedo: per la Comunità cosa cambia se sono coniugata con Manuela e non con Manuele? Questo fa di me una cittadina peggiore? Un infermiere meno professionale? Una figlia meno premurosa? Un’amica meno presente? Una collega meno accomodante? Una vicina di casa meno discreta? Che io viva la mia sessualità in un modo piuttosto che in un altro, quali macroscopiche trasformazioni determina nella vita degli Altri? Il mio rapporto matrimoniale perché deve essere discriminato?

Il Paese cresce se ciascuno diviene intercettore dei mutamenti sociali, se ne fa portavoce in tutti gli ambiti e a tutti i livelli, si trasforma in agente di cambiamento. Un diritto riconosciuto ma non esercitabile, di fatto non esiste. Riconoscere dei diritti a delle minoranze, ma soprattutto renderne effettivamente possibile il loro esercizio, è un segno di civiltà. Crea valore aggiunto per l’intera comunità.

Restando ancorati a schemi vetusti, si creano situazioni di evidente squilibrio, di disuguaglianza, di violazione dei diritti umani, si corre il rischio di allontanarsi sempre più dalla visione tollerante, civile ed europeista che spero permei le nostre coscienze.

Conchita Nicolao

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