Fatto di lieve entità in materia di stupefacenti e attenuante ex art. 62, n. 4, c.p.: le sezioni unite risolvono il contrasto sulla loro compatibilità

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 Introduzione

L’odierno contributo prende le mosse da una recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in materia di sostanze stupefacenti, la quale ha avuto il merito di aver risolto il contrasto esistente da anni sulla possibile applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. ai reati disciplinati dal D.P.R. n. 309/1990, cd. “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” e sulla sua conseguente compatibilità con il reato di produzione e traffico di stupefacenti di lieve entità, disciplinato dall’art. 73, co. 5, del suddetto decreto.

Con la sentenza n. 24990/2020, le Sezioni Unite, rispondendo al quesito loro sottoposto dalla Sesta Sezione Penale, hanno aderito all’orientamento positivo, più recente.

Negli anni, le aule dei tribunali sono state contrassegnate dall’esistenza di un contrasto sulle suddette tematiche generato da due orientamenti contrapposti.

Preliminarmente, prima di esaminare i due indirizzi, è necessario inquadrare le disposizioni che vengono in rilievo.

L’art. 62 c.p., rubricato “Circostanze attenuanti comuni”, così recita “Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti:”, più nel dettaglio al n. 4) “l’avere nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l’avere agito per conseguire o l’avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità”.

Quanto al reato di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309/1990, il quinto comma disciplina il fatto di lieve entità da intendersi come l’attività di produzione e traffico[1] di sostanze stupefacenti o psicotrope, che, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità, alle circostanze dell’azione ovvero alla qualità o quantità delle sostanze, sia da considerarsi come di lieve entità.

La Suprema Corte prende le mosse dalle suddette disposizioni per analizzare la questione alla stessa assegnata, facendo un excursus sul dibattito giurisprudenziale e ricostruendo l’iter motivazionale dei vari orientamenti, per giungere poi ad ammetterne la compatibilità.

1. Tesi negativa

Il contrasto sopra menzionato derivava dall’esistenza di due filoni giurisprudenziali, uno di pensiero negativo alla compatibilità dell’attenuante de qua ai reati in materia di sostanze stupefacenti e uno di indirizzo positivo.

Quanto al primo, lo stesso prendeva le mosse da una serie di considerazioni.

La prima: l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. sarebbe applicabile solo nei confronti di quei reati che tutelano come bene giuridico il patrimonio.

Tale considerazione derivava da una pronuncia della Sezione Sesta della Cassazione, n. 7830/1999 che sosteneva che, nonostante il fatto che il tenore letterale dell’art. 62, n. 4, c.p. si ponesse contro tale interpretazione, in quanto facesse un generico riferimento ai delitti determinati da motivi di lucro, il danno di speciale tenuità dovesse essere riferito esclusivamente alle fattispecie offensive del patrimonio.

Da tale assunto ne discendeva l’inapplicabilità della suddetta attenuante ai reati in materia di sostanze stupefacenti, in quanto lesivi di beni giuridici e valori costituzionali differenti[2].

Un’altra motivazione, confermata da altre pronunce, si fondava sull’impossibilità di rinvenire degli eventi dannosi di speciale tenuità nelle fattispecie disciplinate dal D.P.R. n. 309/1990.

Tale considerazione si basava sulla natura dei beni giuridici tutelati, considerati di rango costituzionale ed incompatibili, pertanto, con l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p.

Le suddette pronunce, tuttavia, si ponevano in contrasto con la tesi precedentemente enunciata, in quanto sostenevano che, proprio a seguito della modifica del 1990 dell’art. 62 c.p., la norma non fosse applicabile aprioristicamente ai soli delitti contro il patrimonio, bensì, con l’introduzione delle locuzioni “l’aver agito per conseguire o l’aver conseguito un lucro di speciale tenuità” e “l’essere l’evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità” fosse compatibile anche con delitti offensivi di beni giuridici differenti, purché realizzati con determinate finalità.

Tuttavia, in considerazione dell’elevato rango dei beni giuridici tutelati dalle fattispecie in materia di stupefacenti e, soprattutto, in considerazione del fatto che il mero lucro conseguito non assumerebbe rilevanza, in quanto i danni prodotti non sarebbero solo quelli immediati, ma anche quelli a lungo termine, non sarebbe possibile individuare delle fattispecie connotate da una minima lesività in tale materia (cfr. Cass. sez. IV n. 3621/1993; Cass. sez. VI n. 41758/2009; Cass. sez. VI n. 23821/2013; Cass. sez. VI n. 9722/2014; Cass. sez. III n. 36371/2019).

Pertanto, la prima questione sull’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. ai reati disciplinati dal D.P.R. n. 309/1990 veniva risolta in senso negativo per le suddette motivazioni.

Quanto alla seconda questione, la soluzione alla quale si perveniva era di analogo tenore.

La Suprema Corte sosteneva, al pari, l’incompatibilità della suddetta attenuante comune con l’autonoma fattispecie di reato di cui all’art. 73, co. 5, D.P.R. n. 309/1990, in quanto entrambe le fattispecie richiedevano la valutazione dei medesimi requisiti ai fini della configurabilità.

L’indirizzo seguito negava la compatibilità sulla base della considerazione che tra le due disposizioni vi fosse una coincidenza tra i presupposti applicativi, di talché ad ammetterne la compatibilità e la conseguente applicazione si sarebbe determinata una duplice valutazione dei medesimi profili e, quindi, una ingiustificata concessione di benefici sanzionatori all’agente (Cass. sez. I n. 36408/2013; Cass. sez. III n. 46447/2017; Cass. sez. IV n. 32513/2019; Cass. sez. III n. 36371/2019).

2. Tesi affermativa

Vi era, poi, un altro orientamento più recente, di direzione opposta, che risolveva in senso positivo entrambi i quesiti.

In ordine alla natura giuridica del bene tutelato dalla singola fattispecie di parte speciale, tale indirizzo sosteneva l’impossibilità di considerare inapplicabile la suddetta attenuante solo sulla base del tipo di bene tutelato, più in particolare, solo nei confronti dei reati che tutelano come bene giuridico il patrimonio.

Ed infatti, la norma, testualmente, non faceva e non fa alcun riferimento alla natura del bene tutelato, bensì si limita a richiedere l’esistenza di motivi di lucro, sottesi all’azione del soggetto attivo.

Tale impostazione prendeva le mosse dal dictum della sentenza n. 20937/2011, emanata dalla Sezione Sesta della Suprema Corte che ha ritenuto l’attenuante de qua applicabile ai reati in materia di stupefacenti, sulla base della nuova formulazione dell’art. 62 c.p. (derivante dalla modifica operata dalla L. n. 19/1990) che richiedeva un quid pluris, ossia l’aver commesso il reato per motivi di lucro, indipendentemente dalla natura dell’offesa arrecata.

Pertanto, sostenere a priori l’inapplicabilità dell’attenuante generale ai reati in materia di stupefacenti avrebbe posto tale indirizzo contro la ratio della modifica.

Un secondo ordine di motivi era quello riguardante l’impossibilità di applicazione dell’attenuante a causa dell’assenza di reati in materia di stupefacenti da considerarsi produttivi di un “evento di speciale tenuità”.

Tale tesi veniva sconfessata dalla presenza nel nostro ordinamento proprio della fattispecie di reato di produzione e traffico di sostanze stupefacenti di lieve entità prevista dal quinto comma dell’art. 73, D.P.R. n. 309/1990.

Il quinto comma, dapprima, era considerato una mera circostanza attenuante speciale dell’ipotesi di produzione e traffico di stupefacenti di cui al primo comma (Cass. S.U. n. 9148/1991), tuttavia, a seguito della modifica operata dal D.L. 146/2013, poi convertito con modifiche in L. n. 10/2014, è stata trasformata in un’autonoma figura di reato.

A conferma dell’applicabilità della suddetta attenuante, vi è la considerazione che già quando il comma quinto era un’ipotesi circostanziale, la giurisprudenza la considerava compatibile con l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. sulla base della diversità dei profili valutativi: mentre l’art. 73, co. 5, si riferiva all’azione e all’oggetto materiale, l’attenuante generica di cui all’art. 62, n. 4, c.p. si riferiva al lucro e all’evento dannoso.

A conferma di tale indirizzo, vi erano altre pronunce che avevano ritenuto compatibile la suddetta circostanza con altre attenuanti speciali previste dall’art. 648, co. 2, c.p. e 323 bis c.p., reati non a tutela del patrimonio (Cass. sez. IV n. 25321/2004; Cass. sez. II n. 43046/2007).

Tali principi sono stati, altresì, ripresi dalla Sesta Sezione della Cassazione, nella sentenza n. 5812/2017, che ha affiancato altre motivazioni a quelle superiori.

Ed infatti, tale pronuncia ha il merito di aver sconfessato l’assunto relativo all’inesistenza di fattispecie di reato in materia di stupefacenti caratterizzate da una speciale tenuità del fatto.

Tale considerazione viene confermata normativamente proprio dal quinto comma dell’art. 73 che assurge a fattispecie autonoma di reato, nonostante la natura dei beni giuridici tutelati sia comunque di alto rango.

Sulla base di ciò, sostenere il contrario cozzerebbe sia con l’art. 62, n. 4, c.p., applicabile ai reati determinati da motivi di lucro, che con la ratio dell’introduzione dell’autonoma fattispecie di reato di cui al comma 5 dell’art. 73.

Inoltre, a sostegno di tale tesi, vi è la considerazione che, ai reati in materia di stupefacenti, sia ugualmente applicabile l’art. 131 bis c.p., quale causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.

Ritenere impossibile che tra i reati in materia di stupefacenti siano annoverabili fattispecie di lieve entità si porrebbe in contrasto anche con il suddetto assunto.

Da tale indicazione, risulta, pertanto, confermata la possibilità che vi siano fattispecie disciplinate dal D.P.R. n. 309/1990 caratterizzate da una minima offensività.

Ammessa la compatibilità con i reati in materia di stupefacenti, bisogna analizzare il medesimo aspetto con riferimento al reato di cui al quinto comma dell’art. 73.

L’orientamento a sostegno della tesi negativa si basava sull’incompatibilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. sulla base della sussistenza di una duplice valutazione dei medesimi aspetti, che avrebbe portato alla concessione indebita di doppi vantaggi all’imputato.

Tale aspetto è stato sconfessato in quanto, attraverso la trasformazione del quinto comma dell’art. 73 da circostanza attenuante speciale ad autonoma fattispecie di reato, è stata, altresì, prevista una specifica cornice edittale.

Inoltre, l’art. 62, n. 4, c.p. richiede la presenza di un ulteriore aspetto oltre alla tenuità dell’offesa (condiviso da entrambe le disposizioni), ossia l’essere il delitto determinato da motivi di lucro o l’aver, il soggetto attivo, perseguito o conseguito un lucro di speciale tenuità (cfr. Cass. sez. VI n. 24533/2017; sez. VI n. 36868/2017; sez. IV n. 11363/2018; sez. IV n. 5031/2019; sez. IV n. 38381/2019; sez. II n. 51174/2019).

 

3. Orientamento delle sezioni unite

Tutte le superiori considerazioni sono state analizzate dalle Sezioni Unite che, interrogate sul punto, hanno aderito all’orientamento favorevole alla compatibilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. con i reati in materia di stupefacenti e, più nel dettaglio, con l’art. 73, co. 5, D.P.R. n. 309/1990.

Le Sezioni Unite condividono le medesime considerazioni e ne aggiungono altre a sostegno.

In primo luogo, è necessario partire dall’esegesi della norma di parte generale e guardare alla ratio delle modifiche sulla stessa apportate.

Prima della modifica operata dalla L. n. 19/1990 sull’art. 62, n. 4, c.p., l’attenuante de qua veniva applicata solo ai delitti contro il patrimonio o che offendono il patrimonio.

Mediante tale modifica, si ribadisce che sono stati introdotti due profili ulteriori, estensivi dell’ambito di applicabilità, che hanno reso compatibile tale circostanza con i reati determinati da motivi di lucro, a condizione che il lucro perseguito o conseguito sia di speciale tenuità, così come lo sia l’evento dannoso o pericoloso prodotto.

Guardando alla Relazione illustrativa del disegno di legge propedeutico all’emanazione della L n. 19/1990, rubricato “Modifiche in tema di circostanze attenuanti, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti”, la ratio sottesa era quella di modificare simmetricamente l’art. 62, n. 4 c.p. e l’art. 61, n. 7 c.p., il quale prevedeva l’applicabilità dell’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità non solo ai reati contro il patrimonio, ma anche a quelli determinati da motivi di lucro.

Pertanto, in ragione del principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, la Corte ha sostenuto l’impossibilità di operare un’astratta distinzione tra i reati, in virtù del bene giuridico protetto, senza analizzare case by base le specifiche caratteristiche del singolo caso concreto.

In ordine all’aspetto dell’esistenza di reati di lieve entità in materia di stupefacenti, la Corte riprende l’assunto sostenuto dall’indirizzo favorevole, ossia la sussistenza di un’autonoma fattispecie di reato di lieve entità di cui all’art. 73, co. 5, D.P.R. n. 309/1990, confermata dall’applicabilità dell’art. 131 bis c.p., in presenza dei presupposti richiesti dalla norma.

L’applicazione di tale secondo istituto prescinde da ogni catalogazione in ordine al bene giuridico tutelato, richiedendo solo una specifica pena edittale ed il requisito della non abitualità del comportamento.

Rendendo applicabile tale disposizione ai reati in materia di stupefacenti, emerge chiaramente l’intento del legislatore di ravvisare anche in quella determinata materia delle fattispecie di particolare tenuità.

Inoltre, in materia è stato più volte richiamato il principio di offensività, “ribadendo che l’interprete delle norme penali ha l’obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente, e apprezzabilmente, offensivi” (Cass. S.U. n. 40354/2013; S.U. n. 13681/2016).

Pertanto, risulta chiaro che per l’applicazione dell’art. 131 bis c.p. non debba guardarsi alla catalogazione ermeneutica del reato, “in chiave archetipica”[3] , bensì alle concrete caratteristiche che vengono in rilievo nella fattispecie concreta, sulla base di un giudizio di utilità e necessità della relativa pena, indipendentemente dalla natura dell’interesse tutelato.

Tale considerazione prende le mosse dall’opinione di autorevole dottrina, confermata anche dalla giurisprudenza più recente, in tema di gradualità dell’offesa, che così dichiara “nella ricerca sul grado si esamina un fatto nelle eccezionali accidentalità del suo concreto modo di essere e nella individualità criminosa nella quale si estrinseca”; e, nel rispetto della legge, tale giudizio non può che essere rimesso al magistrato “perché l’uomo deve essere condannato secondo la verità e non secondo le presunzioni”. (cfr. Cass. S. U. n. 13681/2016).

Pertanto, la chiave di lettura che dovrà utilizzare il giudice è quella di verificare l’effettiva offensività del fatto ed il relativo grado nel singolo caso concreto, con la conseguenza che, sarà da considerarsi applicabile l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. ad ogni tipo di delitto commesso per motivi di lucro, indipendentemente dalla natura giuridica del bene tutelato, a condizione che la speciale tenuità riguardi il lucro perseguito o conseguito e/o l’evento dannoso o pericoloso (cfr. Cass. sez. V n. 44829/2014; sez. V n. 36790/2015; sez. V n. 27874/2016).

Quanto all’aspetto relativo alla compatibilità con la fattispecie di cui al quinto comma dell’art. 73 D.P.R. n. 309/1990, non è sostenibile l’argomentazione proposta dall’indirizzo negativo, che ritiene che vi sarebbe, in caso di condanna dell’imputato, una duplicazione nella valutazione degli elementi richiesti dalle due fattispecie.

La trasformazione in autonoma fattispecie di reato dell’ipotesi di produzione e spaccio di lieve entità di cui all’art. 73, co. 5, D.P.R. n. 309/1990, rispondeva alla necessità, sentita dal legislatore, di “riconoscere, a fronte del severo regime sanzionatorio previsto dalle altre norme incriminatrici contenute nel citato art. 73, diverse tipologie di condotte caratterizzate da specifiche e più adeguate previsioni edittali in funzione della loro ridotta offensività, nella consapevolezza del carattere variegato e mutevole del corrispondente fenomeno criminale e nella prospettiva di rendere il sistema repressivo in materia di stupefacenti maggiormente rispondente al principio costituzionale di proporzionalità della pena, evitando automatismi decisori nell’adeguamento della pena al fatto” (Corte Cost. n. 251/2012).

Le Sezioni Unite fanno proprio il ragionamento esplicitato dall’orientamento favorevole secondo il quale la modifica in autonoma fattispecie di reato fa sì che per quelle condotte sia già prevista una specifica cornice edittale, in modo che “l’attenuante comune in esame sia ormai destinata ad incidere sull’ordinario trattamento punitivo riservato a quelle condotte, sicché in tal caso non si verifica, come paventato dall’opposto indirizzo interpretativo, alcun cumulo di benefici sanzionatori tra loro concorrenti”. (Cass. S.U. n. 24990/2020).

Ad accogliere la tesi opposta si finirebbe per andare contro il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio.

Inoltre, l’impossibilità di condividere la tesi negativa risiede nella diversità dei presupposti necessari per integrare entrambe le fattispecie.

La diversità ontologica tra i requisiti si declina in tal modo: ai fini dell’analisi del requisito della lieve entità, nel reato di cui all’art. 73, co. 5, D.P.R. n. 309/1990, il giudice dovrà valutare la condotta e l’oggetto materiale del reato che, rispettivamente, fanno riferimento ai mezzi, alle modalità, alle circostanze dell’azione e alla qualità e quantità delle sostanze stupefacenti; mentre per l’applicazione dell’attenuante della speciale tenuità, i profili da analizzare sono diversi, ossia i motivi a delinquere e il profitto e, quindi, il lucro perseguito e/o conseguito e l’evento dannoso o pericoloso del reato.

Pertanto, ai fini della concessione dell’attenuante de qua è necessario che il giudice di merito offra un’adeguata motivazione sull’analisi dell’entità del lucro perseguito o conseguito nel caso concreto e sulla gravità dell’evento dannoso o pericoloso realizzato.

Inoltre, a conferma di quanto sopra sostenuto, si può ben dire che quando il legislatore ha voluto affermare l’incompatibilità di una disposizione con un’altra lo ha fatto espressamente e ne sono la prova anche diversi esempi nel nostro ordinamento[4].

Invece, nel caso di specie, al momento della trasformazione del comma quinto dell’art. 73 da circostanza attenuante ad autonoma fattispecie di reato, il legislatore non si è espresso sull’incompatibilità con l’art. 62, n. 2, c.p. e dunque, in virtù del principio “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, si può affermare la compatibilità tra le due disposizioni.

In conclusione, alla luce delle superiori considerazioni giurisprudenziali, dottrinali e normative, le Sezioni Unite hanno arginato il contrasto ed affermato il seguente principio di diritto “La circostanza attenuante del lucro e dell’evento di speciale tenuità è applicabile, indipendentemente dalla natura giuridica del bene oggetto di tutela, ad ogni tipo di delitto commesso per un motivo di lucro, compresi i delitti in materia di stupefacenti, ed è compatibile con la fattispecie di lieve entità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5”.

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Note

[1] Ci si riferisce alle attività indicate dal comma 1 dell’art. 73 che così recita “Chiunque senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste dagli articoli 75 e 76, sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e  III previste dall’articolo 14, è punito con la reclusione da otto a venti anni e con la multa da lire cinquanta milioni a lire cinquecento milioni”.

[2] Si fa riferimento alla salute pubblica, all’ordine pubblico, alla salvaguardia del sociale, alla sicurezza pubblica, ecc.

[3] Cass. S.U. n. 13681/2016.

[4] Tra questi, infatti, vi è la modifica dell’art. 19 D.P.R. n. 448/1988, ad opera del D. L. n. 146/2013, poi convertito in L. n. 10/2014 che ha previsto che la diminuente della minore età non si applichi all’art. 73, co. 5, D.P.R. n. 309/1990, ai fini della determinazione della pena rilevante per l’applicazione delle misure cautelari diverse dalla custodia in carcere per imputati minorenni.

Marika Zanerolli

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