Fedeltà del lavoratore subordinato: un dovere in evoluzione

Matteo Angeli 13/03/19
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L’obbligo di fedeltà del lavoratore ha come fonte principale l’art. 2105 cod. civ. che sancisce espressamente il divieto per il prestatore di lavoro di «trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio».

Ratio della norma è quella di tutelare l’interesse economico all’impresa, e in particolare l’interesse alla capacità di concorrenza dell’impresa e, dunque, alla sua posizione di mercato. La cooperazione, e dunque il rapporto fiduciario, tra il lavoratore subordinato e del datore di lavoro è nell’impostazione codicistica un elemento centrale del funzionamento economico dell’impresa: è evidente, infatti, come il raggiungimento del profitto aziendale sia elemento imprescindibile per l’erogazione della busta paga.

La norma in esame pone tre obblighi espressi, aventi tutto contenuto negativo (obblighi di non fare), in capo al lavoratore.

Divieto di trattare affari in concorrenza con il datore di lavoro

In primo luogo, l’art. 2105 cod. civ. prevede il divieto per il lavoratore di compiere attività a favore di terzi (sia durante sia fuori l’orario del lavoro) idonee ad entrare in conflitto con gli interessi economici del datore di lavoro.  Si tratta di un divieto ben diverso e più ampio da quello previsto dall’art. 2598 cod. civ.: il lavoratore non può intraprendere alcuna attività imprenditoriale in settore analogo a quello in cui è operante il datore di lavoro, indipendentemente che ciò rilevi ai fini della slealtà della concorrenza[1]. L’azione di responsabilità fondata sulla violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 cod. civ. ha infatti natura autonoma rispetto all’azione per concorrenza sleale: la prima ha carattere contrattuale e ha ad oggetto ogni attività concorrenziale, e non soltanto quelle costituenti illecito aquiliano ai sensi dell’art. 2598 cod. civ.; la seconda configura un illecito extracontrattuale tipizzato, che può concorrere con la prima, ma che non fino a condizionarne la sussistenza 2.

Qualora il datore di lavoro venga a conoscenza di una simile condotta[2], il licenziamento sarà senz’altro giustificato. 

Un aspetto controverso riguarda l’effettività della lesione procurata dalla condotta in concorrenza del lavoratore.

Secondo un primo orientamento sviluppato in seno alla Suprema Corte e oramai minoritario, infatti, ai fini della violazione dell’obbligo di fedeltà incombente sul lavoratore è sufficiente la mera preordinazione di un’attività contraria agli interessi del datore di lavoro che sia anche solo potenzialmente produttiva di danno[3]. Il lavoratore, dunque, si troverebbe estremamente limitato nella scelta di un’eventuale secondo lavoro: gli Ermellini hanno infatti riconosciuto la liceità del licenziamento del lavoratore subordinato per il semplice fatto di aver sottoscritto una partecipazione in una società di capitali svolgente attività concorrenziale rispetto a quella del datore

Un secondo orientamento della Corte di Cassazione, invece, richiede non già la mera potenzialità lesiva della condotta concorrenziale, ma è necessario che almeno una parte dell’attività concorrenziale sia stata compiuta, così che il pericolo per il datore di lavoro sia divenuto concreto durante la pendenza del rapporto[4]. In tal senso, dunque, sarebbe illegittimo l’addebito nei confronti del lavoratore dipendente a tempo parziale che, nel residuo orario disponibile, lavori nell’azienda del familiare, operante nello stesso settore del datore di lavoro, qualora concretamente non si profili un pur minimo animus nocendi, cioè una consapevolezza del danno arrecato al datore di lavoro originario, nonché l’espletazione di effettiva attività integrante concorrenza.

Ovviamente, il contenuto dell’obbligo di cui all’art. 2105 cod. civ. – che risulta comunque esteso ex lege anche alle ferie e all’eventuale fase di impugnazione del licenziamento potrà essere ulteriormente allargato anche oltre al termine del rapporto di lavoro mediante apposito patto di non concorrenza, secondo quanto disposto dall’art. 2125 cod. civ.

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Obbligo di segretezza

Secondo elemento del dovere di fedeltà è l’obbligo di segretezza in relazione alle informazioni di cui il dipendente viene a conoscenza in esecuzione delle proprie mansioni. La Cassazione, sul punto, si è espressa nel senso che il lavoratore è sottoposto ad un obbligo generale di riservatezza, riguardo tutti i documenti e le informazioni con cui il lavoratore entra in contatto, che, in virtù dell’art. 2105 cod. civ., assume tuttavia i confini di un obbligo specifico di segretezza quando concerne i documenti “che riguardino importanti e significativi aspetti caratterizzanti la realtà aziendale[5].

Integra dunque violazione dell’obbligo di segretezza la condotta del lavoratore che si impossessi di documenti del datore comunque conservati e nella riproduzione di essi a fini personali: in tale situazione, la prova della rilevanza – ai fini dell’esclusione della sanzionabilità – di fatti eccepiti dal lavoratore, è onere del medesimo secondo il principio distributivo dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. [6]

Non solo, ma la Suprema Corte ha ulteriormente allargato l’obbligo di segretezza anche ai comportamenti solo potenzialmente lesivi, i quali devono pertanto essere oggetto di censura: “L’impossessamento da parte del lavoratore di documenti aziendali di natura riservata implica la violazione dell’obbligo di fedeltà anche nell’ipotesi in cui la divulgazione non avvenga, perché impedita dall’immediato intervento del datore di lavoro.”[7]

In ogni caso, la Cassazione ha statuito che, nel caso in cui l’impossessamento di documenti aziendali da parte del lavoratore abbia come fine quello di esercitare il diritto di difesa in giudizio, occorra che il Giudice compia un bilanciamento tra la preminenza del diritto di difesa e l’esigenza di segretezza dell’azienda, anche valutando la legittimità se le modalità di impossessamento siano tali da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario o da costituire ipotesi delittuose.[8] Caso specifico affrontato dalla giurisprudenza è quella del lavoratore che si sia impossessato di documenti aziendali inerenti la propria posizione lavorativa, senza previo consenso del datore, al fine di utilizzarli in giudizio contro il datore stesso per controversie legate al rapporto di lavoro: tale condotta sarebbe legittima secondo il sindacato della Suprema Corte, in quanto va data preminenza al generale diritto di difesa costituzionalmente garantito, operandosi, pertanto, la scriminante dell’esercizio del diritto di cui all’art. 51 cod. pen., il quale ha valenza generale nell’ordinamento, senza essere limitata al mero ambito penalistico.

  • il “know how” del datore di lavoro

Il dovere di buona fede integra, infine, anche l’obbligo in capo al prestatore di lavoro di tenere segreti, con divieto di rivelazione e utilizzazione fuori dal lavoro nell’impresa, il cd.”know how[9].

L’obbligo di riservatezza riguarda sia i segreti aziendali, categoria cui si fanno rientrare le informazioni “esclusive” dell’azienda -perché brevettate e dunque oggetto di un diritto assoluto, cui è riservata dalla legge una tutela erga omnes per il titolare (art. 2584 cod. civ. e ss.), sia tutte le conoscenze non brevettate per espressa scelta dell’interessato, o non brevettabili, la cui diffusione potrebbe ugualmente arrecare danno all’attività imprenditoriale.

Si segnala, sul punto, che la Cassazione ha munito di sanzione penale ai sensi dell’art. 623 cod. pen., e dunque riconosciuto meritevole di tutela non solo civilistica, la condotta dell’ex dipendente di un’impresa che abbia rivelato ad altra concorrente, il know how acquisito, con la conseguenza che la rivelazione consentiva la progettazione e realizzazione di un’apparecchiatura dello stesso tipo e dotata delle stesse funzionalità ed applicazioni pratiche di quella impiegata della prima società presso la quale prestavano la propria collaborazione.

  • Contenuto residuale della norma

La portata dell’obbligo previsto dall’art. 2105 cod. civ. è stata ampliata dalla giurisprudenza di legittimità, fino a ricomprendere anche tutte quelle condotte «che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nella organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere il vincolo fiduciario del rapporto stesso». [10]

La Cassazione, infatti, ritiene che il contenuto dell’obbligo di fedeltà del lavoratore non si limiti ai solo divieti espressamente sanciti dalla norma in esame, perché detta norma deve essere integrata con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extra lavorativi.

In conformità a tale ampliamento del contenuto del vincolo fiduciario nell’ambito del lavoro subordinato, gli Ermellini hanno riconosciuto la legittimità del licenziamento di un dipendente il quale abbia esercitato il suo (pur legittimo, in linea di massima) diritto di critica nei confronti del datore di lavoro “superando i limiti della continenza sostanziale (nel senso di corrispondenza dei fatti alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva) e formale (nel senso di misura nell’esposizione dei fatti)” tanto da porre in essere una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, minando inesorabilmente il rapporto di fiducia. [11]

La fiducia in ambito lavoristico di cui all’art. 2105 cod. civ., è, dunque, un istituto in evoluzione, destinato ad abbracciare, secondo l’interpretazione monofilattica della Suprema Corte, un novero sempre maggiore di fattispecie, in un’ottica sempre più marca di corresponsabilità del destino dell’impresa tra il lavoratore e il datore di lavoro.

Note

[1] Cfr. Cass. Civ., sez. lav., 30/01/2017, n.2239 in Rivista di Diritto Industriale 2017, 6, II, 665: nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuta illegittima la condotta del dipendente di un albergatore che, in costanza del rapporto di lavoro, gestiva una propria struttura ricettiva rurale e collaborava con altri alberghi della zona, pur in assenza di sviamento di clientela) 2 Cfr. Cass. Civ. sez. lav.

[2] Si segnala, sul punto, che la Suprema Corte ha sancito che trattandosi di un comportamento illegittimo, posto in essere al di fuori dell’orario di lavoro, disciplinarmente rilevante e fonte di danni per il datore di lavoro, l’indagine sulla condotta del lavoratore può essere fatta anche tramite agenzia di investigazioni, senza che quindi agisca il divieto di cui agli artt. 2 e 3 Statuto dei Lavoratori: Cass. Civ. sez. lav. 22/05/2017, n.12810 in Giustizia Civile Massimario 2017

[3] Cfr. Cass. Civ. sez. lav., 30/01/2017, n.2239 in Rivista di Diritto Industriale 2017, 6, II, 665; Cass. Civ., sez. lav., 09/08/2013 n. 19096 in Diritto e Giustizia online 2013, 4 settembre; Cass. Civ. n. 1878/2005.

[4] Cfr. Corte appello Brescia sez. lav., 31/01/2019 in Redazione Giuffrè 2019; Cass. Civ. sez. lav., 09/03/2017, n.6091 in Guida al diritto 2017, 18, 72,; Conformi_ Cass. Civ., sez. lav., 26/08/2003, n. 12489; Cass. Civ., sez. lav., n. 2478/2008.

[5] Cfr. Cass. Civ. sez. lav. 22/05/2017, n.12804 in Diritto & Giustizia 2017, 23 maggio

[6] Cfr. Cass. Civ. sez. lav. 09/10/1991, n.10591 in Giust. civ. Mass. 1991, fasc. 10.

[7] Cfr. Cass. Civ. sez. lav. 13/02/2017 n. 3739 in Diritto & Giustizia 2017, 14 febbraio

[8] Cfr. Cass. Civ. 08/08/2016, n.16629 in Ilgiuslavorista.it 2016, 12 agosto

[9] Prendendo a prestito la definizione del legislatore europeo, il know how è il “patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove”(art. 1 del Reg. CE 772/04 relativo all’applicazione dell’art. 81 par. 3 del trattato CE).

[10] Cfr. Cass sez. lav. 30/10/2017, n.25759 in Diritto & Giustizia 2017, 31 ottobre 2017; conforme: Trib. Milano n. 3221/2011.

[11] Cfr. Cass. Civ. sez. lav.  18/07/2018, n.19092 in Diritto & Giustizia 2018, 18: nel caso di specie la Cassazione ha confermato il licenziamento del lavoratore che aveva proferito alla presenza del Direttore Generale e di un dipendente frasi ingiuriose all’indirizzo del primo, percepite da altri colleghi e da ospiti esterni, violando i doveri di diligenza buona fede e correttezza; conforme: Cass. Civ. sez. lav. 06/06/2018, n.14527.

Matteo Angeli

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