SOMMARIO: 1. Il diritto dei contratti e la normativa antitrust: tra private e public enforcement. – 2. Il provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2 maggio 2005: analisi e orientamento delle SS.UU. nella sentenza n. 2207/2005. – 3. Clausole ABI e sorte del contratto di fideiussione: l’orientamento del Tribunale di Roma nella sentenza n. 9354/2019. – 4. La nullità della fideiussione omnibus per violazione della normativa antitrust, alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali: sentenza n. 13846/2019. – 5. Segue: Suprema Corte di Cassazione, sentenza n. 22044/2019. – 6. Conclusioni.
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– Il diritto dei contratti e la normativa antitrust: tra private e public enforcement.
Il binomio diritto civile e normativa antitrust ha, da sempre, portato gli interpreti a sostenere la sussistenza di una intrinseca incomunicabilità, ritenendo tale accostamento irrealizzabile.
Si pensava che tra le norme disciplinanti il diritto della concorrenza – legge n. 287 del 1990 – e la regolamentazione degli atti di autonomia privata[1], vi fosse una mancanza di dialogo.
Tuttavia, in epoca recente, in virtù dell’ampia diffusione di strumenti negoziali che poggiano su entrambe le discipline, gli operatori del diritto hanno posto in rilievo come lo studio interdisciplinare sia fondamentale, al fine di avere una conoscenza completa. In sostanza, lo studio di una materia non può prescindere dall’altra.
L’approccio interpretativo appena illustrato consente di osservare che la funzione del contratto non possa essere compresa a pieno, se non integrata anche dalle disposizioni previste in materia della concorrenza. In tal senso, è stato sostenuto che il contratto si spogli della sua matrice prettamente privatistica e si arricchisca di peculiarità proprie della materia pubblicistica.
Da un lato, emerge l’interesse pubblico a garantire e tutelare il libero mercato da meccanismi che possano essere considerati distorsivi e, dall’altro, sorge l’esigenza di tutela della sfera giuridica del privato.
In particolare, il legislatore garantisce non solo la libera concorrenzialità – alla luce di quanto disposto dall’art. 41 della Costituzione[2] – ma altresì, l’autonomia contrattuale del privato – art. 1322 c.c.[3] – alla luce dei principi di correttezza, trasparenza, ragionevolezza equità e buona fede.[4]
È possibile notare come l’interesse pubblico e privato si intersechino e il primo riguardi, sempre con maggior pregnanza, il piano dell’attività giuridica dei privati. In particolare, il diritto pubblico costituisce strumento atto a conformare i contenuti, le patologie e altresì i rimedi – eventualmente – esperibili.
Alla luce di ciò, può rilevarsi che tra mercato e contratto sussista un vero e proprio nesso.[5]
Invero, seppur per lungo tempo gli interpreti hanno teso a separare l’interesse pubblico – superindividuale – e l’interesse privato, oggi tale distinzione netta non sussiste più.
La frattura tende inevitabilmente a comporsi, pertanto la autonomia dei privati – differentemente dal passato – “assurge anche a strumento preordinato alla realizzazione dell’interesse pubblico”.[6]
La possibilità che strumenti di natura privatistica possano realizzare e soddisfare l’interesse pubblico, comporta come diretta conseguenza la reciproca interazione tra il private e il public enforcement[7] del diritto della concorrenza.
Invero, non pare condivisibile l’idea secondo cui l’attuazione delle disposizioni antitrust debba essere affidata in via esclusiva o prevalente al soggetto pubblico, con conseguente supremazia delle sanzioni – comminabili dall’AGCM – rispetto ai rimedi.
In ordine a tale profilo, si sono sviluppati in dottrina orientamenti discordanti.
Secondo una prima impostazione ermeneutica il ruolo attribuito all’enforcement privato del diritto della concorrenza sarebbe limitato. In ragione di ciò, si è affermato che l’attuazione effettiva delle disposizioni antitrust debba essere affidata al soggetto pubblico, al fine di evitare il rischio che l’ambito applicativo si riduca a quello di un “diritto tra concorrenti”.[8]
A rigore di quanto sostenuto da un altro filone interpretativo, sarebbe necessario un rafforzamento del public enforcement con conseguente rinuncia dello strumento privatistico, sia in ragione dei minori costi, sia in ragione della maggior capacità di indagare e porre in luce gli – eventuali – illeciti.[9]
Infine, più cauta è l’impostazione secondo cui “scegliere di rafforzare l’enforcement privatistico a fronte di quello pubblicistico significa accettare che alcuni tipi di illeciti possano essere scoraggiati inevitabilmente più di altri (quelli per i quali più idoneo risulta il rimedio risarcitorio) e ciò a prescindere dalla perdita di benessere sociale che essi possono determinare”.[10]
Tuttavia, la recente evoluzione del diritto antitrust comunitario ha mostrato una progressiva valorizzazione anche della dimensione privatistica del modello di enforcement.
Invero, sia l’entrata in vigore del Regolamento Comunitario n. 1/2003[11] – cosiddetto regolamento di modernizzazione dell’antitrust europeo – sia le posizioni assunte dalla Corte di Giustizia Europea[12], hanno mostrato una generale tendenza a dare estrema rilevanza al private enforcement.
Questo invero è stato definito “alternativo”[13] poiché indirizzato alla tutela di posizioni individuali lese dall’altrui violazione anticoncorrenziale.[14]
In tale logica, l’antitrust viene considerato come strumento utile ma allo stesso tempo non sufficiente.
Il processo di privatizzazione del diritto antitrust europeo ha fatto sì che anche il controllo degli atti di autonomia[15] concorra a regolamentare il mercato.
Invero, l’entrata in vigore del Regolamento di cui si discorre e la giurisprudenza europea hanno determinato il delinearsi di un sistema misto di enforcement del diritto europeo della concorrenza, laddove al tradizionale meccanismo pubblicistico se ne affianca uno di tipo privatistico.[16]
In virtù di tali considerazioni può sostenersi che lo studio del rapporto intercorrente tra il diritto dei contratti e la normativa antitrust impone un’analisi degli strumenti di tutela, consentendo di vedere l’atto di autonomia privata e i rimedi eventualmente accordabili, sotto una luce differente.
La disamina deve essere modellata sul presupposto che la finalità ultima degli strumenti di tutela è quella di soddisfare interessi meritevoli, nel contesto dell’attività economica.
Ne consegue la possibilità di mettere in discussione l’impostazione tradizionale della problematica oggetto di indagine.
Siffatta prospettiva consente il ricorso ad un rimedio di tipo invalidante, quale la nullità. Tuttavia, i rimedi di cui si discorre necessitano di un adeguamento circa la loro tradizionale fisionomia, essendo necessaria una funzionalizzazione alla attuazione del principio del pacta sunt servanda e di “equità dello scambio”.[17]
In ragione di ciò, il concetto di nullità deve essere arricchito di significato. Invero, non viene inteso più solo quale rimedio sanzionatorio, ma gli viene attribuita una funzione rimediale, caratterizzata da flessibilità.[18]
La necessità di prestare adeguata protezione verso il soggetto debole del rapporto contrattuale – sub specie colui che si trovi a stipulare un contratto con un’impresa che abbia abusato, in maniera illecita, del libero esercizio dell’attività economica – trova giustificazione nell’ art. 2 della Costituzione, il quale sancisce il principio di solidarietà.
Pare, pertanto, evidente come gli interpreti preferiscano strumenti di tutela volti a correggere gli squilibri contrattuali e altresì in grado di garantire l’equilibrio del mercato, mediante la certezza degli scambi.
Tali correzioni debbono avvenire senza, tuttavia, ledere l’interesse dei contraenti a mantenere in vita l’accordo negoziale e quindi nel rispetto del principio di conservazione del contratto, il quale trova esplicito fondamento normativo nell’art. 1367 c.c.[19].
La norma de qua impone all’interprete – in caso di clausole di dubbia interpretazione – di privilegiare (tra i significati possibili) quello più utile a preservare il contratto. Ossia, quello che consente il dispiegarsi degli effetti dello stesso. Il principio di conservazione dovrebbe essere inteso come miglior effetto possibile riguardo al caso concreto.
Tuttavia, deve negarsi che la disposizione in esame possa condurre ad una interpretazione sostitutiva delle pattuizioni dei contraenti.
Invero, il principio di cui si discorre può consentire di mantenere il contenuto del contratto, ma non può apportare modifiche, determinando una trasformazione dell’accordo negoziale.[20]
Conclusa questa digressione, occorre tornare all’oggetto dell’indagine.
Come già sostenuto, è opportuno preferire il ricorso a rimedi che garantiscano la certezza degli scambi e tutelino la parte debole del rapporto contrattuale. È necessario, pertanto, dare attuazione ai principi generali dell’ordinamento, ivi compresi quelli di derivazione sovranazionale, e segnatamente quelli di solidarietà, di conservazione, di proporzionalità e, altresì, il generale divieto di abuso di posizione economica.
Le predette considerazioni sono avvallate non solo dall’odierno diritto dei contratti, ma altresì dalla dottrina più recente.
Gli interpreti, invero, hanno sottolineato come la gestione degli strumenti rimediali non possa essere affidata a meri criteri formalistici, riguardanti diritti e obblighi, ma richieda un quid pluris: l’uso della proporzionalità e della ragionevolezza.
Al riguardo, è doveroso richiamare il canone generale di buona fede[21], che svolge un ruolo di non poco momento.
Invero, la buona fede, insieme agli usi e l’equità (art. 1374 c.c.), è fonte di eterointegrazione del contratto.[22]
Come tale, consente di arricchire di contenuto le pattuizioni negoziali, facendo sorgere obblighi ulteriori rispetto a quelli previsti dall’accordo.[23]
Tale regola comportamentale è volta a prevenire sia lo squilibrio del rapporto concreto, sia la distorsione della concorrenza, la quale è in grado di determinare una alterazione del mercato.
La clausola generale di cui si discorre “si sovrappone al programma contrattuale, così come delineato dalle parti contrattuali e/o da quella di esse che si appalesa più forte”.[24]
In caso di violazione e dei principi generali in materia contrattuale e della disciplina antitrust, occorre rilevare che la scelta della tutela rimediale dovrà essere effettuata alla stregua di un approccio casistico, derivante dall’analisi del caso concreto e dal tipo di effetti derivanti dalla violazione della disciplina anticoncorrenziale.
Alla luce di tali considerazioni, non è possibile escludere aprioristicamente nessuna forma di tutela, preferendo un rimedio rispetto ad un altro.[25]
Ratio di tale impossibilità di preferenza in ordine ai rimedi esperibili deriva, altresì, dalla contaminazione che il diritto interno degli Stati membri ha subìto da parte del diritto europeo.
In particolare, deve evidenziarsi l’influenza che il diritto dell’Unione Europea ha esercitato sul diritto dei contratti[26], sia mediante Trattati, Regolamenti, direttive e altresì quelle disposizioni rientranti nel novero delle cosiddette soft law, tra cui è possibile annoverare i Princìpi del commercio internazionale formulati dall’ UNIDROIT (International Institute for the Unification of Private Law).[27]
In particolare, in ragione di tale contaminatio si prospetta un concorso tra i rimedi esperibili.
I predetti princìpi UNIDROIT dettano una disciplina “generale” dei rimedi e delineano un ordine degli stessi, prevedendo – altresì in caso di incompatibilità – la possibilità di un cumulo.[28]
In ordine a ciò, il rimedio risarcitorio viene considerato quale rimedio maggiormente in grado di convivere con gli altri rimedi; mentre il rimedio della nullità di protezione viene inteso – alla stessa stregua del risarcimento per equivalente – quale strumento volto a garantire l’efficacia del “contratto a valle”.
La ratio di tali strumenti deve essere ricercata nella esigenza di accordare una maggiore ed efficiente tutela al contraente debole del rapporto contrattuale.[29]
I singoli rimedi, pertanto, assolvono la funzione “di conformazione del mercato e di tutela delle concrete debolezze”[30], influenzando direttamente il concreto atteggiarsi delle tutele.
In altre parole, l’interprete – mediante un approccio di tipo casistico – deve svolgere un giudizio di efficienza, individuando e scegliendo il rimedio che più si attaglia al caso concreto. In sostanza, la scelta dei rimedi deve cadere su quelli che siano funzionali a garantire, alla parte lesa, una tutela efficace e piena.
Alla luce delle considerazioni fin qui esposte, può agevolmente sostenersi che il danno da contrattazione può essere ristorato mediante la dichiarazione di invalidità dello stesso, mediante la tutela specifica e per equivalente.
“Nessuna tecnica è esclusiva, nessuna è pregiudiziale; tutte vanno considerate per la capacità in concreto di riparare il danno.”[31]
– Il provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2 maggio 2005: analisi e orientamento delle SS.UU. nella sentenza n. 2207/2005.
Con provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005[32], la Banca d’Italia[33] ha dichiarato la contrarietà con la legge antitrust – nella specie con l’art. 2, comma 2, lett. a) – degli articoli 2 (cosiddetta clausola di “reviviscenza”)[34], 6 (rinuncia ai termini ex art. 1957 c.c.)[35] e 8 (cosiddetta clausola di “sopravvivenza”)[36] dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie, note anche come fideiussione omnibus.[37]
In particolare, nel provvedimento[38] si è sostenuto che le disposizioni contenute negli articoli sopra menzionati integrassero gli estremi di una intesa restrittiva e come tale vietata dall’ordinamento.
La notevole diffusione dei contratti di fideiussione contenenti la clausola omnibus, stipulati mediante il ricorso al modello ABI di cui si discorre, ha determinato il sorgere di una diatriba giurisprudenziale.
In particolare, sono stati sollevati innumerevoli dubbi in ordine alla loro validità.
La problematica è stata affrontata a più riprese dalla giurisprudenza, la quale è – spesso – arrivata a conclusioni contrastanti e discordanti tra loro.
Da una disamina del provvedimento sanzionatorio adottato dalla Banca d’Italia, si evince che lo stesso si caratterizza per una elevata attitudine a provare tanto la condotta anticoncorrenziale, quanto l’astratta idoneità della stessa a procurare un danno ai consumatori.
Questo consente di presumere, senza violazione del principio praesumptum de praesumpto non admittitur,[39] che dalla condotta anticoncorrenziale sia scaturito un danno per la generalità degli assicurati, nel quale è ricompreso, come essenziale componente, il pregiudizio subito dal singolo assicurato.[40]
L’accertamento dell’esistenza di una intesa restrittiva, a seguito dell’emanazione del provvedimento della Banca di Italia, ha posto un primo problema – affrontato dalla giurisprudenza – afferente alla legittimazione ad agire del consumatore. Al riguardo, invero, si sono sviluppati diversi filoni interpretativi.
La problematica è stata affrontata in una importante pronuncia dalle Sezioni Unite: la n. 2207 del 4 febbraio 2005.
Con tale decisione, le Sezioni Unite – dirimendo un contrasto sorto in seno alle proprie sezioni – hanno mostrato segni di apertura in ordine alla possibilità di ricorrere a nuovi strumenti di tutela, azionabili da parte dei consumatori nei confronti degli imprenditori.
Invero, da quel momento in poi, si è ritenuto che la legge 287/1990 si muovesse in una duplice direzione: da un lato verso gli imprenditori, dall’altro lato verso i consumatori. In particolare, è stato sostenuto – in maniera unanime – sia in dottrina sia in giurisprudenza che si trattasse di una legge posta a presidio non della sola posizione dell’imprenditore, ma degli operatori del mercato, ricomprendendo dunque anche i consumatori.
Alla luce di ciò, può agevolmente evincersi che, secondo l’impostazione adottata dalla Cassazione, ogni individuo – imprenditore o consumatore – avente un interesse processuale rilevante, sarebbe legittimato ad agire in giudizio, a fronte di una presunta o riscontrata violazione delle disposizioni in materia antitrust.
Pertanto, allorché si verifichi un’anomalia nel funzionamento del mercato, anche il consumatore sarà legittimato a proporre l’azione volta ad ottenere la dichiarazione di nullità delle pratiche commerciali anticoncorrenziali.
I giudici precisano, inoltre, che il consumatore non solo potrà agire mediante l’azione volta ad accertare la nullità, ma potrà proporre altresì l’azione risarcitoria al fine di ottenere il ristoro dei danni patiti in ragione di tali pratiche.
La Suprema Corte, pertanto, ammettendo una tutela piena in favore del consumatore, ha riconosciuto la risarcibilità dell’interesse di questo a “non vedere turbata la concorrenza”.[41]
Tuttavia, a tale apertura manifestata dai giudici hanno corrisposto dei limiti.
Invero, in una importante pronuncia[42], la giurisprudenza ha evidenziato le difficoltà processuali che la norma oggetto di analisi può porre in capo al consumatore che decida di agire in giudizio, ai sensi dell’art. 33 l. 287 del 1990.
In particolare, si è rilevato che sussistono dei nodi irrisolti in ordine alla concreta esperibilità dell’azione.[43]
Tuttavia, tutte le perplessità afferenti alla possibilità, per il consumatore, di esperire alcuna azione a fronte di una condotta anticoncorrenziale, vengono risolte positivamente con la sentenza oggetto di analisi.
A tenore di quanto sostenuto dalle Sezioni Unite, il cosiddetto contratto “a valle” deve essere considerato quale sbocco della intesa anticoncorrenziale e risulta essenziale per la realizzazione degli effetti.
Il contratto di fideiussione, dunque, non solo è volto ad esternalizzare l’intesa, ma addirittura è in grado di attuarla.[44]
Vale la pena rilevare, che il divieto posto dal legislatore in ordine alle intese è rivolto solo a quelle che siano volte ad impedire, restringere ovvero falsare in maniera significativa il gioco della concorrenza. Pertanto, non vi è una limitazione a “carattere generale” per la creazione di intese.
Invero, è necessario che si concretizzi una vera e propria alterazione del mercato, da cui derivi uno squilibrio dello stesso.
Tali considerazioni consentono di evidenziare la stretta connessione tra le disposizioni della legge antitrust e quelle contenute nel Trattato CE, in particolare l’art. 81.
Le due disposizioni in esame, infatti, risultano accomunate dall’oggetto che le stesse sono volte a tutelare, ossia la struttura concorrenziale del mercato di riferimento. Tuttavia, deve evincersi che tale tutela può essere accordata solo a fronte di un comportamento che, rispondendo alla fattispecie astratta, sia in grado di incidere in concreto e in maniera significativa sull’assetto del mercato.
In virtù di tali considerazioni, può asserirsi che non è sufficiente che si verifichi l’alterazione di una “piccola porzione” del mercato, ma è necessario che il pregiudizio sia di dimensioni consistenti[45], dando luogo ad una vera e propria lesione degli equilibri del mercato.
Peraltro, deve riconoscersi che da un’intesa vietata può derivare non solo l’alterazione del mercato, ma altresì la lesione del patrimonio del singolo.
In punto di giurisdizione, è stata richiamata un’impostazione improntata al sistema del doppio binario di tutela, di cui alla legge sul Contenzioso Amministrativo del 1865 n. 2248 artt. 4 e 5, coerente, quindi, con la legge comunitaria n. 142 del 1992.[46]
In particolare, si è fatto riferimento alla contrapposizione tra G.O. – deputato a conoscere di diritti soggettivi – e il G.A. – posto a presidio degli interessi legittimi.[47]
Il doppio binario di tutela consente a coloro che non hanno partecipato al giudizio innanzi alla G.A., perché carenti di interesse – come i terzi estranei all’intesa – di potersi avvalere processualmente della prova, raccolta in quel giudizio, non ostando in tal senso l’art. 125 della Carta Costituzionale.[48]
Le Sezioni unite hanno concluso affermando che la diversità di ambito e di funzione tra la tutela codicistica dalla concorrenza sleale e quella garantita dalla legge antitrust, non consente di escludere la possibilità per il terzo consumatore di poter esperire l’azione davanti al G.O., ai sensi dell’art. 33 n. 2 della legge n. 287 del 1990.
Deve rilevarsi che nella pronuncia oggetto di indagine, gli ermellini hanno definito il consumatore quale “acquirente finale del prodotto offerto al mercato”.
La realizzazione di una intesa illecita determina, come naturale conseguenza, l’impossibilità per il consumatore di determinarsi liberamente nella scelta dei prodotti.
Invero, la scelta del consumatore è solo apparente poiché indirizzata delle disposizioni dell’intesa.
Alla luce di ciò, il contratto “a valle” non può essere considerato totalmente sconnesso dall’intesa, da cui di fatto deriva.
Esiste, invero, un collegamento funzionale con la volontà anti-competitiva che sta a monte, rispetto alla quale risulta inscindibile.[49]
La necessità di accordare una tutela pregnante volta a garantire sia la alterazione degli equilibri dell’economia, sia la lesione del singolo consumatore consente di spiegare il regime di doppia tutela in virtù del quale da un lato si pone l’intervento amministrativo da parte della Banca d’Italia o della AGCM; dall’altro quello riparatorio del giudice ordinario mediante le azioni di nullità e risarcimento.
L’Autorità Garante è organo di amministrazione, in grado di esercitare ampi poteri sui generis, tra cui quello di applicare sanzioni, e di intervenire ogni volta che si verifichi il fenomeno distorsivo del mercato.
Per poter adire il giudice ordinario, per contro, è necessaria la allegazione di un’intesa di cui si chiede la nullità, e altresì il suo effetto pregiudizievole, che costituisce l’interesse ad agire dell’attore, secondo i principi del processo. Come già sostenuto oltre alla predetta azione, il consumatore potrà esercitare l’azione risarcitoria, finalizzata ad ottenere il ristoro dei danni patiti.
Al riguardo, sono sorti non pochi dubbi interpretativi in ordine alla qualificazione di tale forma di responsabilità.
Senza soffermarsi, ora, sulla natura dell’azione risarcitoria, occorre affermare che un primo filone interpretativo l’ha qualificata come responsabilità da inadempimento, ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Una seconda e differente impostazione l’ha ricondotta nel novero della responsabilità aquiliana. E, infine, vi è anche chi ha provato ad individuare tratti comuni con la responsabilità precontrattuale di cui agli artt. 1337 e 1338 del codice civile.[50]
Prescindendo, a tal punto della dissertazione, dall’aderire ad uno dei predetti filoni interpretativi, deve qui affermarsi che il consumatore ha la possibilità di ottenere tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo (secondo le disposizioni contenute nel Codice del processo amministrativo) e altresì quella di proporre – davanti al Tribunale competente per territorio – l’azione di nullità, di risarcimento del danno e i ricorsi volti ad ottenere i provvedimenti di urgenza.
– Clausole ABI e sorte del contratto di fideiussione: l’orientamento del Tribunale di Roma nella sentenza n. 9354/2019.
Con la sentenza n. 9354 del 3 maggio 2019, il Tribunale di Roma ha rilevato la nullità parziale della fideiussione – stipulata in favore dell’istituto di credito – nella quale si è previsto l’inserimento delle clausole contrattuali presenti nello schema di contratto predisposto dall’ABI nel 2003, secondo un modello che la Banca d’Italia, con provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, aveva ritenuto essere contrastante con il divieto di intese anticoncorrenziali.
Secondo quanto sostenuto dal Tribunale di Roma, la nullità parziale della fideiussione afferisce alle sole clausole riferibili agli articoli 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI.
La predetta sentenza oggetto di indagine contiene – rispetto a precedenti pronunce in materia – un elemento di novità, ossia la prova – da parte del fideiussore – che le predette intese siano confluite nel contratto di cui si chiede l’accertamento della nullità e, altresì, della lesione della sua libertà contrattuale.
Fino ad allora, sia la giurisprudenza di merito che quella di legittimità, avevano ritenuto viziati da nullità assoluta i contratti di fideiussione contenenti le clausole di cui si discorre.
In particolare, da un lato, la Cassazione – a più riprese – aveva rilevato che non fossero esclusi dall’accertamento della nullità (ai sensi dell’art. 2 comma 3 della legge antitrust) i contratti che costituivano applicazione “a valle” di una intesa vietata, per il solo fatto di essere stati stipulati anteriormente al riconoscimento della illiceità dell’intesa da parte dell’Autorità Garante.
Dall’altro lato, la giurisprudenza di merito precisava che ciò che rileva ai fini della dichiarazione di nullità del contratto di fideiussione, è l’illiceità della condotta anticoncorrenziale, posta in essere dall’istituto di credito.
La sentenza in commento sembra superare – seppur timidamente – la precedente impostazione giurisprudenziale, la quale – come già sostenuto – aveva considerato il contratto di fideiussione, contenente le clausole mutuate dallo schema di contratto predisposto dall’ABI nel 2003, viziato da nullità assoluta.
Il Tribunale di Roma, dunque, si è discostato dall’orientamento fino ad allora prevalente, per prediligere una impostazione che, in un’ottica del principio di conservazione del contratto ex art. 1367 c.c., è propensa a salvaguardare le clausole contrattuali non adottate in violazione della disciplina antitrust.
Rilevando la “mera” nullità parziale, solo in relazione alle clausole in parola, i giudici hanno collegano tale vizio alla prova, da parte del garante, che le intese bancarie dell’ABI siano – effettivamente – confluite nel contratto di fideiussione e che le predette intese abbiano leso e compresso la libertà contrattuale del consumatore.
In particolare, la nullità in parola deriverebbe dalla violazione di una norma imperativa, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c. e, in particolare, della norma ritenuta di ordine pubblico economico contenuta all’art. 2, comma 2, lett. a) della legge antitrust.
Tuttavia, deve rilevarsi che l’indirizzo adottato dal Tribunale di Roma non sia completamente innovativo. Invero, alla nullità parziale – in luogo di quella assoluta – era già ricorsa altra giurisprudenza di merito.[51]
Gli interpreti ritengono, tuttavia, che tale orientamento sia stato foriero del radicale revirement.
A parere dello scrivente, tale impostazione interpretativa, improntata alla conservazione del contratto di garanzia, pare più aderente ai principi cardine su cui poggia l’intera materia contrattualistica.
A questo punto della trattazione, occorre qui richiamare l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 29810 del 2017, la quale ha elaborato il principio di diritto secondo cui “in tema di accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali vietate dalla L. n. 287 del 1990, art.2, la stipulazione “a valle” di contratti o negozi che costituiscano l’applicazione di quelle intese illecite concluse “a monte” (nella specie: relative alle norme bancarie uniformi ABI in materia di contratti di fideiussione, in quanto contenenti clausole contrarie a norme imperative) comprendono anche i contratti stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa da parte dell’Autorità indipendente preposta alla regolazione o al controllo di quel mercato (nella specie, per quello bancario, la Banca d’Italia con le funzioni di Autorità garante della concorrenza tra istituti creditizi, ai sensi della L. n. 287 del 1990, articoli 14 e 20, (in vigore fino al trasferimento dei poteri all’AGCM, con la L. n. 262 del 2005, a far data dal 12 gennaio 2016) a condizione che quell’intesa sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato come nullo, considerato anche che rientrano sotto quella disciplina anticoncorrenziale tutte le vicende successive del rapporto che costituiscano la realizzazione di profili di distorsione della concorrenza”.[52]
Ai fini di una più completa comprensione, la predetta ordinanza non può prescindere da un coordinamento con la già citata disposizione dell’art. 2 legge antitrust, la quale si limita a dichiarare la nullità delle intese, ma nulla stabilisce in relazione ai negozi stipulati tra il consumatore e la banca, successivamente a dette intese.
Al riguardo, giova richiamare la recente giurisprudenza di merito – sentenza n. 265 del Tribunale di Forlì[53] – con la quale i giudici non hanno ritenuto possibile dichiarare la nullità della fideiussione omnibus.
In particolare, il Tribunale ha osservato che sebbene l’art. 1418 comma 1 c. c. sanzioni con la nullità la violazione di norme imperative – non ponendo in dubbio che l’art. 2 legge n. 287/90 costituisca norma imperativa – la violazione del canone di buona fede non comporti necessariamente la radicale nullità.[54]
I giudici, richiamando i principi elaborati da una sentenza del Tribunale di Treviso[55], hanno sostenuto che sia necessario distinguere tra norme di comportamento e norme di validità del contratto: le prime non attenendo alla struttura e al contenuto del negozio, non sono in grado di incidere sulla valida genesi del titolo negoziale.
Nel caso di specie, il Tribunale ha osservato si trattasse di violazione di norme di comportamento. Invero, le clausole di cui si discorre non presentano di per sé elementi che ne determinino la nullità, ma in ragione della loro formulazione sarebbero perfettamente valide. La loro illegittimità deriverebbe, invece, da una circostanza esterna al negozio, e cioè dal fatto che esse corrispondano ad intese volte ad alterare il normale equilibrio della concorrenza.
In ordine al negozio concluso a “valle”, il Tribunale di Forlì ha – peraltro – evidenziato non si trattasse di un negozio volto ad attuare intese di tal fatta, ossia anticoncorrenziali.[56]
I giudici hanno sostenuto che solo una tra le parti del contratto “a valle” avesse interesse a dare esecuzione all’intesa illecita, ossia l’istituto di credito.
La funzione del negozio – comune ad entrambi i contraenti – è quella di garantire una certa operazione negoziale. Pertanto, le clausole di per sé non sono in grado di violare alcun requisito strutturale o di contenuto.
Alla luce di ciò non parrebbero integrate le ipotesi di cui all’art. 1418, comma 2 c.c.
A tenore di quanto sostenuto dai giudici, il negozio “a valle” costituirebbe lo sbocco delle intese anticoncorrenziali ma solo eventualmente per la banca, non per il cliente.
Il Tribunale ha, poi, concluso affermando che non sussistano i presupposti per dichiarare la nullità assoluta delle clausole oggetto di indagine.[57]
Alla luce dei rilevi svolti dalle richiamate pronunce, può sostenersi che al fine di dichiarare viziato il contratto di garanzia, sarà necessario accertare l’esistenza di un nesso di dipendenza funzionale tra il contratto stesso e l’intesa “a monte” che lo ha originato.
Come chiaramente esposto dalla citata sentenza del Tribunale di Treviso, “un contratto che sia stato validamente perfezionato, presenti i requisiti strutturali di validità previsti dalla legge e non persegua in sé una causa illecita o immeritevole per l’ordinamento giuridico, non può subire effetti invalidanti in dipendenza dell’accertamento della nullità o della caducazione di un rapporto giuridico diverso, intercorso tra terzi e dal quale non vi è prova sia derivato”.[58]
Pertanto, il contratto di fideiussione – seppur contente clausole corrispondenti a quelle previste dallo schema predisposto dall’ABI – sarà ritenuto esente da vizi ogni volta in cui manchi un concreto nesso di dipendenza o quantomeno un collegamento con le intese ABI.
– La nullità della fideiussione omnibus per violazione della normativa antitrust, alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali: sentenza n. 13846/2019.
A questo punto della trattazione, occorre dare conto di una recentissima pronuncia della Suprema Corte di Cassazione: la sentenza n. 13846 del 22 maggio 2019.
La predetta pronuncia ha portato i giudici di legittimità ad esprimersi – di nuovo – in ordine alla questione riguardante la nullità dei contratti di fideiussione redatti secondo il noto modello predisposto dall’ABI nel 2003. Tale pronuncia è stata foriera di nuove e importanti riflessioni in ordine al regime probatorio.
Deve rammentarsi che da tempo – con l’ormai noto provvedimento n. 55 del 02 maggio 2005 – la stessa Banca d’Italia (la quale si ricorda sino al 2006 operava quale autorità garante della concorrenza tra gli istituti di credito)[59], aveva rilevato che l’applicazione uniforme da parte delle banche del modello di fideiussione omnibus – predisposta dall’ABI nel 2003 – concretasse un’intesa restrittiva della concorrenza da parte degli stessi istituti di credito, i quali, di fatto, hanno finito col proporre ai propri clienti le medesime condizioni di contratto, in evidente violazione all’art. 2 della c.d. Legge antitrust (l. 287/1990).
Tuttavia, tale provvedimento non aveva imposto alcuna sanzione nei confronti delle banche, le quali – di conseguenza – hanno continuato ad utilizzare i predetti modelli.
Nonostante il provvedimento non prevedesse alcuna sanzione, il comportamento degli istituti creditizi è stato più volte censurato dalla giurisprudenza la quale, anche con la sentenza in commento, ha decretato la totale nullità di tali contratti.
I giudici di legittimità hanno rilevato che la dichiarazione di nullità del contratto “a valle”, non possa prescindere – almeno in via preliminare – dall’accertamento della illiceità dell’intesa.
Invero, nella già citata ordinanza n. 29810/2017, la Cassazione aveva sostenuto che: “qualsiasi forma di distorsione della competizione di mercato, in qualunque forma essa venga posta in essere, costituisce comportamento rilevante ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 2 della legge antitrust”.[60]
Orbene, pare ora fondamentale ricordare che con la recente sentenza oggetto di disamina, i giudici di legittimità hanno cassato con rinvio una sentenza della Corte d’Appello di Brescia, enunciando il seguente principio di diritto: “in tema di accertamento dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dall’art. 2 della l. n. 287/1990, con particolare riguardo a clausole relative a contratti di fideiussione da parte delle banche, il provvedimento adottato dalla Banca d’Italia prima della modifica di cui all’art. 19, comma 11, l. n. 262/2005, possiede, al pari di quelli emessi dall’Autorità Garante per la Concorrenza, una elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle misure sanzionatorie che siano pronunciate, e il giudice del merito è tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter limitare il suo esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo all’attuazione, o non attuazione, della prescrizione contenuta nel provvedimento amministrativo con cui è stato imposto all’ABI di estromettere le clausole vietate dallo schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario”.[61]
Da un primo esame della sentenza può evincersi che anche la pronuncia in oggetto dichiara la nullità dei contratti fideiussori redatti secondo il modello ABI.
Deve rilevarsi che la Corte ha propeso per l’automatica nullità di queste tipologie contrattuali, non ritenendo necessario un accertamento in ordine alla concreta illegittimità delle clausole.
La valutazione sul merito, invero, sarebbe già stata effettuata a monte dalla Banca d’Italia con il provvedimento più volte richiamato e pertanto non sarebbe necessaria alcuna valutazione in concreto da parte dell’autorità giudiziaria.
Vale la pena rilevare che la pronuncia in oggetto – dopo aver asserito la nullità dei negozi oggetto di disamina – si è occupata prevalentemente di questioni processuali afferenti alla rilevanza probatoria del provvedimento della Banca d’Italia del 2 maggio 2005.
Invero, si è osservato che tale provvedimento possieda grande attitudine a dare prova della condotta anticoncorrenziale, al pari dei provvedimenti emessi dall’AGCM.
Nella specie, tale attitudine prescinde dal fatto che siano state indicate misure sanzionatorie.
Alla luce di ciò, il giudice di merito deve apprezzarne il contenuto nel suo complesso, non potendosi limitare ad un accertamento parziale, afferente solo a parti di esso. L’accertamento ha ad oggetto la coincidenza tra le clausole contrattuali e le condizioni dell’intesa restrittiva. Invero, il giudizio deve prescindere dalla circostanza che l’istituto di credito abbia dato attuazione o meno alle prescrizioni con cui si imponeva all’ABI di estromettere le clausole ritenute contrarie alla normativa antitrust.
Si è osservato, inoltre, che nel giudizio instaurato ai sensi del secondo comma del art. 33, per il risarcimento dei danni derivanti da intese restrittive della libertà di concorrenza, le conclusioni dell’AGCM costituiscano prova di natura “privilegiata”, in relazione alla sussistenza del comportamento accertato, ovvero della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso.
In sostanza, il provvedimento sanzionatorio, adottato dall’Antitrust, possiede un’elevata attitudine a provare tanto la condotta anticoncorrenziale, quanto l’astratta idoneità della stessa a procurare un danno ai consumatori e – di conseguenza – consente di presumere, che dalla condotta anticoncorrenziale sia scaturito un danno per la generalità degli assicurati.
Ciò premesso, la Prima Sezione ha rilevato due errori giuridici nell’impugnata sentenza: l’impropria valorizzazione della mancata presenza, all’interno del provvedimento di Banca d’Italia, di diffide o sanzioni; la mancata prova della circostanza per cui, contravvenendo a quanto prescritto dalla Banca d’Italia, l’ABI avrebbe ugualmente diffuso il testo delle condizioni generali del contratto di fideiussione, contenente le clausole oggetto dell’intesa restrittiva.
Relativamente alla prima questione, gli ermellini hanno evidenziato che i fatti accertati e le prove acquisite nel corso del procedimento amministrativo non siano più controvertibili, né utilizzabili a fini e con senso diverso da quello attribuito nel provvedimento stesso.
Ancora: “la circostanza che il singolo utente o consumatore sia beneficiario della normativa in tema di concorrenza comporta pure, al fine di attribuire effettività alla tutela dei primi ed un senso alla stessa istituzione dell’Autorità Garante, la piena utilizzabilità da parte loro, una volta accertate condotte di violazione della normativa di settore posta anche a loro tutela, degli accertamenti conseguiti nel procedimento di cui pure non sono stati formalmente parte”.
La natura di prova privilegiata, conferita agli atti del procedimento pubblicistico, non consente che possano rimettersi in discussione i fatti costitutivi posti a fondamento della esistenza di una intesa anticoncorrenziale.
Anche in tale sede, i giudici di legittimità hanno ribadito che il contratto “finale” – stipulato tra imprenditore e consumatore – costituisca il compimento dell’intesa anticoncorrenziale e anticompetitiva realizzatasi a monte.
In ragione di ciò, non è possibile teorizzare una profonda cesura tra quest’ultimo e il contratto “a valle”.
In via generale, deve osservarsi che la prova dell’intesa illecita non costituisce automatica prova della nullità del contratto “a valle” e viceversa.
Questo significherebbe contraddire l’intero assetto, comunitario e nazionale, della normativa antitrust, posta a tutela non solo dell’imprenditore, ma di tutti i partecipanti al mercato.[62]
In definitiva, ciò che assume rilievo dirimente – affermano i giudici – è l’accertamento dell’intesa restrittiva da parte di Banca d’Italia e non, per contro, la circostanza eventuale che, nell’ambito dell’accertamento conclusivo dell’istruttoria, siano state pronunciate diffide o sanzioni.
Pertanto, la Prima Sezione evidenzia come, ai fini dell’accertamento dell’inefficacia delle clausole contestate, a dover assumere rilievo sia unicamente la circostanza che esse costituiscano lo sbocco dell’intesa vietata, e, cioè, che per il loro tramite siano stati implementati gli effetti della condotta illecita.
– Segue: Suprema Corte di Cassazione, sentenza n. 22044/2019.
Da ultimo – ai fini di una visione (si spera) completa della materia oggetto di indagine, deve darsi conto del più recentissimo orientamento della Suprema Corte di Cassazione, adottato con la pronuncia n. 22044 del 26 settembre 2019.
La sentenza oggetto di analisi ha imposto agli ermellini di intervenire – ancora una volta – sulla questione della nullità della fideiussione, redatta seguendo lo schema ABI, in palese contrasto con la normativa antitrust.
I Giudici di legittimità hanno osservato, con ampia motivazione, che la nullità del contratto di fideiussione può essere solo parziale, facendo proprie parte delle conclusioni della pronuncia n. 13846 del 2019 ed escludendo la possibilità che possa configurarsi una nullità in toto della fideiussione.
Invero, il Supremo Collegio ha sostenuto la nullità relativa delle clausole di cui agli articoli 2, 6 e 8 delle vecchie N.B.U. (Norme Bancarie Uniformi) poiché anticoncorrenziali. Trattandosi di nullità parziale, non è possibile travolgere l’intero contratto di garanzia.
Il caso di specie vedeva i ricorrenti proporre opposizione avverso il decreto ingiuntivo, ottenuto dalla Banca sulla base dei contratti di fideiussione, sostenendo che i predetti accordi erano da considerarsi nulli per contrarietà a norme imperative o per illiceità della causa.
Tuttavia, il Tribunale di primo grado respingeva l’opposizione.
Nel corso del giudizio di appello, i ricorrenti hanno eccepito anche la nullità delle fideiussioni, predisposte unilateralmente dalla Banca e sottoscritte dagli appellanti in forma di negozio unilaterale nel 2013, perché riproducevano le NBU.
Parte ricorrente lamentava che tali clausole dovessero essere annoverate tra le intese illecite, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287/1990.
Conseguenza immediata sarebbe stata la nullità delle intese, la quale avrebbe avuto ripercussioni di non poco conto sulle predette fideiussioni.
L’istituto di credito, dal canto suo, aveva eccepito che l’accordo contrattuale – in realtà – non riportava pedissequamente le indicazioni ABI.
Al riguardo, la Corte – respingendo l’appello – ha disatteso l’eccezione di nullità totale delle fideiussioni sostenendo che il caso in esame il contratto di fideiussione, seppur riportava clausole che riproducevano il contenuto delle clausole ABI, la nullità delle stesse non potesse condurre ad una declaratoria di nullità dell’intero contratto, se non sia manifesto che in assenza di quelle clausole, il contratto non sarebbe stato concluso. “Ne consegue che, benché le clausole 2, 6 e 8 del contratto di fideiussione siano nulle, il contratto è tuttora valido ed esistente tra le parti.”[63]
I fideiussori decidevano, pertanto, di proporre ricorso per Cassazione avverso la Sentenza della Corte di Appello di Napoli eccependo la nullità delle fideiussioni.
La tesi dei ricorrenti prendeva come spunto l’ordinanza della Corte di legittimità n. 29810/2017 per sostenere la nullità totale del contratto fideiussorio.
Alla udienza pubblica il Procuratore Generale concludeva per il rigetto integrale del ricorso e la Suprema corte accordava tale richiesta.
La Corte di cassazione ha specificato che l’ordinanza n. 29810 del 2017, essendo stata resa tra parti diverse ed in relazione a distinte ed autonome vicende giudiziarie, costituisce soltanto un “precedente giurisprudenziale a valenza nomofilattica e non può assumere alcuna efficacia probatoria nel giudizio di merito.”[64]
Da questo assunto discende la necessità di dover – mediante il ricorso ad un approccio casistico – provare adeguatamente e in ogni singolo giudizio la asserita nullità dei contratti di garanzia, o delle loro clausole.
I giudici hanno chiarito, invero, che il mero richiamo all’ordinanza del 2017 non sia di per sé sufficiente.
Inoltre, è stato evidenziato che ai fini di una valutazione in ordine alla nullità della garanzia fideiussoria, sia necessario prendere in considerazione il provvedimento n. 55 del 02 maggio 2005 della Banca d’Italia.
Il predetto provvedimento limita la lesività anticoncorrenziale esclusivamente alle clausole 2, 6 ed 8 delle N.B.U., nel caso in cui non emerga che in mancanza di quelle clausole il contratto non sarebbe stato concluso (art.1419, primo comma, cod. civ.).
Di conseguenza, per ottenere la declaratoria di nullità dell’intero contratto fideiussorio è necessaria la prova della rilevanza e decisività delle clausole nulle ai fini della conclusione del contratto per entrambe le parti.
Come già sostenuto, la valutazione della nullità delle clausole incriminate dovrà essere condotta caso per caso per verificarne la corrispondenza, o meno, al testo delle N.B.U. del 2003.
Gli ermellini hanno specificato ulteriormente, richiamando precedenti arresti sullo stesso punto, che la declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza – emessa dalla Autorità Antitrust ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287 del 1990 – non determini in via automatica la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese, aderenti all’intesa.
Tali contratti, invero, mantengono la loro validità e possono dar luogo “solo” all’azione risarcitoria – su istanza dei consumatori – nei confronti delle imprese.
Le conclusioni a cui è pervenuta la Corte sono logica conseguenza dei principi già ampiamente analizzati nel corso della presente indagine.
Dall’esame della sentenza emerge la necessità di una verifica in ordine all’attualità delle indicazioni della Banca d’Italia e dell’Autorità Garante, le quali non possono equivalere ad una indefinita sanzione di invalidità di clausole negoziali senza limiti temporali.[65]
Conseguenza naturale è che dalla predetta ordinanza non può farsi discendere né la qualificazione tout court di intesa illecita delle N.B.U. in tema di fideiussione, né la nullità totale dei relativi contratti di fideiussione.
La riflessione più rilevante, però, è di natura processuale, ai fini della difesa in giudizio.
Tutte le volte che la banca non si sia giovata delle clausole contestate e dichiarate nulle dalla Banca d’Italia (artt. 2, 6 e 8 della NBU del 2003) non solo non sarà possibile dichiarare la nullità in toto della fideiussione, ma non sarà neppure possibile configurare il diritto al risarcimento del danno.
Alla luce delle considerazioni fin qui esposte, si potrebbe affermare che le clausole frutto di intese illecite, favorevoli all’istituto di credito, che non incidono sulla struttura e sulla causa del contratto, ovvero non pregiudichino gli interessi in gioco, comportano necessariamente una declaratoria di nullità parziale – riferibile alle sole clausole – e non una nullità riferibile all’intero contratto.
Pertanto, l’unica tutela accordata ai garanti – nei casi di lesione della propria posizione giuridica – è la declaratoria di nullità parziale e il riconoscimento di una somma a titolo risarcitorio.
La predetta sentenza, dunque, assume un’importanza elevata poiché dovrebbe porre il fermo al proliferarsi di azioni di nullità totale proposte dai garanti.
– Conclusioni
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, prima di procedere con l’elaborazione delle conclusioni finali sull’argomento, sembra di dovere soffermarsi brevemente sul rapporto di interazione intercorrente tra l’intesa a monte e il contratto “a valle”.
Nel corso della dissertazione, il presente studio ha svolto alcune considerazioni in merito al metodo di analisi adottato dagli studiosi del diritto antitrust.
Deve rilevarsi che l’interpretazione “filoconcorrenziale” è stata necessaria al fine di comprendere le ragioni della perdurante oscillazione di tendenze e soluzioni interpretative suggerite dagli interpreti, in ordine alle fattispecie vietate dalla legge n. 287/90.
Al fine di comprendere in toto le problematiche oggetto di disamina, invero, deve rilevarsi che lo studio della disciplina della concorrenza non può prescindere dallo studio degli istituti civilistici e viceversa.
L’indagine richiede il ricorso ad un atteggiamento pragmatico e analitico.
La stessa disciplina in materia di concorrenza impone all’art. 1, comma 4 della legge n. 287/90 un “vincolo ermeneutico”, in virtù del quale le autorità nazionali debbono interpretare ed applicare il diritto della concorrenza in conformità ai principi sanciti dagli atti normativi e dalla giurisprudenza comunitaria.
Deve, pertanto, rilevarsi che lo stesso legislatore attribuisce all’attività ermeneutica una grande rilevanza.
L’approccio del diritto antitrust, peraltro, non può indurre a trascurare o a superare né il dato normativo né, tantomeno, le categorie concettuali appartenenti alla nostra tradizione civilistica.
In tale contesto, il compito affidato a dottrina e giurisprudenza non è quindi affatto agevole.
Invero, tale indagine non può prescindere dall’analisi del rapporto intercorrente tra i contratti “a valle” e le intese – anticoncorrrenziali – “a monte”.
È di dovere tenere conto delle peculiarità della materia all’interno della quale si inserisce uno degli istituti civilistici più “antichi” e ricchi di significato: il contratto.
La sorte del cosiddetto contratto “a valle” è stato oggetto di interpretazioni altalenanti e spesso discordanti tra loro.
Gli esegeti hanno tentato di fornire una interpretazione univoca, con risultati non sempre soddisfacenti e spesso in contrasto tra loro.
Tenendo conto dello studio svolto, può sostenersi che i giudici di legittimità – da ultimo con la sentenza n. 13846 del 22 maggio 2019 e successive pronunce (conformi) – hanno fugato (forse una volta per tutte) ogni dubbio in ordine alla natura della nullità che colpisce il contratto posto “a valle” di una intesa anticoncorrenziale, sciogliendo così il nodo gordiano.
La Suprema Corte ha effettuato un revirement di non poco conto, affermando la nullità parziale delle sole clausole adottate secondo lo schema ABI.
Fino alla predetta pronuncia, l’orientamento – che andava per la maggiore – qualificava tali nullità come assolute.
Vale la pena rilevare che l’adesione all’una o all’altra impostazione comporta conseguenze di non poco conto.
Invero, aderendo alla tesi della nullità assoluta, il contratto “a valle” sarebbe invalidato e come tale non più in grado di produrre alcun effetto, tamquam non esset.
Per contro, secondo la tesi della nullità parziale – sostenuta in epoca recente dai giudici di legittimità – non si determinerebbe l’invalidità dell’intero contratto, essendo espunte dallo stesso le sole clausole adottate secondo lo schema ABI.
Le predette clausole, invero, sarebbero private della loro efficacia.
Può rilevarsi come la tesi della nullità parziale sia stata elaborata in aderenza al principio di conservazione del contratto – sancito dall’art. 1367 c.c. – a tenore del quale sia il contratto che le clausole debbono essere interpretate nel senso in cui possano produrre qualche effetto.
A parere dello scrivente, questo potrebbe costituire il “giusto compromesso” per la tutela e del fideiussore/garante e dell’istituto di credito, ma soprattutto del debitore garantito.
In tal modo, invero, il contratto continua a rimanere in vita e a svolgere la propria funzione economica, ossia quella di garantire il debitore originario.
La dichiarazione di nullità totale del contratto, invero, determinerebbe conseguenze di non poco momento: da un lato, il debitore originario verrebbe a non essere più garantito; dall’altro lato, l’istituto di credito, autore dell’intesa anticoncorrenziale, rischierebbe di non vedere soddisfatta la propria pretesa creditoria.
I giudici di legittimità hanno propeso per il ricorso ad un approccio casistico, il quale consente di verificare di volta in volta se – in concreto – il contratto “a valle”, di una intesa anticoncorrenziale, contenga effettivamente delle clausole affette da nullità.
Alla luce di ciò, non può farsi un discorso aprioristico in virtù del quale tutti i contratti, posti “a valle” di un’intesa anticoncorrrenziale, necessariamente debbono essere dichiarati nulli.
Invero, è solo a seguito di una valutazione in concreto che si potrà affermare se il contratto – in questione – contenga clausole nulle.
Può, pertanto, ritenersi che “forse” l’approccio che riconduce il contratto “a valle” nel novero della nullità parziale, costituisca la soluzione più “equilibrata” per tutte le parti della vicenda contrattuale.
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Note
[1] P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italocomunitario delle fonti, Napoli, 2006, p. 11: “l’attività del giurista, pertanto, si avvale non di uno strumentario predeterminato e rigido, ma di una cultura ampia e di una conoscenza globale dell’ordinamento, ravvivato dall’analisi puntuale e minuziosa del fatto. Un’attività che deve essere animata dalla consapevolezza della interdisciplinarietà dell’ordinamento, sintesi di pubblico e privato; dalla convinzione che la conoscenza dell’ordinamento è per definizione sistematica e globale, rifuggendo limiti, angustie e pericoli delle conoscenze settoriali; dal rispetto della gerarchia delle fonti. L’interdisciplinarietà nell’àmbito dell’ordinamento non può essere considerata separatamente dalla interdisciplinarietà del diritto con le altre scienze sociali. No, quindi, alla formazione di un giurista tecnico specializzato, che poco conosca dell’ordinamento nel suo complesso e del diritto quale scienza sociale.”
[2] A tenore di quanto disposto dalla norma de qua, l’iniziativa economica privata è libera e non può essere svolta in antitesi con l’utilità sociale o in maniera tale da arrecare danno all’individuo.
[3] L’autonomia contrattuale consente al privato ampia libertà in ordine alla determinazione del contenuto del contratto. Tuttavia, vale la pena rilevare che tale autonomia può essere oggetto di limitazione e compressione, in ragione di norme imperative, ovvero contrarietà al buon costume o all’ordine pubblico.
Il legislatore individua un ulteriore limite: il giudizio di meritevolezza ogniqualvolta si tratti di contratti atipici, per i quali il legislatore non abbia previsto un modello astratto. In tali casi, il giudice svolge un controllo ex post, non potendo provvedervi il legislatore ex ante.
[4] Nello specifico, i principi di cui si discorre costituiscono regole di comportamento che permeano l’intera vicenda contrattuale. Invero, i predetti principi afferiscono alla fase precontrattuale, conclusiva, esecutiva ed interpretativa del contratto.
[5] P. PERLINGIERI, Equilibrio delle posizioni contrattuali, cit., p. 467 ss.: “è necessario trovare una disciplina del contratto che sia compatibile con la libertà di mercato, non intesa però come libertà incondizionata. Il mercato non è solo un insieme di regole economiche, ma uno statuto normativo.”
Nel medesimo senso, si veda anche F. LONGOBUCCO, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, p. 54 e ss.
[6] F. LONGOBUCCO, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, cit., p. 56.
[7] Preliminarmente deve rilevarsi che il public enforcement e private enforcement si distinguono in ordine alla diversa natura e finalità perseguita. I primi sono volti a garantire il pubblico interesse in relazione al mercato della concorrenza, assurgendo a strumento afflittivo e svolgendo una funzione prettamente punitiva.
Per contro, gli strumenti di private enforcement sono volti a garantire la posizione del privato che lamenti specifiche condotte anticoncorrenziali, derivanti anche da uno scorretto esercizio della predetta finzione punitiva.
[8] M. GRILLO, L’ottimalità delle sanzioni antitrust, Relazione svolta in occasione della Conferenza su analisi economica e diritto amministrativo, tenutasi a Venezia nei giorni 28 – 29 Ottobre, p. 8.
[9] W. WILS, Should Private Antitrust Enforcement Be Encouraged in Europe?, pp. 486 e ss.
[10] M. R. MAUGERI, Violazione della disciplina antitrust, cit., p. 28.
[11] Il Regolamento n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002137 – concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82 del Trattato e destinato a sostituire dal 1° maggio 2004 il Regolamento n. 17/62 – viene adottato dalle Istituzioni Europee al fine di attuare un sostanziale processo di modernizzazione e di semplificazione nel sistema di enforcement anticoncorrenziale e di raccordo tra le autorità nazionali e gli organismi comunitari.
La rilevanza dell’impatto e della svolta che l’introduzione del Regolamento è destinata ad esercitare discende, in particolare, dal fatto che esso, pur limitandosi a modificare il sistema applicativo delle sole norme comunitarie in materia di intese e di abuso di posizione dominante, è in grado in realtà di incidere profondamente sulla normativa nazionale e sulle attribuzioni delle autorità interne.
[12] Si veda il caso Courage, C. Giust. UE., 20 settembre 2001, C-452/99, Courage Ltd v. Crehan.
[13] F. LONGOBUCCO, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, cit., p. 57.
[14] In ordine a tale profilo si veda E. CAMILLERI, Contratti a valle, rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, Napoli, Jovene, 2008.
[15] In particolare, ci si riferisce alle patologie negoziali e i correlati rimedi in funzione della tutela degli interessi dei singoli.
[16] A tal riguardo, vedasi E. CAMILLERI, Contratti a valle, rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, Napoli, Jovene, 2008.
[17] F. LONGOBUCCO, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, cit., p. 59.
[18] F. LONGOBUCCO, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, cit., p. 59. Nel medesimo senso, si veda anche A. DI MAJO, La tutela civile nella prospettiva dei cosiddetti rimedi nel diritto italiano ed europeo, Relazione tenuta in occasione del Convegno organizzato dall’Unione nazionale delle Camere civili, Il processo civile tra diritti e responsabilità, tenutosi a Napoli Castel dell’Ovo nei giorni 20-21 ottobre 2006.
[19] La norma costituisce principio generale in materia di interpretazione.
[20] P. PERLINGIERI, Equilibrio delle posizioni contrattuali, cit., p. 466, la quale osserva: “il principio di conservazione del contratto assume una funzione, un’importanza primaria rispetto al passato; se il contratto deve tendere alla realizzazione di un interesse meritevole ed addirittura essenziale per una parte, è evidente l’inadeguatezza della sanzione di nullità, o inesistenza, e l’opportunità di rispondere con uno strumento tecnico più adeguato; esso stesso rappresenta altresì una scelta di valori”.
Nel medesimo senso, altresì, E. CAPOBIANCO, Il contratto dal testo alla regola, Milano, 2006, p. 135 e ss.
[21] Vale la pena precisare che trattasi della bona fides intesa in senso oggettivo. Si tratta del canone comportamentale che permea l’intera vicenda del contratto, dalla fase preliminare, alla fase esecutiva e interpretativa dello stesso.
[22] A tenore di quanto disposto dalla norma in esame, le parti sono vincolate alle conseguenze che la legge esprime in via imperativa (vedasi in materia di nullità del contratto ex art. 1418 c.c.) e a quelle sancite in via dispositiva. La ratio di tale disposizione è rinvenibile nel fatto che l’autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.) non è priva di limiti ma, al contrario, trova un primo limite nella legge stessa.
[23] Il contratto non può essere letto alla stregua di un istituto a sé stante, ma è necessaria una collocazione sistematica dello stesso, nel più ampio sistema all’interno del quale si inserisce: il mercato. Alla luce di ciò è necessario e doveroso uno studio interdisciplinare che ricomprenda anche la disciplina della concorrenza. Tale operazione ermeneutica consente una lettura completa della disciplina del contratto. Al riguardo, si veda F. LONGOBUCCO, Interpretazione filoconcorrenziale ed efficienza regolativa degli istituti civilistici, Cedam, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 9/17, p. 1310 e ss.
[24] F. LONGOBUCCO, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, cit., p. 62.
[25] Al riguardo, si era sviluppata una accesa diatriba in dottrina concernente la natura – contrattuale ovvero extracontrattuale – dell’azione esperibile dal contraente “a valle”. Si veda a tal riguardo C. CASTRONOVO, Antitrust e abuso di responsabilità civile, in Danno resp., 2004.
[26] E. CAPOBIANCO, Lezioni sul contratto, Torino, Giapichelli Editore, 2014, p. 139 e ss.
[27] E. CAPOBIANCO, Lezioni sul contratto, Torino, Giapichelli Editore, 2014, p. 11 e ss.
[28] F. LONGOBUCCO, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, p. 65 e ss. Per una comprensione più esaustiva si vedano gli artt. 8:101, 8:102, 8:109 dei Princìpi UNIDROIT.
[29] Vale la pena rilevare che il legislatore, sulla spinta dell’influenza del diritto dell’Unione Europea, ha previsto una tutela molto pregnante a favore dei contraenti deboli. La ratio di tali strumenti è rinvenibile nella esigenza di far venir meno gli squilibri contrattuali. In particolare, il secondo contratto – stipulato tra consumatore e professionista – si caratterizza per un’asimmetria, la quale richiede un controllo più incisivo da parte dell’autorità giudiziaria, preposta ad eliminare o ridurre lo squilibrio, al solo fine di tutelare il contraente debole.
[30] F. LONGOBUCCO, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, p. 65 e ss.
[31] P. FEMIA, Nomenclatura del contratto o istituzione del contrarre?, 2008, cit. p. 287. In tal senso si veda anche F. LONGOBUCCO, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, cit., p. 70.
[32] Tale provvedimento è stato reso dalla Banca d’Italia, in esercizio della funzione di Autorità garante della concorrenza tra istituti creditizi che, a far tempo dal 12 gennaio 2006, è stata trasferita all’AGCM in forza della Legge 262/2005.
[33] È un istituto di diritto pubblico, regolato da norme nazionali ed europee. Parte integrante dell’Eurosistema, è composto dalle banche centrali nazionali dell’area dell’euro e dalla Banca centrale europea. L’Eurosistema e le banche centrali degli Stati membri dell’Unione europea che non hanno adottato l’euro compongono il Sistema europeo di banche centrali.
Persegue finalità d’interesse generale nel settore monetario e finanziario tra cui il mantenimento della stabilità dei prezzi, obiettivo principale dell’Eurosistema in conformità al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea; la stabilità e l’efficienza del sistema finanziario, in attuazione del principio della tutela del risparmio sancito dalla Costituzione (Art. 47 – La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito), e gli altri compiti ad essa affidati dall’ordinamento nazionale.
In Europa, la Banca d’Italia è l’autorità nazionale competente nell’ambito del Meccanismo di vigilanza unico (Single Supervisory Mechanism, SSM) sulle banche ed è autorità nazionale di risoluzione nell’ambito del Meccanismo di risoluzione unico (Single Resolution Mechanism, SRM) delle banche e delle società di intermediazione mobiliare.
L’assetto funzionale e di governo della Banca riflette l’esigenza di tutelarne rigorosamente l’indipendenza da condizionamenti esterni, presupposto essenziale per svolgere con efficacia l’azione istituzionale. Le normative nazionali ed europee garantiscono l’autonomia necessaria a perseguire il mandato; a fronte di tale autonomia sono previsti stringenti doveri di trasparenza e pubblicità. L’Istituto rende conto del suo operato al Governo, al Parlamento e ai cittadini attraverso la diffusione di dati e notizie sull’attività istituzionale e sull’impiego delle risorse.
La Banca d’Italia è un’organizzazione di circa 6.800 persone con competenze multidisciplinari; impiega risorse tecnologiche e finanziarie per offrire servizi di qualità agendo in maniera efficiente, responsabile e imparziale. Per svolgere al meglio le proprie funzioni, in un ambiente caratterizzato da complessità crescente e cambiamenti profondi, la Banca d’Italia delinea, nell’ambito di un sistema di pianificazione strategica, la visione, gli obiettivi di medio termine e le relative linee di azione.
Fonte: www.bancaditalia.it.
[34] Da tale clausola derivano conseguenze particolarmente pregiudizievoli per il garante, quando l’obbligo di restituzione della banca sia determinato dalla declaratoria di inefficacia ovvero dalla revoca dei pagamenti eseguiti dal debitore, a seguito di fallimento dello stesso.
[35] Tale clausola appare suscettibile di arrecare un significativo vantaggio all’istituto di credito, che in questo modo disporrebbe di un termine molto lungo, coincidente con quello della prescrizione dei suoi diritti verso il garantito per far valere la garanzia fideiussoria. Ne potrebbe risultare disincentivata la diligenza della banca nel proporre le proprie istanze e conseguentemente sbilanciata la posizione della banca stessa a svantaggio del garante.
[36] Vengono previsti obblighi in danno del fideiussore ulteriori e diversi rispetto a quelli di garanzia dell’adempimento delle obbligazioni assunte dal debitore in forza dei rapporti creditizi cui accede la fideiussione.
[37] Strumento di garanzia atipica ed espressione della autonomia negoziale delle parti ai sensi dell’art. 1322 c.c. che impone un giudizio di meritevolezza. La clausola omnibus consente alla garanzia di estendersi a tal punto da coprire tutte le obbligazioni, ivi comprese quelle future e successive alla stipulazione della fideiussione.
[38] È bene chiarire che si tratti di un vero e proprio provvedimento e non di un parere, come è stato sostenuto da alcuni Tribunali.
[39] Nell’ambito del ragionamento presuntivo si può verificare il caso per cui il fatto noto, che si assume come premessa di un’inferenza presuntiva, è noto perché la conferma dell’enunciato che lo riguarda deriva a sua volta da un’inferenza presuntiva. In sostanza, il fatto noto è tale perché deriva, a sua volta, da un’altra presunzione. A questo riguardo, vale la regola espressa dal brocardo praesumptum de praesumpto non admittitur.
In altri termini, sono tradizionalmente escluse le “presunzioni di secondo grado”, in quanto il ricorso alle presunzioni semplici deve essere limitato ai casi nei quali la premessa del ragionamento inferenziale, il fatto noto, è provato sulla base di evidenze probatorie non costituite da presunzioni, ovvero cade direttamente sotto la percezione del giudice.
La ratio della regola – che vale a livello interpretativo – è piuttosto evidente, in quanto tende ad evitare che la prova del fatto ignorato si fondi su un cumulo di inferenze presuntive, ciò che renderebbe “a tenuta non sufficiente” la presunzione finale relativa al fatto ignorato, rendendola non idonea a dare fondamento probatorio di tale fatto.
Tuttavia, sul piano logico, non sempre in una concatenazione di ragionamenti inferenziali l’ultima inferenza è necessariamente più debole della precedente; pertanto, la regola tradizionale può essere messa in discussione. Partendo da queste premesse, la dottrina ha osservato che nel caso della cd. “presunzioni di secondo grado” vi è una successione lineare di ragionamenti inferenziali, la conclusione di ciascuno dei quali costituisce la premessa dell’inferenza successiva. Il controllo circa i requisiti di precisione e gravità deve avvenire in corrispondenza di ciascun segmento della successione. In altri termini, in relazione ad ogni singola inferenza il giudice deve stabilire se il fatto noto è in grado di attribuire – facendo ricorso a idonei criteri di inferenza – un grado adeguato di attendibilità al fatto ignorato. Se il giudice conduce in questo modo il ragionamento inferenziale complesso, il fatto ignorato diventa noto in quanto la verità dell’enunciato che lo descrive è confermata sulla base della presunzione derivante da un altro fatto noto. Ovviamente, la mancanza dei requisiti di gravità o di precisione in relazione ad una sola inferenza è sufficiente per escludere la validità dell’intero ragionamento. Se questa eventualità non si verifica, e, quindi, come ha rilevato la dottrina, se ogni anello della catena ha una forza sufficiente, la catena giunge ad una conclusione finale che risulta sorretta da un adeguato grado di conferma, ossia dal grado di conferma che caratterizza l’ultima delle inferenze concatenate: il che porta ad escludere, a priori, la fondatezza logica della regola praesumptum de praesumpto non admittitur.
[40] In giurisprudenza: Cass., civ., 28 maggio 2014, n. 11904; Cass. civ., 23 aprile 2014, n. 9116;
Cass. civ., 22 maggio 2013, n. 12551; Cass. civ., 9 maggio 2012, n. 7039; Cass. civ., 20 giugno 2011, n. 13486.
[41] Cass., Sezioni Unite, 4 febbraio 2005, sentenza n. 2207.
[42] Cass. civ., 28 ottobre 2005, sentenza n. 21081.
[43] Si pensi all’identificazione dell’elemento soggettivo di chi commette l’infrazione, la quantificazione del danno e infine l’onere della prova.
[44] Deve sottolinearsi che la prima parte dell’art. 1 della legge n. 287 del 1990, deve essere letta come attuazione dell’art. 41 Cost., e dunque interpretata in base ai principi dell’ordinamento comunitario.
[45] Cass, Sezioni Unite, 4 febbraio 2005, n. 2207.
[46] L’art. 13, disciplina la tutela giurisdizionale che consegue alla violazione della normativa comunitaria in materia di appalti pubblici. La citata norma è stata abrogata dall’art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998, abrogazione confermata, poi, anche dall’art. 7 lettera e della legge n. 205 del 2000.
Il predetto assetto giurisdizionale è stato superato dalla legge e dalla giurisprudenza del giudice delle leggi (v. Corte Costituzionale, sentenze n. 204 del 2000 e 281 del 2004).
Da ciò si comprende il perché dell’attribuzione al G.A. della giurisdizione sull’atto di AGCM, e quindi del potere di dire se l’intesa affermata si è realizzata in contrasto con la legge antitrust n. 287 del 2000; così come è conseguente il potere di giudicare il merito introdotto da una domanda di nullità e di conseguente risarcimento del danno, stabilendo un unico grado innanzi alla Corte d’appello, competente per territorio (oggi il Tribunale per le Imprese di Milano, Roma e Napoli).
[47] Per completezza espositiva, deve rilevarsi che il G.A. conosce anche di diritti soggettivi, in sede di giurisdizione esclusiva, ai sensi dell’art. 7 del Codice del processo amministrativo (d.lgs. 104/2010).
[48] Nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede diversa dal capoluogo della Regione.
[49] Per una più completa disamina interpretativa sulla portata della norma, bisogna ricordare la sentenza della Corte di Giustizia, n. 453 del 1999, nota come la sentenza Courage, la quale amplia l’ambito dei soggetti tutelati dalla normativa sulla concorrenza, in una prospettiva in grado di valorizzare le azioni risarcitorie, quali mezzi capaci di mantenere effettività alla struttura competitiva del mercato.
[50] In ordine alle similitudini con la responsabilità precontrattuale, vale la pena rilevare che i punti di contatto sono stati individuati solo con l’art. 1337 e non anche l’art. 1338 del codice civile. In particolare, si è rilevato che il contratto “a valle” – stipulato a fronte di una intesa anticoncorrenziale – costituisce un contratto che seppur valido, può essere stato adottato a condizioni svantaggiose per una delle parti. In tal senso, l’invalidità deriva – a monte – dalle ragioni che hanno indotto il consumatore ad addivenire alla stipula del contratto. Non può, invero, ritenersi che il contratto “a valle” sia privo di uno degli elementi essenziali di cui all’art. 1325 c.c. In particolare, vi è da chiedersi se il consumatore – nella vigenza di regole di mercato differenti – avrebbe stipulato ugualmente il contratto alle condizioni imposte dall’intesa, oppure no.
[51] Corte d’Appello di Brescia, sez. I, 29 gennaio 2019, in http://www.dejure.it.
[52] Cass. civ., sez. I, ordinanza del 12 dicembre 2017, n. 29810.
[53] Tribunale di Forlì, 25 marzo 2019, n. 265.
[54] Cass., Sezioni Unite, 19 dicembre 2007, n. 26724.
[55] In tal senso, Tribunale di Treviso, 30 luglio 2018, n. 1632.
[56] Tribunale di Forlì, 25 marzo 2019, n. 265.
[57] In tal senso si veda anche Tribunale di Treviso, 26 luglio 2018, n. 1623, nella quale i giudici affermano che: «Un contratto che sia stato validamente perfezionato, in presenza dei requisiti strutturali di validità previsti dalla legge e che non persegua in sé una causa illecita o immeritevole per l’ordinamento giuridico, non può subire effetti invalidanti in dipendenza dell’accertamento della nullità o della caducazione di un rapporto giuridico diverso ed intercorso tra terzi».
Per completezza espositiva, si rileva che la predetta impostazione è stata condivisa di recente anche dal Tribunale di Spoleto, secondo cui l’invalidità di un rapporto giuridico può estendersi ad un altro rapporto solo previo riscontro di un vincolo di dipendenza funzionale o, quantomeno, di un collegamento negoziale oggettivamente apprezzabile tra gli stessi.
[58] Tribunale di Treviso, 26 luglio 2018, n. 1623.
[59] Si rammenta che il predetto ruolo è stato ora assunto dall’AGCM.
[60] Cass., ordinanza del 12 dicembre 2017, n. 29810.
[61] Cass. civ., sez. I, 22 maggio 2019, n. 13846.
[62] Come evidenziato nella pronuncia, nel sistema delineato dalla l. n. 287/90, private e public enforcement (ovverosia, tutela civilistica e pubblicistica), sono destinate, su di un piano più strettamente pragmatico – operativo, a essere, tra di loro, complementari.
[63] Corte di Cassazione, sez. civ., 26 settembre 2019, n. 22044.
[64] Corte di Cassazione, sez. civ., 26 settembre 2019, n. 22044.
[65] Ci si riferisce in tal alle fideiussioni sottoscritte negli ultimi anni, non riconducibili, a così lunga distanza di tempo, all’applicazione uniforme da parte degli operatori del medesimo schema contrattuale che è stato oggetto di esame.
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