Figli condivisi o ancora contesi?

Florio Marina 19/03/09
Confronti e riflessioni sull’evoluzione dei regimi di affidamento della prole
 
A distanza di 3 anni dall’entrata in vigore della legge 8/02/06 n.54, l’istituto dell’affidamento condiviso, seppur introdotto come una rivoluzione dall’impatto dirompente, sembra ormai acquisito nel comune sentire come una conquista ormai consolidata, una realtà indiscussa, un dato di fatto.
I genitori – pur nella disgregazione del rapporto coniugale – devono mantenere inalterato il proprio paritetico ruolo genitoriale:“nulla di più ovvio” – verrebbe da dirsi!
Tuttavia, come sovente accade in questi casi, all’apodittica presa d’atto di un fenomeno considerato radicato, non si accompagna la medesima consapevolezza dei suoi effettivi contenuti.
La nuova normativa si presta a numerosi spunti di riflessione che, in questa prima disamina, ci si limita a focalizzare su due aspetti in particolare: il profilo concettuale dell’espressione e l’ambito applicativo della nuova disciplina, per comprendere quanto di realmente rivoluzionario ci sia nell’introduzione dell’istituto e quanto, di fatto, esso abbia realmente mutato l’assetto preesistente.
 
Definizioni e contenuti: prima e dopo la riforma
 
Tutte le volte in cui, ci si imbatte in una famiglia (legittima o di fatto) in fase di disgregazione, oltre alle innumerevoli difficoltà connesse a tale delicato momento, si registrano molte incertezze sull’uso, spesso improprio ed indiscriminato, dei termini che si affiancano qualificando il regime di affidamento della prole (condiviso, congiunto ed alternato). Ancora oggi, l’indifferenziata adozione di tali espressioni fa – erroneamente – ritenere che trattasi di un identico assetto al quale, solo per ragioni stilistiche, vengono attribuite definizioni difformi.
Pertanto, al fine procedere ad una disamina consapevole dell’istituto dell’affidamento condiviso, appare imprescindibile fugare il campo da residuali incertezze concettuali, chiarendo le accezioni dei termini sopra indicati:
 
a) Prima delle riforme….
Nell’intento di rendere più accativante l’esposizione del tema, evitando di incorrere nei tecnicismi che ne renderebbero disagevole la lettura, può apparire utile riportare l’attenzione di chi legge su un celebre ricordo letterario. Anna Karenina lascia il marito per l’amante: “perde” così anche il figlio, che resta con il padre; alla fine all’eroina di Tolstoj non resterà altra scelta che il suicidio.
Questo era proprio il contesto socio giuridico dei tempi: la donna che giungeva alla “infamia” di distruggere la famiglia legittima non solo era dichiarata “colpevole” della separazione, ma anche – e soprattutto – non aveva diritto all’affidamento dei figli, sui quali – peraltro – solo il padre esercitava la potestà.
In Italia, l’assetto normativo dell’affidamento dei minori a seguito della dissoluzione della famiglia si è retto, dall’epoca napoleonica alle riforme degli anni settanta pressoché sui medesimi principi.
D’altronde, fino al 1970, vigeva il principio della indissolubilità del matrimonio: unico rimedio, in ipotesi di insanabile contrasto tra i coniugi, era la separazione, che poteva essere però chiesta solo per le ipotesi di colpa tassativamente indicate.
Il codice civile del 1865, e pressoché similmente quello del 1942, prevedevano che il giudice doveva stabilire a quale genitore dovessero essere affidati (“tenere presso di sé”) i figli, senza indicare alcun criterio di riferimento.
Nella prassi, l’affidamento, in particolare dei più piccoli, era disposto in favore della madre, salvo che la separazione venisse dichiarata per sua colpa, specialmente per adulterio, poichè il giudizio negativo sulla condotta e la personalità del coniuge responsabile della disgregazione dell’unità familiare si risolveva in un’equivalente inidoneità al compito educativo.
 
b) ….e dopo le riforme.
L’introduzione del divorzio (1970) prima e la riforma del diritto di famiglia (1975) poi, oltre ai numerosi interventi della Corte Costituzionale, hanno radicalmente modificato il diritto di famiglia italiano.
Da qui anche un nuovo assetto del regime di affidamento incentrato sul principio della tutela esclusiva dell’interesse dei minori: questi ultimi, in genere vengono affidati alla madre – generalmente ritenuta più idonea ai compiti di cura della prole – con diritto per la stessa di percepire dall’altro coniuge un congruo (proporzionale all’entità delle risorse economiche) assegno di mantenimento.
In definitiva, un rifacimento moderno di Anna Karenina vedrebbe la protagonista– alla stregua dei principi “socio – giuridici” introdotti dalla nuova riforma sul diritto di famiglia – non più togliersi la vita, gettandosi sotto il famoso treno, quanto piuttosto partire in carrozza di prima classe, grazie al mantenimento fornito dal marito, con compagno e figlio al seguito…
 
L’affidamento monogenitoriale
 
Art.155 cod.civ. ante riforma così recitava
Il giudice che pronuncia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa (1° comma).
In particolare, il giudice stabilisce la misura e il modo con cui l’altro coniuge deve contribuire al mantenimento, all’istruzione e all’educazione dei figli, nonché le modalità di esercizio dei suo diritti nei rapporti con essi (2° comma)”.
Ebbene non v’è chi non s’accorga di come, sotto l’egida astrattamente nobile dell’interesse morale e materiale della prole, in realtà, la scelta monogenitoriale si traduca in un retaggio della visione che nega la centralità del minore nella vicenda familiare, considerandolo non come soggetto bensì come oggetto della separazione, costretto a subire le conseguenze di una vicenda processuale instaurata e condotta da altri.
Tale scelta ha perpetrato il consolidamento di un assetto parentale basato sull’antitesi tra il genitore della routine quotidiana, investito da auctoritas – ossia il genitore affidatario – e il genitore del tempo libero – l’altro; semplificando, senza voler prescindere dai singoli casi concreti, da un lato, vi è il primo, rigido e gravato dalla potestà e dalla responsabilità di dover dire di no, dall’altro vi è il genitore non affidatario, “buono”, che accondiscende e vizia il figlio.
Il genitore della quotidianità contrapposto al genitore del week-end.
Fino al 2006 tale era l’assetto privilegiato, risultando pressocchè disapplicati gli altri regimi di affidamento già vigenti.
 
L’affidamento congiunto
a) Il dato normativo: l’applicabilità anche alla separazione
Sul presupposto che separazione e divorzio non fossero eventi distruttivi, quanto processi modificativi delle forme delle relazioni parentali e che dunque la coppia non più coniugale restasse comunque coppia genitoriale, si innestava l’affidamento congiunto.
L’istituto introdotto nel nostro ordinamento dalla novella del 1987 alla legge sul divorzio, era così previsto “Ove il tribunale lo ritenga utile all’interesse dei minori, anche in relazione all’età degli stessi, può essere disposto l’affidamento congiunto o alternato (art. 6, 2° comma legge div.)”. Non se ne dubita – né dubitava – l’applicabilità anche alla separazione, almeno in via analogica, perché altrimenti non si sarebbe giustificata la disparità della situazione della prole tra separazione e divorzio. L’essenza dell’affidamento congiunto – similmente come oggi l’affidamento condiviso – è riposta nella corresponsabilizzazione dei genitori separati o divorziati i quali, adottata una linea comune nell’educazione del minore, si impegnano a realizzarla entrambi contemporaneamente e quotidianamente senza vincolare il minore a una prolungata convivenza con uno di loro. L’istituto, pertanto, risponde ad una logica associativa dei poteri sul minore, e dà pieno rilievo agli apporti educativi e affettivi delle figure sia materna che paterna (mentre l‘affidamento esclusivo ne marginalizza una in un ruolo esterno di vigilanza).
Ai fini dell’affidamento congiunto, si affermava, per prassi, che i presupposti applicativi fossero:
1)      La ricorrenza tra i coniugi, nonostante la crisi della loro unione, di un’identità di vedute e di strumenti di attuazione quanto all’allevamento e assistenza della prole, senza rischi di tensioni e sovrapposizioni di ruoli.
2)      La richiesta concorde di siffatto regime da ambedue i genitori;
3)      La vicinanza tra le abitazioni familiari o quanto meno l’ubicazione nella stessa città
In tale ottimale – forse anche troppo ideale – contesto, gli stessi rapporti tra i coniugi avrebbero garantito la corretta gestione della separazione, senza significativi interventi del giudice: il termine stesso congiunto indica ai componenti del nucleo familiare le modalità delle reciproche interazioni: “a mani giunte”.
Siffatte condizioni sono risultate solo teoriche, espressione di una visione ideale dei rapporti coniugali e post coniugali, ma di difficilissima realizzazione pratica: identità di vedute, assenza di contrasti, massimo spirito di collaborazione sono difficilmente rinvenibili anche in coppie in costanza di unione coniugale…figurarsi quando l’armonia viene meno…
 
L’affidamento alternato
L’affidamento alternato comporta una convivenza alternata del figlio presso i due genitori, ciascuno dei quali nel periodo di convivenza esercita per intero la potestà: la convivenza può essere paritaria (un periodo con un genitore, un altro con l’altro, ma in tal modo si rischia di negare la necessaria stabilità) o disuguale (es. l’anno scolastico con la madre, le vacanze con il padre).
Nell’affidamento alternato sono i figli che ruotano intorno ai genitori, andando nel mondo prima dell’uno e poi dell’altro: i contesti educativi corrispondenti ai due genitori sono estranei e non si fondono, il minore si deve adattare nel mondo genitoriale in cui si trova.
L’istituto, pochissimo utilizzato nella pratica (in genere con riferimento a coniugi che vivono in località diverse, anche all’estero), ha suscitato perplessità proprio con riferimento alla sua rispondenza all’interesse dei figli, paventandosi, infatti, il rischio che l’alternarsi di abitudini, mentalità, organizzazioni diverse e in conflitto tra loro potesse disorientare e nuocere all’equilibrio psicofisico dei minori.
 
L’affidamento condiviso: rivoluzione o mera petizione di principio?
L’art.155 c.c. come sostituito dalla riforma così recita
( Provvedimenti riguardo ai figli ) “Anche in caso di separazione personale dei genitori, il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione di entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con parenti di ciascun ramo genitoriale.
(…), il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi (…) Valuta prioritariamente la possibilità che i figli restino affidati ad entrambi i genitori (…)La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggior interesse per i figli relativi all’istruzione, l’educazione ed alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.
 
Ciò che, sin da una prima rapida lettura, emerge, con dirompente evidenza, è il radicale cambiamento della prospettiva dalla quale prende le mosse la riforma; il minore diviene davvero punto di riferimento centrale, come “il sole attorno al quale ruota tutto il sistema solare della famiglia e cioè i due genitori”ed oggi gli ascendenti e parenti.
 
Nel nuovo impianto normativo, l’affidamento condiviso diventa la regola generale: la separazione dei coniugi, il venir meno della convivenza e la lacerazione della famiglia non possono comportare il venir meno del rapporto parentale, nemmeno in presenza di forti conflittualità tra i coniugi e persino quand’anche gli stessi vivano lontano (persino in città distanti centinaia di Km). Và preservato inalterato in capo al minore l’ineludibile diritto a mantenere un rapporto continuato e continuativo non solo con ciascuno dei genitori, ma altresì degli ascendenti e parenti di ciascuno. Principio quest’ultimo che più appare concretamente innovativo, introducendo a chiare lettere il diritto – sancito e tutelato giuridicamente – in capo a tutti i legami familiari “ascendenti e parenti di ciascun ramo genitoriale” di mantenere significative relazioni affettive con il minore.
 
In concreto, si comprende – e la prassi applicativa ne dà conferma – come al concetto di affido condiviso non consegua o comunque non necessariamente consegua un’equa o paritaria distribuzione dei tempi di permanenza del minore con ciascuno dei genitori che, nell’impatto dirompente della legge, ha ingenerato – tra i non addetti ai lavori – confusione tra affido condiviso, congiunto e alternato.
Le maggiori preoccupazioni in esito all’introduzione della riforma, convergevano sul timore che il figlio potesse perdere punti di riferimento logistico, fonte di sicurezza e stabilità in un momento già particolarmente delicato quale quello conseguente alla disgregazione e destrutturazione del proprio modello familiare: il timore di un aggravamento degli oneri organizzativi, il terrore di far vivere al figlio la sindrome del “vagabondo”, con una valigia sempre pronta per trascorrere periodi di permanenza più o meno lunghi dall’uno o dall’altro dei genitori (a giorni alterni o per settimane o mesi), con gravi comprensibili problematiche.
Nei lavori parlamentari, tuttavia, il dubbio viene dipanato, laddove si precisa “Il testo in esame non tende ad un’analitica ripartizione dei tempi dei tempi di permanenza del minore con i genitori: nel testo unificato, affidamento ad entrambi i genitori non significa 50% del tempo del figlio con ciascun genitore, né 50% delle competenze, né ping pong tra due case, ma conservazione di una effettiva responsabilità genitoriale per entrambi i genitori, con modalità di esercizio della potestà da stabilire caso per caso.”
 Il reale contenuto dell’affidamento condiviso si concretizza, di fatto, nella necessità che, pur venuto meno il rapporto coniugale, i coniugi mantengano inalterato il ruolo e continuino ad esercitare la potestà genitoriale, seguendo la vita della prole a tutti i livelli (ordinari e straordinari) di scelte e decisioni e ciò a prescindere dall’entità dei tempi di permanenza di ciascuno di essi con la prole. Di ciò ne costituiscono conferma i primi provvedimenti resi dai nostri Tribunali locali, laddove lo schema generalizzato non è difforme da quello tipico delle statuizioni antecedenti alla riforma, se non per lievi modiche terminologiche (non si parla più di coniuge affidatario esclusivo, essendo entrambi i coniugi co-affidatari, bensì di genitore collocatario, ossia colui presso il quale il minore continua a vivere stabilmente) ed una maggiore elasticità nell’individuazione dei rispettivi tempi di permanenza (es. due o tre pomeriggi infrasettimanali, in luogo di uno solo, rigidamente specificato).
 
Ciò premesso, si tratta di verificare come possa concretamente realizzarsi l’ardito programma della legge laddove la maggior parte delle separazioni sono connotate da una profonda ed inestricabile conflittualità, ossia come possano concretamente coniugi, intrisi da reciproche ostilità, essere in grado di “gestire civilmente il disaccordo e affrontare in modo culturalmente diverso rispetto a quanto avviene in attualità la loro ragione di conflittualità”.
La risposta è arrivata con i riflessi delle prime concrete sperimentazioni: i provvedimenti giudiziali – recependo la lettera della legge – prevedono esplicitamente che la potestà ordinaria venga esercitata disgiuntamente in ragione dei tempi di permanenza del minore con ciascuno dei genitori. Ciò sembra poter evitare o quanto meno limitare i rischi concreti dinanzi al persistere della conflittualità coniugale, scongiurando l’intuitivo rischio di un vorticoso insorgere di contenzioso per qualsivoglia iniziativa che un coniuge volesse assumere, senza riuscire ad ottenere il consenso dell’altro.
Similmente a come accadeva nel passato ed in ossequio a quanto espressamente previsto dal 3° c., art.155 c.c., ciascuno dei genitori continua ad esercitare liberamente il proprio ruolo genitoriale – nell’ambito della sfera “ordinaria” – ogni qualvolta tiene presso di sé il minore, così come le decisioni di maggior interesse afferenti scelte di carattere educativo, scolastico, medico-sanitario, che oltrepassino l’ordinaria amministrazione, continuano a dover essere prese, di comune accordo tra i genitori. Resta salva la facoltà di rimettere al giudice le controversie in merito alle decisioni di maggior interesse per i figli relative all’istruzione, l’educazione ed alla salute che i genitori non siano in grado di assumere di comune accordo.
Qualche novità sembra essere introdotta sul fronte degli aspetti economici e dell’istituto dell’assegnazione del domicilio coniugale per i quali si rinvia ad ulteriori approfondimenti che consentono di anticipare qualche perplessità sulla reale portata rivoluzionaria della riforma che tuttavia, ha il pregio di aver indotto ad articolate – e forse mai sopite – riflessioni sulle tematiche che ruotano intorno ad una realtà tanto delicata, intima quanto sfuggevole, in quanto connotata da dinamiche “irrazionali ed emozionali” che, singolarmente, il diritto è, sempre più prepotentemente, chiamato a disciplinare: la famiglia.
 
 
Avvocato del Foro di Catania

Florio Marina

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