Con un interessante sentenza pubblicata nel mese di febbraio 2019 [1]il Tribunale di Roma ha affrontato il problema del rimborso del finanziamento dei soci di una società di capitali, della differenza tra la nozione di finanziamento e quella di versamento in conto di capitale di rischio, e del principio di cd. postergazione del finanziamento soci rispetto ai creditori sociali.
1 – Il problema della sottocapitalizzazione delle società di capitale e dei finanziamenti soci
E’ noto che nelle realtà imprenditoriali del nostro Paese è ampiamente diffuso il fenomeno delle società cd. sottocapitalizzate, ovvero quelle in cui per finanziare la società i soci, anziché fare ricorso ai necessari aumenti di capitale, effettuano versamenti qualificabili come veri e propri finanziamenti (ad es. a titolo di mutuo), assumendo così la stessa posizione dei creditori sociali, e consentendo alla società di dotarsi di capitale di credito anziché alimentarsi con mezzi propri.
Il problema è assai spinoso, e ampiamente dibattuto sia in dottrina che in giurisprudenza, anche perché non è sempre chiaro stabilire se il versamento effettuato dal socio costituisca un apporto di patrimonio in conto di capitale di rischio (per il quale non c’è obbligo di restituzione) oppure un vero e proprio finanziamento (per il quale, l’obbligo di restituzione sussiste).
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2 – L’art. 2467 c.c. e il cd. principio di postergazione
Per disincentivare il fenomeno delle società sottocapitalizzate la riforma del diritto societario nel 2003 ha introdotto l’art. 2467 c.c. e il cd. principio di postergazione, secondo cui “il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito. S’intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”.
In base al vigente quadro normativo, si tratta dunque di verificare:
- a) se il versamento di un socio a favore di una società sia qualificabile come vero e proprio finanziamento, anziché come apporto di capitale di rischio non rimborsabile se non all’esito del procedimento di liquidazione della società;
- b) in caso di accertata esistenza di un finanziamento soci, se lo stesso debba essere subordinato al generale principio di postergazione rispetto ai creditori sociali di cui all’art. 2467 cc, oppure se sia immediatamente rimborsabile alla scadenza.
3 – La decisione del Tribunale di Roma sul finanziamento dei soci e sulla loro (non) postergazione.
Su entrambi i punti sopra esposti la sentenza in commento si pronuncia con argomenti convincenti, facendo anche il punto sui precedenti orientamenti di merito e di legittimità.
Sul primo punto, il Giudice capitolino chiarisce che la prova che il versamento del socio sia stato eseguito per un titolo che giustifichi la pretesa di restituzione deve essere sempre incentrata non solo su elementi formali, ma soprattutto sulla interpretazione della volontà negoziale delle parti, in particolare “deve essere tratta non tanto della denominazione con la quale il versamento è stato registrato nelle scritture contabili della società o nelle causali dei versamenti, quanto soprattutto nel modo in cui concretamente è stato attuato il rapporto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi”.
E’ dunque chiaro che per qualificare un versamento come vero e proprio finanziamento soci, potrebbe non essere sufficiente inserirlo nel passivo del bilancio alla voce prevista dall’art. 2424 lett. D) n. 3 per “debiti verso soci per finanziamenti” , e annotarlo alla voce della nota integrativa al bilancio prevista dall’art. 2427 n. 19-bis, ma occorrerebbe anche interpretare aliunde l’effettiva volontà negoziale delle parti, ad esempio verificando le causali utilizzate per i versamenti, oppure eventuali scritture private o quietanze integrative che rendano conto della finalità effettivamente perseguita dai soci con i versamenti in denaro.
A tale riguardo, la sentenza in commento ricorda innanzitutto che, sulla base dei principi generali, la prova dell’esistenza di un finanziamento in luogo di un versamento in conto capitale grava sempre sul socio che ne chieda il rimborso.
Nel caso in esame, il Tribunale respinge la domanda di rimborso di quella parte dei finanziamenti non espressamente riconosciuti dalla società convenuta, ritenendo non adeguatamente provato che fossero stati eseguiti a titolo di finanziamento soci.
Evidentemente il Giudice capitolino è stato condizionato in primo luogo dalla circostanza che i versamenti non fossero stati in alcun modo appostati al passivo del bilancio societario , ma anche – e soprattutto – dalle causali utilizzate nei bonifici effettuati per i versamenti, che il Tribunale ha ritenuto “ambivalenti e compatibili non già con un titolo negoziale costituito dal mutuo, ma con versamenti di capitali (ad esempio, uno dei bonifici effettuato dai soci in favore della società , conteneva la causale “acquisto macchinario Bertuetti ”, così inducendo il Giudicante a ritenere che il pagamento fosse qualificabile – per espressa volontà dello stesso socio – come apporto in conto capitale anziché come prestito rimborsabile ).
Venendo al secondo aspetto della questione, ovvero la postergazione dei finanziamenti soci rispetto agli altri creditori sociali, la sentenza in commento ricorda innanzitutto che in base all’art. 2467 co 2 c.c. “i presupposti della postergazione sono individuati dalla norma nell’eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto e in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento, in situazioni cioè di “rischio” di insolvenza che possono manifestarsi sia in fase di start-up se la società è sottocapitalizzata, e quindi vi è il pericolo che il rischio di impresa sia trasferito sui terzi creditori, sia in seguito, quando a fronte di perdite i soci, anziché conferire capitale come sarebbe “ragionevole”, effettuino finanziamenti, aumentando l’indebitamento e concorrendo quindi, con i creditori terzi, proseguendo l’attività sociale in danno di questi ultimi, che “normalmente” in una tale situazione non sarebbero disponibili ad erogare finanziamenti” .
In merito ai due requisiti normativi (l’“eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto” e una “situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”), la sentenza in commento mostra di aderire al prevalente orientamento della giurisprudenza di merito, che tende a preferire una lettura unitaria dell’art. 2467 comma 2 cc, facendolo coincidere con il concetto di “rischio di insolvenza”, ovvero in uno stato di sostanziale insolvenza della società finanziata che giustifichi l’anticipazione della tutela dei creditori sociali.
Dunque il Tribunale di Roma, proprio sulla base di una nozione unitaria definibile quale “rischio di insolvenza dante luogo a una sorta di concorso potenziale tra tutti i creditori della società”, chiarisce che il finanziamento del socio deve sempre essere postergato “quando, secondo un giudizio di prognosi postuma, nel momento in cui venne concesso, era altamente probabile che la società, rimborsandolo, non sarebbe stata in grado di soddisfare regolarmente gli altri creditori”.
Applicando tali principi al caso sottoposto al suo esame, il Tribunale capitolino ha respinto la domanda di postergazione proposta dalla società convenuta, perché ha ritenuto che la società si fosse limitata ad evidenziare l’esistenza di una propria situazione debitoria, senza tuttavia allegare né provare l’esistenza di una effettiva situazione di pericolo di crisi al momento in cui i finanziamenti dei soci furono concessi.
E’ interessante al riguardo l’interpretazione fornita dal giudicante in merito al contenuto dei bilanci prodotti dalla società convenuta, bilanci che evidenziavano modeste differenze negative tra valori della produzione e costi della produzione, ma perdite di esercizio anche superiori ad € 80.000.
La sentenza in commento, nel respingere la domanda di postergazione, ha prudentemente applicato al caso de quo il principio del rischio di insolvenza della società finanziata, evidenziando che “se da tali dati può evincersi che l’attività aziendale sia stata svolta, per alcuni periodi, in perdita, in quanto il valore di ciò che si è prodotto è stato inferiore ai costi sostenuti, non può al contrario evincersi un rischio di insolvenza che, come noto, si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
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Note
[1] Sentenza TRibunale di Roma n. 2631/2019, dep il 5/2/2019
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