L’ordinamento penale italiano è incardinato sul principio di legalità inteso quale principio sovrano che regge l’intera materia e, a garanzia del cittadino, guida e limita sia il potere legislativo, sia quello giudiziario.
Il principio de quo trova compiuta espressione nel secondo comma dell’articolo 25 della Carta Costituzionale, ai sensi del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, mentre a livello codicistico è previsto dall’articolo 1 del codice penale, secondo il quale “ nessuno può essere punito per un fato che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”.
Traguardo del pensiero illuminista, il principio di legalità ha come funzione essenziale quella di tutelare e garantire il singolo cittadino. Nel fondare la punibilità in una espressa previsione normativa, frutto quest’ultima del procedimento democratico, infatti, il cittadino è tutelato dall’arbitrio sia del potere esecutivo che di quello giudiziario.
Orami unanimemente dottrina e giurisprudenza hanno accolto il principio di legalità nella sua accezione mista, formale-sostanziale. Nel nostro ordinamento, invero, costituiscono reati esclusivamente comportamenti espressamente previsti dalla legge come tali.
La rigidità di tale principio – che potrebbe comportare ad un immobilismo normativo e alla non conformità delle leggi all’evoluzione etica-sociale- trova, tuttavia, attenuazione laddove al legislatore è imposto, nella formulazione della norma, il rispetto di determinati parametri costituzionali tra i quali emerge l’obbligo di predisporre norme in maniera chiara e precisa.
A tal proposito, sarebbe del tutto inutile fondare il sistema punitivo statale sulla legge formale qualora questa, per la sua formulazione, si manifestasse incomprensibile ed imprecisa così da costituire oggetto di interpretazioni elastiche al fine di colmare la lacuna.
In relazione a ciò, quindi, non può considerarsi errato affermare che mentre il principio di riserva di legge rafforza il principio di legalità in astratto, il principio di tassatività, invece, lo garantisce in concreto.
Ancora, mentre il principio di riserva di legge attiene alle fonti del diritto (sancendo la punibilità di determinati comportamenti solo se preveduti da una norma di legge) e limita il potere esecutivo nell’esercizio delle sue prerogative, il principio di tassatività inerisce al modo di formulare le leggi.
Da quanto sopra esposto si evince che il principio in esame è uno dei corollari del principio di legalità. Coma già osservato, infatti, una norma imprecisa non solo rimetterebbe al potere giudiziario la facoltà di delimitarla o espandere il suo significato oltre il proprio dato letterale, ma sarebbe totalmente inidonea ad orientare la condotta dei soggetti che si troverebbero così nell’impossibilità di stabilire ciò che è lecito, di prevedere le conseguenze delle proprie azioni e di decidere scientemente di porre in essere o meno quella determinata condotta.
Una volta individuato il fondamento nell’articolo 25 della Costituzione e la sua funzione garantista, merita osservare che, sebbene la dottrina e la giurisprudenza spesso utilizzano i termini tassatività, determinatezza e precisione come sinonimi, si sta espandendo la teoria che gli stessi siano tre requisiti diversi e necessari della singola norma penale.
In questo frangente, il principio di precisione impone al legislatore la descrizione dettagliata della fattispecie incriminatrice, la determinatezza impone, invece, la descrizione di comportamenti suscettibili di essere provati in concreto e, infine, la tassatività vieta al Giudicante di ricondurre all’interno di una fattispecie incriminatrice fatti nella stessa non ricompresi, sulla base di un rapporto di somiglianza o di similitudine tra il fatto tipizzato e quello verificatosi in concreto.
Si tratta del divieto di analogia, ovvero quello strumento che permette al Giudice di colmare le lacune del sistema mediante l’applicazione di norme che descrivono fatti simili a quelli verificatisi in concreto.
Il generale riconoscimento dello strumento dell’analogia è previsto nell’articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale, il quale prevede che “ se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe”.
Per ciò che concerne l’ordinamento penale è, invece, l’articolo 14 delle stesse disposizioni sulla legge in generale ad escludere l’applicazione dell’analogia, stabilendo che “leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in essa considerati.
A questo proposito merita differenziare l’analogia dall’interpretazione estensiva.
Mentre con la prima vengono sussunti all’interno di una norma fatti che fuoriescono dal suo ambito applicativo, con l’interpretazione estensiva, invece, il Giudicante estende il contenuto della norma rimanendo comunque all’interno del suo significato letterale, così da individuare e definire le zone grigie o di penombra lasciate dal precetto.
L’interpretazione estensiva è ammessa nell’ordinamento penale ed è addirittura definita “valvola di respiro” dello stesso in quanto permette al Giudice di diversificare l’applicazione della norma rispetto al caso concreto.
In ultima analisi è necessario osservare che, l’interpretazione estensiva, solitamente può intervenire nelle ipotesi in cui la norma contenga elementi cosiddetti elastici, mentre non è applicabile in presenza di elementi rigidi che nessuno spazio lasciano all’operatore del diritto.
Per un orientamento giurisprudenziale ormai maggioritario, l’analogia è ammessa nel sistema penale esclusivamente se favorevole al soggetto attivo del reato.
Prima di addentrarci nella problematica oggetto del presente elaborato, occorre preliminarmente riassumere il non breve percorso storico dell’istituto della confisca.
Nata nel codice Rocco, la confisca venne ricompresa tra le misure di sicurezza patrimoniali a carattere ablativo, costituita dall’espropriazione delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne costituivano il prezzo, il prodotto o il profitto dello stesso.
Dalla metà degli anni novanta la legislazione penale si è arricchita di altre fattispecie normative contenute sia nel codice penale che nella legislazione speciale.
Una di tali nuove fattispecie è senz’altro quella contenuta nell’articolo 322 ter del codice penale, inserita con la Legge n. 300 del 2000, che consente di poter espropriare somme di denaro nella disponibilità del soggetto attivo, nel caso in cui non sia stato possibile rinvenire nel suo patrimonio il prodotto, il prezzo o il profitto del reato. A differenza della misura di sicurezza patrimoniale originaria, questo tipo di confisca si sgancia dal requisito del nesso di consequenzialità diretta con il reato commesso poiché si caratterizza per la confisca di una somma di denaro o di beni “per un valore corrispondente” al prezzo, prodotto o profitto del reato. Stante l’assenza di un vincolo di pertinenzialità tra il reato commesso e il provvedimento ablatorio e la mancanza di pericolosità dei beni oggetto della confisca , l’istituto de qua secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha carattere afflittivo e, quindi, sanzionatorio.
Il carattere sanzionatorio dell’istituto in esame non si ferma al livello meramente nominalistico ma comporta notevoli rilievi applicativi in quanto preclude l’applicazione del regime di successione delle leggi penali nel tempo previsto dall’articolo 200 cod. pen., il quale, nel prescrivere che “se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge entrata in vigore al tempo dell’esecuzione”, prevede un principio di legalità limitato alla sola riserva di legge e non anche al principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, in quanto dispone che la misura di sicurezza entrata successivamente alla commissione del reato si applichi anche nel caso in cui al momento della configurazione dell’illecito non ne era prevista alcuna o ne era prevista una diversa.
In uno all’escursus storico dell’istituto della confisca, merita attenzione anche l’entrata in vigore della legge n. 231 del 2001 che, prevedendo la responsabilità amministrativa degli enti , supera il consolidato orientamento secondo il quale “ societas delinquere et puniri non potest”. Tralasciando il problema inerente alla natura penale o amministrativa della responsabilità dell’ente, l’assetto sanzionatorio della legge in esame è costituito da alcuni elementi costitutivi quali la commissione del reato a vantaggio o nell’interesse dell’ente, la realizzazione dello stesso da parte di un soggetto che riveste una posizione apicale o da persone sottoposte alla direzione di uno dei soggetti in posizione apicale quando ciò è dipeso dalla mancata predisposizione di modelli organizzazione e di gestione idonei a scongiurare il pericolo della commissione dei reati (la cui realizzazione costituisce presupposto della responsabilità dell’ente e che, lo si ricorda, sono espressamente elencati nella stessa legge )ovvero l’elusione fraudolenta di questi modelli non accompagnata da un omessa vigilanza da parte dell’organismo preposto.
In relazione all’utilizzo dello strumento dell’analogia in malam partem, è molto dibattuto in dottrina e, soprattutto, in giurisprudenza il problema relativo alla possibilità o meno di applicare la confisca per equivalente ex articolo 322 ter, ai reati tributari commessi dalla persona fisica in posizione apicale nell’interesse o a vantaggio dell’ente. La questione in esame nasce dal fatto che il decreto legislativo n. 74 del 2000 sulla nuova normativa in materia di reati tributari, non prevede alcuna ipotesi di confisca, la misura ablatoria contenuta nell’articolo 19 del D. Lgs n. 231 del 2001 ha un ambito applicativo ristretto solo ai casi in cui vengano commessi i reati presupposto elencati nel successivi articoli 24 e seguenti, mentre la finanziaria del 2008 ( legge n. 244 del 2007) ha esteso la possibilità di applicare l’istituto della confisca per equivalente anche ai reati tributari richiamando genericamente l’articolo 322 ter.
È proprio in relazione a tale ultima previsione che sono sorti due generi di problemi: il primo concernente il limite della estensione e cioè se possa essere riferita solo al primo comma o anche all’intera disposizione.
L’orientamento recente e prevalente della Corte di legittimità, ormai, è conforme nel ritenere applicabile la confisca per equivalente nei reati tributari in riferimento sia al prezzo che al profitto del reato.
Nel ritenere per “profitto” “qualsiasi vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione dell’illecito”, la Corte di Cassazione con sentenza del 17 gennaio 2012, n. 1843 ha sancito che il profitto può senz’altro consistere anche in un risparmio di spesa quale è quello derivante dal mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute come conseguenza di un accertamento tributario.
Nel 2006, la Corte di Legittimità, con sentenza n. 13244, ha statuito che per la legittimità della confisca deve sussistere necessariamente un nesso di pertinenzialità tra il denaro oggetto del sequestro e quello che costituisce il profitto del reato e che tale rapporto sussiste in relazione a tutti “ quei beni che siano il risultato dell’investimento effettuato con il denaro costituente profitto del reato” o anche “ la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura fungibile o infungibile”.
Con la sentenza citata, quindi, è stato stabilito che all’interno del concetto di profitto debbano essere ricompresi non soltanto i beni che l’autore del reato apprende direttamente dall’illecito, ma anche ogni altra utilità conseguita dal reo anche indirettamente o mediatamente.
Ulteriore problematica scaturente dalla legge finanziaria del 2008, stante l’omessa indicazione della sua applicabilità alle persone giuridiche, è quella se sia possibile estendere la confisca ex articolo 322 ter anche agli enti responsabili secondo la legge n.231 del 2001, pur non essendo previsti, come reati presupposto dell’illecito, quelli tributari.
Due sono gli orientamenti contrastanti che si contendono il campo.
Il primo, favorevole al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, fonda le sue ragioni sul fatto che il D.Lgs. n.231 del 2001 non costituisce un limite all’applicazione della confisca dei beni della società nel caso in cui l’amministratore o gli amministratori si siano resi responsabili di reati tributari, in quanto se è vero che il reato è addebitabile ad una singola persona, lo è altrettanto il fatto che l’ente da tale condotta ne abbia tratto un vantaggio costituito dall’utilizzo degli incrementi economici che ne sono derivati.
Ad esito opposto previene l’orientamento giurisprudenziale che, basando la teoria della non applicabilità della confisca per equivalente – sull’assunto secondo il quale gli articoli 19 e 53 del D.lgs. n. 231 del 2001 prevedenti la confisca per equivalente ed il sequestro preventivo possano applicarsi esclusivamente nei casi in cui sia stato configurato uno degli illeciti penali espressamente previsti nella II sezione dello stesso decreto e tra i quali non rientrano i reati tributari – rifiuta l’applicazione analogica della confisca ex articolo 322 ter cod. pen..
L’esclusione dell’applicazione dell’istituto in esame ai reati tributari commessi a vantaggio dell’ente si fonda sul fatto che tale estensione non potrebbe certamente ritenersi “interpretazione estensiva” ma vera e proprio utilizzo dell’analogia legis in malam partem, espressamente vietata dal legislatore.
Quest’ultimo orientamento è stato fatto proprio dalla III sezione della Corte di Cassazione penale che, con sentenza 19 novembre 2012, n. 1256, ha risolto la diatriba stabilendo che la mancanza di una previsione che consenta di poter ritenere sussistente la responsabilità di una persona giuridica per gli illeciti penali tributari, anche se posti in essere nel suo interesse è di ostacolo all’applicazione dell’istituto della confisca per equivalente previsto nella legge finanziaria del 2008, con la conseguenza che per potersi ritenere legittima sarebbe necessario un espressa disposizione nel D.Lgs. n. 321 del 2001.
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