Licenziamento: si guarda alla gravità del fatto
Con la sentenza n. 24014 dello scorso 12 ottobre, la sezione lavoro della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in materia di licenziamento del lavoratore, affermando che, in caso di furto, dirimente è la gravità della condotta e non il valore delle cose rubate. Infatti, i giudici di legittimità hanno dichiarato la legittimità del licenziamento intimato per il furto del lavoratore, ancorché si trattasse di un esiguo valore. E’ chiaro come, al di là del danno patrimoniale arrecato all’azienda, il fatto del lavoratore abbia compromesso il rapporto di fiducia di quest’ultimo con l’azienda.
Il caso di specie
Nel caso di specie, il danno patrimoniale ammontava a €.9,80, avendo il lavoratore rubato un pacco di caramelle da uno scaffale. Il gesto è stato considerato un indice della inaffidabilità del lavoratore, che avrebbe potuto manifestarsi anche in futuro, e anche in maniera maggiormente lesiva ai danni dell’azienda datrice.
Nella propria difesa, il lavoratore sottolineava l’esiguità del valore delle cose sottratte e, comunque, lamentava che l’accertamento dei fatti non fosse stato effettuato in modo incontrovertibile. Inoltre, prima del licenziamento, il datore non aveva irrogato alcuna sanzione disciplinare, avendo applicato direttamente la sanzione più grave, di per sè sproporzionata rispetto al fatto.
La pronuncia della Corte: la rottura del vincolo fiduciario
Premettendo che la Suprema Corte non è giudice del merito e che dunque, non può effettuare alcuna valutazione dei fatti di causa, cosa che invece veniva richiesta dal ricorrente e che, per quanto detto, è stata respinta dai giudici di legittimità. Nella pronuncia può leggersi che “secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale di questa Corte, la valutazione in ordine alla ricorrenza della giusta causa e al giudizio dì proporzionalità della sanzione espulsiva deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo“.
Peraltro, la Corte precisa che, ai fini del licenziamento, non occorre che il comportamento del lavoratore sia voluto; è sufficiente che lo stesso pregiudichi il vincolo fiduciario in modo tale da pregiudicare la prosecuzione del rapporto. Tale circostanza è stata ritenuta sussistente nel caso di specie.
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