Assumendo tale vincolo, il gestore è tenuto a a continuarla e a portarla a termine, finchè l’interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso ex art. 2048 c.c.
La gestione di affari è dunque un fatto giuridico, da cui discende il vincolo di proseguire e portare a termine l’iniziativa intrapresa, a pena di risarcimento del danno, salvo che ricorra un’impossibilità a lui non imputabile.
L’ art. 2 Cost parla di solidarietà sociale di aiuto e soccorso, si discute, a questo riguardo, se la gestione di affari altrui assume uno scopo solidaristico. Altruità dell’affare, la spontaneità della gestione o l’assenza della proibizio domini.
La norma in questione stabilisce che l’assunzione della gestione di cosa altrui deve essere consapevole (ovvero deve ricorrere un animus negotia gerendi) e soprattutto deve risultare spontanea.
Il Gestore deve essere capace e assume gli obblighi che deriverebbero dal mandato ex art. 2030 c.c.
Mandato con rappresentanza e senza rappresentanza
E’ necessario distinguere tra la gestione rappresentativa e quella senza rappresentanza, a seconda che la gestione operi con o senza spendita del nome, nel primo caso gli effetti si produrranno direttamente in capo al mandante, nel secondo all’opposto in capo al mandatario.
Il rinvio alle norme sul mandato, però, non deve essere interpretato in modo assolutistico, dovendosi difatti operare i necessari contemperamenti con la disciplina di gestione.
L’art. 2031 c.c. stabilisce:” Qualora la gestione sia stata utilmente iniziata , l’interessato deve adempiere le obbligazioni che il gestore ha assunte in nome di lui, deve tenere indenne il gestore di quelle assunte dal medesimo in nome proprio e rimborsargli tutte le spese necessarie o utili con gli interessi dal giorno in cui le spese stesse sono state fatte .
Questa disposizione non si applica agli atti di gestione eseguiti contro il divieto dell’interessato, eccetto che tale divieto sia contrario alla legge, all’ordine pubblico al buon costume“. Questa norma non si applica, qualora ricorre un’ipotesi di prohibitio domini.
La locazione di un bene immobile comune
La locazione di un bene immobile comune, la Corte di Cassazione a SS.UU. con la sentenza n. 1135/2012 ha evidenziato il contrasto per cui per alcuni il contratto doveva essere considerato quale mandato tacito senza rappresentanza art 1705 c.c. no; per altri una rappresentanza presunta. La tesi più accreditata risulta la gestione degli affari altrui.
Vediamone alcuni passaggi.
“In particolare, con riferimento all’applicabilità dell’art. 1705 cod. civ. ai rapporti di locazione, sul quale si è fondato il giudice di primo grado, esiste un orientamento secondo il quale il proprietario di un immobile locato ad un terzo da un suo mandatario senza rappresentanza può, nel revocare il mandato, esercitare ex art. 1705, secondo comma, cod. civ. ogni diritto di credito derivante dal rapporto negoziale nonché essere legittimato ad agire in giudizio per la riscossione del canone. Il mandante ai sensi dell’art. 1705 cod. civ. esercita in via diretta e non surrogatoria i diritti di credito sorti in capo ai mandatario sulla base del contratto concluso, con la sola condizione di non pregiudicarlo. Oltre ai diritti di credito nella giurisprudenza meno recente il diritto del mandante a sostituirsi al mandatario nell’esecuzione del contratto è stato esteso all’azione di risoluzione del contratto e al risarcimento dei danni nei confronti del terzo contraente.
L’altro orientamento sul quale si è fondato, invece, il giudice di secondo grado, formatosi specificamente in tema di comunione e di diritti del comproprietario non locatore, ha configurato la fattispecie come gestione utile nell’interesse comune. Le conseguenze della diversa impostazione sono di estrema rilevanza. I rapporti tra l’autore della gestione, che può aver validamente agito anche all’insaputa degli altri comunisti, sono direttamente ed esclusivamente regolati dalle norme della comunione e non possono incidere sulla sfera giuridica del terzo che rimane vincolato in via esclusiva con il locatore e non può subire interferenze o pregiudizio dai rapporti tra i comunisti stessi.”
“L’orientamento nettamente maggioritario (Cass. n. 2158 del 1983; Cass. n. 250 del 1984; Cass. n. 3275 del 1996; Cass. n. 9113 del 1995; Cass. n. 7416 del 1999; Cass. n. 12327 del 1999; Cass. n. 537 del 2002; Cass. n, 14772 del 2004; Cass. n. 8996 del 2005; Cass. n. 2399 del 2008; Cass. n. 19929 del 2008; Cass. n. 480 del 2009; Cass. n. 6427 del 2009; Cass. n. 14530 del 2009; Cass. n. 11589 del 2010) presuppone un reciproco rapporto di rappresentanza tra i comunisti sottostante agli atti di ordinaria amministrazione compiuti dal singolo comproprietario e la presunzione del consenso fondata sul modello del mandato presunto o tacito. Il principio risulta espresso nei sensi seguenti: “sugli immobili oggetto di comunione concorrono, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari, in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri.”
“Tale essendo il quadro delle soluzioni giurisprudenziali offerte in materia da questa Corte, il Collegio ritiene che la fattispecie in esame debba essere ricondotta nell’ambito di applicazione delle disposizioni concernenti la gestione di affari altrui, consentendo tale disciplina di offrire una soluzione che valga a contemperare gli interessi e le posizioni dei vari soggetti coinvolti.
Occorre innanzitutto rilevare che l’esistenza di una situazione di contitolarità del bene da parte del gestore non è di ostacolo all’applicazione dell’art. 2028 cod. civ., atteso che risulta impossibile negare che il partecipante della comunione che amministra la cosa comune curi l’interesse non solo proprio ma anche degli altri (Cass. n. 10732 del 1993).
Ciò premesso, “elemento caratterizzante la gestione di affari è il compimento di atti giuridici spontaneamente ed utilmente nell’interesse altrui, in assenza di un obbligo legale o convenzionale di cooperazione; a tal fine, si richiede innanzitutto l’absentia domini, da intendersi non già come impossibilità oggettiva e soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione e/o divieto del dominus; tale requisito non è peraltro sufficiente ai fini della configurabilità della gestione di affari, occorrendo altresì l’utilità della gestione (cosiddetta utiliter coeptum), la quale sussiste quando sia stata esplicata un’attività che, producendo un incremento patrimoniale o risolvendosi in un’evitata diminuzione patrimoniale, sarebbe stata esercitata dallo stesso interessato quale buon padre di famiglia, se avesse dovuto provvedere efficacemente da sé alla gestione dell’affare” (Cass. n. 12280 del 2007; con riferimento al concetto di absentia domini, Cass. n. 12304 del 2011)”.
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