Giornata mondiale della Giustizia Penale Internazionale: ribadire le Convenzioni di Ginevra

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Il 17 luglio ricorre la “giornata mondiale della giustizia penale internazionale”: si ricorda il 17 luglio 1998, data in cui a Roma, presso la sede della FAO, fu approvato lo statuto della Corte penale internazionale, da allora noto nel mondo come lo “statuto di Roma”.  Il contributo intende rendere omaggio ai giuristi e ai diplomatici che si sono adoperati per conseguire quel traguardo, proseguendo il percorso delle convenzioni di Ginevra, ancora oggi attuale per contrastare la barbara disumanizzazione delle nuove guerre. L’attacco devastante all’Ospedale pediatrico di Kiev chiama la comunità degli stati ad una precisa assunzione di responsabilità per rilanciare con forza il principio inderogabile della tutela della popolazione civile nei conflitti armati sancito dalle Convenzioni di Ginevra.

Indice

1. Un destino comune: le stragi di civili in Ucraina e a Gaza


Il dramma delle morti e delle distruzioni causate dal criminale bombardamento dell’ospedale pediatrico Okhmatdyt di Kiev, dove erano in cura anche bambini malati di cancro, è solo l’ennesima conferma di un elemento comune all’escalation delle guerre in corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza: il diffuso e macroscopico coinvolgimento delle popolazioni civili con morti e distruzioni, e questo nonostante il moderno diritto internazionale di conflitti armati stabilisca vincoli tassativi per limitare gli effetti della violenza bellica sulla popolazione civile. Non sono mancate le incriminazioni per crimini di guerra e contro l’umanità della Corte penale internazionale, eppure scetticismo e riserve sono espresse anche per la giustizia internazionale, che per quanto ancora sia un working in progress rimane uno strumento essenziale per affermare principi basilari del diritto internazionale e un senso comune di “umanità”. Il tema della esasperazione della violenza bellica è stato appena sfiorato anche nelle manifestazioni delle università, che non sono andate al di là dell’immaginario ideologico della protesta anti-israeliana. Eppure è ancora dalle università che potrebbe essere rilanciata l’attenzione su questo insistente coinvolgimento della popolazione civile nei conflitti, un dato che non può assolutamente essere considerato come per assodato e inevitabile, in nessun caso, anche nelle “nuove” guerre. Soprattutto dagli studiosi del diritto e della scienza politica questo tema dovrebbe essere rilanciato con maggiore consapevolezza ed essere riproposto dalle leadership con urgenza in tutti i contesti internazionali.

2. Un segnale dal mondo accademico


La necessità di una riflessione sul tema sembra emergere nel mondo accademico degli USA dopo le critiche espresse dal governo al Prosecutor della Corte penale internazionale Karim Khan per l’ annuncio dei mandati di arresto contro i leader israeliani per i crimini di guerra commessi a Gaza. Sull’influente rivista Foreign Affairs, Oona A. Hathaway, docente di diritto internazionale alla Yale Law School, ha pubblicato due contributi dai titoli molto eloquenti: “Guerra senza limiti: Gaza, l’Ucraina e il crollo del diritto internazionale”, e “Non andare in guerra contro la Corte penale internazionale. L’America può aiutare Israele senza attaccare la CPI”. La Hathaway in particolare ha esortato gli Stati Uniti a disciplinare con più rigore i principi di proporzionalità e di precauzione nel Law Of War Manual del Dipartimento della Difesa, e ha invitato gli USA a riconoscere la Corte penale internazionale, con una argomentazione efficace: «Attaccare la CPI dimostra che gli USA sostengono la giustizia globale solo quando viene applicata ai loro avversari. Così facendo, suggerisce che l’impegno degli Stati Uniti per lo stato di diritto si estende solo fino a quando il loro nudo interesse personale a breve termine lo consente. Non c’è modo più sicuro per erodere l’ordine giuridico globale». Il tema della escalation della violenza bellica nei conflitti armati e della sua regolamentazione è dunque diventato centrale: chiama anche ad una precisa responsabilità la comunità internazionale – come anche quella dei giuristi – di non fermarsi alle sole dichiarazioni di principio ma di farsi pure promotrice di iniziative più concrete per riaffermarle.

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3. Ripartire dai fondamenti del Diritto Internazionale Umanitario


Quanta importanza possa avere un risveglio della società civile in questi contesti può ricavarsi dal moto originario da cui in maniera assolutamente inaspettata si sviluppò a metà ottocento il movimento internazionale sorto attorno alla nascita del diritto umanitario moderno. Il 24 giugno 1859 il ginevrino Henri Dunant rimase colpito dall’eco dei combattimenti della battaglia di Solferino e San Martino, constatando in prima persona le devastazioni nelle case e nelle campagne, e soprattutto le agonie e le sofferenze dei feriti lasciati abbandonati sul campo, senza un soccorso sanitario adeguato. Dunant decise di pubblicare perciò il suo Souvenir di Solférino, una vibrata denuncia contro le atrocità delle guerre che portò un gruppo di filantropi, la Società Ginevrina di utilità pubblica (i principali animatori furono un giurista, l’avvocato Gustave Moynier, un militare, il generale-ingegnere Henri Dufour che aveva militato nell’esercito francese, e due medici, Louis Paul Amédée Appia e Theodore Maunoir) ad una iniziativa che sembrò velleitaria: fu inviata una lettera a tutti i contatti influenti per convocare una Conferenza internazionale. È così che si arrivò nel 1864 all’adozione della prima Convenzione di Ginevra del 1864 per il miglioramento dei militari feriti in guerra che sanciva la nascita del Movimento internazionale della Croce Rossa. Da allora è seguito un processo di evoluzione del DIU, che dopo le due guerre mondiali e i conflitti della decolonizzazione è approdato alla Convenzione contro il genocidio del 1948 e alle Convenzioni di Ginevra del 1949, dove la tutela della popolazione civile è affermata in particolare dalla IV Convenzione e all’articolo 51 del Protocollo I del 1977 . Le condizioni fondamentali per la condotta della guerra prevedono dunque il “principio di distinzione” tra combattenti e popolazioni civili, nonché tra obiettivi militari e civili, e il divieto di attacchi “dai quali ci si può attendere che provochino incidentalmente morti e feriti tra la popolazione civile”, o una “combinazione di perdite umane e di danni, che risulterebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto”.

4. Dalle Convenzioni di Ginevra alla Corte Penale Internazionale


I principi del diritto internazionale umanitario erano intanto confluiti nel percorso delle Nazioni Unite e dell’idea di giustizia penale internazionale, sviluppatasi con i Tribunali di Norimberga e Tokio, e poi con i Tribunali della ex Jugoslavia e del Ruanda, per arrivare alla storica Conferenza di Roma: il 17 luglio 1998 è stato approvato lo Statuto della Corte penale internazionale (Cpi), lo Statuto di Roma entrato in vigore nel 2002, che rappresenta oggi il più avanzato codice che individua le principali fattispecie dei crimini internazionali basandosi proprio sul principio fondamentale della tutela della popolazione civile. Sono così individuati i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, e il genocidio. Il sistema di tutela della Corte si basa fondamentalmente sui principi delle Convenzioni di Ginevra posti a garanzia della popolazione civile che ora trovano affermazione in quattro corollari espressi dalla nuova giurisdizione internazionale: 1) i crimini di guerra e contro l’umanità sono imprescrittibili; 2) i procedimenti possono essere “sospesi” ma non annullati, nemmeno di fronte alle responsabilità di Capi di Stato e di governo; 3) ai sensi dell’articolo 28 dello Statuto della Corte opera la “responsabilità dei leader”, configurabile non solo nella emanazioni di ordini, ma anche nel mancato controllo sui sottoposti (i quali comunque non possono valersi dell’esimente di aver obbedito ad un ordine); 4) per la regola della complementarietà sono le giurisdizioni nazionali a dover perseguire i criminali di guerra e contro l’umanità, ma la Corte è chiamata ad intervenire sempre in caso di incapacità o mancanza di volontà (inability o unwillingness) degli Stati. Era scontato che un sistema così rigoroso e complesso trovasse difficoltà di attuazione: la Corte penale internazionale dell’Aja ad oggi è sostenuta da 124 Stati, ma vede ancora la mancata adesione di Russia, Cina e India, come anche di democrazie quali gli Stati Uniti e lo stesso Israele. Per l’affermazione dei principi del diritto internazionale si tratta dunque di riaprire un percorso, anche perché le cronache di questi giorni sulle difficoltà di far osservare le pronunce delle Corti internazionali dimostrano che occorre ripartire da una nuovo sistema di regole, stavolta inequivocabilmente condiviso da parte della comunità degli Stati.

5. Scelte fondamentali per l’Umanità


Assume dunque un significato particolare un principio statuito dalle Convenzioni di Ginevra, richiamato con parole nette dal prosecutor della Corte penale internazionale Karim Khan: ogni Stato ha il dovere di avvalersi di un esercito professionale, assistito da giuristi militari e orientato da un sistema basato sul rispetto del diritto internazionale umanitario, per cui sarà sempre chiamato a dimostrare che «qualsiasi attacco è stato condotto in conformità con le leggi e le consuetudini dei conflitti armati», a cominciare dalla «corretta applicazione dei principi di distinzione, precauzione e proporzionalità». Eccoci allora alla necessità di dare un senso alla indignazione per le stragi di civili di questi giorni: è fondamentale in questo momento sostenere con forza la tutela delle popolazioni civili irresponsabilmente coinvolte nei conflitti armati, in palese violazione di qualsiasi principio di diritto internazionale. È il caso di ripensare ai percorsi già compiuti, quando ad esempio si è giunti alla Risoluzione 377 A/1950 dell’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite Uniting for Peace: superando persino l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza si riuscì ad imporre la cessazione della guerra di Corea. Ed altrettanto utile è ripercorrere l’esperienza delle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, convocando una nuova Conferenza Internazionale per l’affermazione del Diritto Internazionale Umanitario e del ruolo della Corte penale internazionale. L’auspicio è che se ne parli presto in tutti i prossimi appuntamenti internazionali: ancora al G7 a guida italiana, ma soprattutto in un possibile evento di più ampia portata nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Si tratterebbe in altri termini di fermarsi per riflettere: occorrerebbe riproporre quel clima di condivisione universale che si realizzò su valori fondanti quando fu varata la prima Convenzione di Ginevra del 1864. Se si determinasse su queste iniziative una maggiore sensibilità della società civile probabilmente i governi e le diplomazie saprebbero anche trovare le soluzioni, perché si tratta del percorso già compiuto dal diritto internazionale umanitario (DIU), altrimenti evocato appunto come il diritto delle Convenzioni di Ginevra. Questo è il percorso necessario, più concreto per ricondurre l’umanità su un percorso di pace, un progetto fondamentale anche per affrontare un’altra emergenza: il rischio della minaccia nucleare. Il futuro delle generazioni non può essere ancora compromesso da scelte irresponsabili di potenze revisioniste dell’ordine internazionale “basato sulle regole”, su cui è bene che la comunità internazionale sia chiamata nuovamente a confrontarsi, e a decidere sulla base di regole e principi universali stavolta non più derogabili, in nome appunto di un «Diritto dell’Umanità».

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