Il giudizio d’appello: specificità dei motivi e divieto di nuove domande e eccezioni

Com’è noto, il procedimento d’appello ha subito una integrale rivisitazione da parte del legislatore con l’emanazione del Decreto Sviluppo e, in particolare, con la formulazione dell’art. 54, D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, rubricato nel Capo VII, sotto la voce “Ulteriori misure per la giustizia civile”.

Forma dell’appello.

Per quel che interessa in questa sede, premesso che le nuove norme si applicano ai giudizi d’appello instaurati con decorrenza 12 settembre 2012, l’art. 342 Cpc, nell’attuale formulazione prevede che <<L’appello si propone con citazione contenente le indicazioni prescritte dall’articolo 163. L’appello deve essere motivato. La motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. Tra il giorno della citazione e quello della prima udienza di trattazione devono intercorrere termini liberi non minori di quelli previsti dall’articolo 163 bis.>> (Precedente formulazione dell’art. 342: <<(Forma dell’appello). L’appello si propone con citazione contenente l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell’impugnazione nonché le indicazioni prescritte nell’articolo 163>>).

L’omologo art. 434 Cpc, per i procedimenti d’appello in materia di lavoro, prevede che <<Il ricorso deve contenere le indicazioni prescritte dall’articolo 414. L’appello deve essere motivato. La motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. Il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della corte di appello entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza, oppure entro quaranta giorni nel caso in cui la notificazione abbia dovuto effettuarsi all’estero.>> (Precedente formulazione dell’art. 434: <<(Deposito del ricorso in appello). Il ricorso deve contenere l’esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici dell’impugnazione, nonché le indicazioni prescritte dall’articolo 414.>>).

L’anzidetta formulazione ha dato non pochi problemi di interpretazione tanto che, ancora oggi, a distanza di oltre 5 anni dalla riforma, ancora non è stato possibile fornire una nozione condivisa in merito alla forma dell’appello.

Per inciso, stante la divergenza di orientamenti espressi nel corso del tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza, in particolare, da quella di merito, ma anche in seno a quella di legittimità, la questione è stata già rimessa al Primo Presidente della Corte di Cassazione, affinché valuti l’opportunità di assegnare alle sezioni unite la soluzione del contrasto (Cass. n. 8845/2017 e Cass. n. 24068/2017).

Fermi restando i canonici requisiti relativi all’indicazione dell’ufficio giudiziario competente, il nome, il cognome, la residenza e il codice fiscale dell’appellante e quello del procuratore, l’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione, nonché l’invito all’appellato a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell’udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall’art. 166, ovvero di dieci giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire, nell’udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell’art. 168-bis, con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui all’art. 343 (appello incidentale), ora, tra le motivazioni poste a sostegno del gravame, occorre indicare – con espressa sanzione di inammissibilità, non rinvenibile nella precedente formulazione – anche le parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado, oltre che le circostanze da cui deriva la violazione della legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

In altri termini, occorre la specifica indicazione del capo o della parte della sentenza che non si condivide ed anche le modifiche che si dovrebbero apportare rispetto alla decisione di primo grado, indicando le violazioni di legge in cui sarebbe incorso il giudice di prime cure e, soprattutto, se le stesse possano portare ad una differente decisione, anche in considerazione del fatto che non tutte le violazioni comportano automaticamente una diversa valutazione della domanda, si pensi ad esempio a quelle di carattere procedimentale.

D’ora in poi, quindi, l’appellante non potrà affatto limitarsi a criticare genericamente la sentenza impugnata, essendo invece necessario, a pena di inammissibilità, che lo stesso individui specificamente i capi della sentenza censurati e come, in realtà, il primo giudice avrebbe dovuto statuire sul punto, nonché l’errore di diritto consumato con la decisione che, qualora applicato correttamente, avrebbe portato ad una differente conclusione del giudizio.

Su questi punti però, la giurisprudenza si è spesso divisa, giungendo ad affermare la necessità di <<individuazione letterale del passaggio argomentativo posto a fondamento della singola statuizione>>, mentre, in altri casi, <<occorrendo invece mettere in evidente contrapposizione le tesi argomentative della sentenza impugnata con quelle difensive>> e, in altri ancora, <<richiedendosi ulteriormente di specificare il nesso di decisività delle contrapposte tesi difensive in quanto idonee a sovvertire la regola finale di giudizio>>, passando per la necessità di predisporre l’atto di appello <<come uno schema di sentenza alternativa a quella impugnata>>.

Orbene, al fine di stabilire l’effettivo contenuto dell’atto di appello, non si può non partire dal dettato costituzionale per cui la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti (art. 113 Cost.), il che equivale a dire come l’accesso alla giustizia non può essere limitato da esasperati formalismi che, inevitabilmente, finirebbero col negare la tutela del diritto del singolo.

Tanto è vero che, come opportunamente ricordato dal giudice di legittimità, proprio con riferimento alla forma dell’appello, <<condizione necessaria per la legittimità di ogni requisito formale di limitazione dell’accesso al giudice … è che l’interpretazione che se ne faccia in concreto non leda la sostanza stessa del diritto del ricorrente ad accedere alla Corte e che non sia viziata da un formalismo eccessivo, i quali comunque devono risultare già preventivamente imposti e conoscibili e chiari, ma non possono comportare uno sforzo ulteriore rispetto alla chiarezza del testo legislativo od alla particolare competenza richiesta al difensore del ricorrente>> (Cass. 8845/2017).

Sulla scorta di ciò, appare da respingere quell’orientamento, pure manifestato dalla giurisprudenza di merito, che lascerebbe intendere come il riformato giudizio d’appello sia stato concepito alla stessa stregua del giudizio di legittimità e, pertanto, considerato quale impugnazione a critica vincolata, circostanza espressamente esclusa dalla sezioni unite, le quali hanno avuto modo di affermare come l’appello ha natura di revisio prioris instantiae (Cass. Sez. Un. n. 3033/2013) ovvero una revisione della prima istanza e che, quindi, il giudizio vada espresso sul rapporto dedotto in primo grado e non sulla sentenza.

Tanto perché, comunque lo si voglia intendere, il giudizio d’appello è, e rimane, un giudizio di merito, nel quale il giudicante deve valutare la pretesa dedotta in giudizio ovviamente in relazione ai soli motivi addotti dall’appellante.

In altri termini, <<rispetto all’atto d’appello non è concepibile alcun requisito di “autosufficienza” (quale che sia il maggior o minore rigore che si volesse attribuire a tale nozione, dal significato non sempre univoco nella giurisprudenza di legittimità)>>, essendo sufficiente che l’appellante indichi in modo chiaro di quale errore intende dolersi, tanto è vero che <<l’appello, nei limiti dei motivi di impugnazione, è un giudizio sul rapporto controverso, e non sulla correttezza della sentenza impugnata. Ne consegue che rispetto all’atto d’appello non è concepibile alcun requisito di autosufficienza, ma solo di specificità>> (Cass. n. 6978/2016).

Ecco che allora, tralasciando le tesi “estreme”, quali quelle che imporrebbero l’autosufficienza dell’atto di appello ovvero che ritengono sia necessario strutturare l’atto di appello come un vero e proprio progetto alternativo di sentenza, e quelle “minimaliste”, per le quali nulla sarebbe cambiato rispetto al testo previgente, per il quale era pur sempre richiesta la specificità dei motivi – salvo con l’attuale, dichiararne esplicitamente l’inammissibilità -, sarebbe preferibile ritenere, proprio partendo dal dato letterale della norma, come l’atto di appello debba essere strutturato con la formulazione precisa degli specifici motivi di dissenso dei singoli capi della sentenza impugnata, e con l’argomentazione ragionata in merito alla non condivisione della motivazione della sentenza.

In questa ottica, sicuramente apprezzabili risultano gli approdi giurisprudenziali per i quali <<escluso che il nuovo testo normativo richieda che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare l’idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata>> (Cass. n. 2143/2015).

La specificità richiesta dal nuovo art. 342 Cpc, è stata esaurientemente interpretata nel senso che <<nell’atto di appello, ossia nell’atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile d’ufficio e non sanabile per effetto dell’attività difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, al qual fine non è sufficiente che l’atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata>> (Cass. 18392/2016).

Una siffatta esegesi mediata dell’art. 342 Cpc, non ammantata da un eccessivo, e francamente inutile, rigore formalistico, appare senz’altro preferibile non fosse altro perché il giudizio d’appello, per come ricordato anche dalla recente giurisprudenza, rimane comunque un giudizio di merito che attiene al rapporto dedotto nel giudizio, e non un giudizio sulla sentenza di primo grado.

Ciò, anche in virtù della complessiva riforma apprestata dal D.L. 83/2012 il quale, lo ricordiamo, ha anche riformulato l’art. 360 Cpc, il quale, attualmente, circoscrive oltre modo il controllo del giudice di legittimità sulla motivazione della sentenza impugnata. Diversamente opinando, si correrebbe il serio rischio di giungere ad una tacita limitazione dalla possibilità di accesso ai mezzi di impugnazione e, pertanto, al diniego della tutela dei diritti, che non possono essere sacrificati sull’altare di una rigido tuziorismo formale, in considerazione del fatto che vige ancora il principio del doppio grado di giudizio.

A tal proposito, illuminante l’ordinanza interlocutoria di rimessione al Primo Presidente della Corte di Cassazione, laddove è dato leggere che <<la questione pare al Collegio di estrema rilevanza, soprattutto in un contesto ordinamentale che ha finito con l’attribuire al grado di appello, tuttora privo di usbergo costituzionale, un ruolo cruciale per l’effettività della tutela dei diritti soprattutto quanto al giudizio di fatto, vista la severa limitazione del controllo sulla relativa motivazione introdotta dalla novella del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. (su cui, per tutte, vedi le fondamentali Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 e 8054), ma lo ha al contempo reso di assai più complessa struttura processuale, introducendo requisiti di ammissibilità molto stringenti ed offrendo strumenti di definizione accelerati (che peraltro hanno suscitato più di un dubbio applicativo, solo in parte risolto di recente, quanto all’art. 348-bis cod. proc. civ., da Cass. Sez. U. 02/02/2016, n. 1914), di sostanziale e significativa limitazione del suo ordinario ambito di estrinsecazione (peraltro conforme ai canoni costituzionali e sovranazionali: Cass. 11/12/2014, n. 26097; Cass. ord. 23/12/2016, n. 26936)>> (Cass. n. 8845/2017).

Divieto di nuove domande ed eccezioni. I mezzi di prova.

La riforma del 2012 ha interessato anche l’art. 345 Cpc, in materia di domande ed eccezioni nuove che, attualmente, risulta così come formulato: <<Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, e non possono essere prodotti nuovi documenti salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio.>> (Precedente formulazione dell’art. 345: <<(Domande ed eccezioni nuove). Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono rigettarsi d’ufficio. Possono però domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio.)>>.

Tale modifica, contrariamente a quanto accaduto con la “forma dell’appello” (art. 342 e 434 Cpc), non ha interessato il rito del lavoro, atteso che l’omologo articolo del codice di procedura civile, il 437 Cpc, prevede ancora il divieto di nuove domande ed eccezioni, nonché l’inammissibilità di nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa.

Ciò, probabilmente, in considerazione del rigoroso sistema di preclusioni già predisposto per il rito del lavoro, laddove il ricorrente è obbligato, a pena d’inammissibilità, ad indicare tutti i mezzi di prova di cui s’intende avvalere sin dalla costituzione in giudizio, mentre il resistente è vincolato ad indicarli fin dalla memoria di costituzione, da depositare 10 giorni prima dell’udienza fissata per la comparizione delle parti e la discussione.

Di talché, nel rito del lavoro, la valutazione in merito alla indispensabilità della prova è lasciata alla libera valutazione del collegio, secondo il suo prudente apprezzamento che, ovviamente, dovrà essere congruamente motivato.

Ritornando al divieto di domande e eccezioni nuove in appello, la L. 7 agosto 2012, n. 134, ha lasciato invariato il regime delle anzidette preclusioni, di talché, ora come allora, risultano ancora applicabili i principi mutuati dalla giurisprudenza di legittimità.

Occorre premettere che, tra gli elementi essenziali della domanda giudiziale, che può assumere la forma dell’atto di citazione o del ricorso, ricordiamo l’oggetto della domanda, altrimenti detto “petitum”, nonché il fatto giuridico posto a fondamento della pretesa, vale a dire la “causa petendi”, in altri termini, il diritto che l’attore intende far valere in giudizio.

Ciò posto, è stato ritenuto che <<è domanda nuova, non proponibile per la prima volta in appello ai sensi dell’articolo 345 c.p.c., quella che alteri anche uno soltanto dei presupposti della domanda iniziale, introducendo un petitum diverso e più ampio, oppure una diversa causa petendi, fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado ed in particolare su un fatto giuridico costitutivo del diritto originariamente vantato, radicalmente diverso, sicché risulti inserito nel processo un nuovo tema d’Indagine>> (Cass. n. 18299/2016).

La giurisprudenza di legittimità si è più volte espressa in siffatta materia, evidenziando come, <<si ha domanda nuova – inammissibile in appello – per modificazione della “causa petendi” quando i nuovi elementi, dedotti dinanzi al giudice di secondo grado, comportino il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, modificando l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non si è svolto in quella sede il contraddittorio>> (Cass. 15506/2015. Tra le altre: Cass. 15101/2012; Cass. 1861/2013; Cass. civ., 21002/2012).

Il discrimine, pertanto, tra domanda nuova inammissibile in appello e la consentita specificazione della domanda ovvero la diversa quantificazione della stessa, risiede nella immutabilità dell’oggetto.

Pertanto, solo quando viene allargato il tema di indagine o si fonda la domanda su un titolo diverso rispetto a quello originariamente dedotto, questa risulta inammissibile perché viola il disposto dell’art. 345 Cpc.

A tal proposito, con riferimento ai danni da circolazione stradale, è stato ritenuto che, <<in caso di illecito da circolazione stradale, non possono essere qualificate domande nuove le specificazioni delle singole componenti del danno subìto formulate, nel corso del giudizio d’appello, dai congiunti conviventi della vittima tenendo conto del diritto giurisprudenziale vivente, anche al fine di resistere ai motivi di gravame della parte appellante, una volta che la domanda originaria sia comprensiva di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, “iure proprio” e “iure successionis”>> (Cass. n. 24745/2007).

Ed ancora, <<l’azione di responsabilità fondata sulla violazione di un obbligo di custodia è intrinsecamente diversa da quella fondata sul principio generale del neminem laedere, in quanto l’applicabilità dell’una o dell’altra norma implica, sul piano eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti temi di indagine. Proposta, dunque, in primo grado una domanda ex art. 2043 c.c., non è consentito alla parte in appello fondare la medesima domanda sulla violazione dell’obbligo di custodia, perché ciò finirebbe per stravolgere il processo, mettendo il danneggiante nella situazione di doversi attivare quando una serie di preclusioni processuali si sono già maturate. Di talché la domanda ex art. 2051 c.c. può non essere considerata nuova in appello rispetto a quella fondata ex art. 2043 c.c., solo se l’attore abbia, sin dall’atto introduttivo del giudizio, enunciato in modo sufficientemente chiaro, situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare le fattispecie contemplate dalle predette disposizioni>> (Cass. n. 18463/2015).

E’ stato altresì reputato come la richiesta di rimborso di quanto corrisposto in esecuzione della sentenza di primo grado non rientra nel divieto di domande nuove in appello, come il mutamento della originaria domanda di risoluzione in quella di adempimento, ex art. 1453 Cc, a condizione però che tale mutamento non comporti vieppiù una modificazione della causa petendi con la deduzione di nuovi fatti costitutivi.

Nessun problema, invece, per quanto riguarda le eccezioni rilevabili d’ufficio, ampiamente deducibili anche in appello per esplicita previsione normativa.

A titolo di esempio, l’eccezione di pagamento, siccome rilevabile d’ufficio, può essere sollevata per la prima volta in appello ex art. 345 c.p.c., in quanto il giudice può accertare l’estinzione del debito, se provata, anche in assenza di espressa istanza del debitore (Cfr.: Cass. n. 9965/2016).

Per quanto attiene, invece, la possibilità di chiedere nuovi mezzi di prova e di produrre nuovi documenti in grado di appello, la riforma ha apportato delle stringenti limitazioni a tale facoltà, essendo venuto meno il riferimento alla indispensabilità delle prove ai fini della decisione, giudizio prima rimesso alla valutazione del collegio giudicante, fatta salva la sola possibilità di deferimento del giuramento decisiorio.

Conseguentemente, possono riproporsi i mezzi istruttori già dedotti in primo grado e, tuttavia, non ammessi ovvero quelle prove per le quali si dimostri l’impossibilità di proposizione o produzione nel giudizio di primo grado, per causa non imputabile alla parte.

Il riferimento va, in primo luogo, alla documentazione sopravvenuta, a vale a dire quella formatasi successivamente allo spirare del termine di cui all’art. 183, VI comma, Cpc, in primo grado, ovvero alle prove e documenti rivenuti dopo la decisione, sempre che si dia prova dell’epoca del ritrovamento, ma anche, ad esempio, ai documenti già prodotti in giudizio e non depositati in primo grado, si pensi a quelli contenuti nel fascicolo del decreto ingiuntivo avverso il quale è stata proposta opposizione.

In tale ultimo caso, infatti, occorre tenere presente la condizione relativa alla automaticità della trasmissione del fascicolo d’ufficio della fase monitoria contenete i documenti, nel giudizio dell’opposizione e, comunque, il dirimente requisito relativo all’ammissibilità in appello di documenti di fatto già prodotti, come quelli depositati nel fascicolo del monitorio. In tal senso, si sono espresse le sezioni unite, nella sentenza n. 14475, depositata in data 10 luglio 2015, i cui principi, seppure espressi nella vigenza dell’originario art. 345 Cpc, nondimeno risultano applicabili anche con la nuova formulazione.

Infine, per quanto concerne il concetto di “indispensabilità”, la questione, pur nella nuova formulazione dell’art. 345 Cpc, <<si proietta anche in futuro, malgrado l’intervenuta modifica dell’art. 345, comma 3, cod. proc. civ. ad opera della I. n. 134, del 2012: infatti, il medesimo concetto di indispensabilità della prova nuova in appello resta immutato nell’art. 437, comma 2, cod. proc. civ. e nell’art. 702-quater stesso codice, concernente il procedimento sommario di cognizione (oltre che nell’art. 1, comma 59, legge n. 92 del 2012 per le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 legge n. 300 del 1970, norma che a sua volta riproduce quella del comma 2 dell’art. 437 cit.)>>, come acutamente osservato dalla sezioni unite, nella sentenza n. 10790, pubblicata in data 4 maggio 2017, la quale appunto fornisce una esplicitazione della (limitatamente) sopravvissuta indispensabilità della prova.

Le sezioni unite premettono che <<in linea di massima è nuova tanto la prova avente ad oggetto un fatto nuovo, ossia allegato per la prima volta in appello (perché sopravvenuto o perché, pur preesistente, divenuto rilevante solo grazie al tenore della sentenza di primo grado o ad una novità normativa sopraggiunta dopo che erano maturate le preclusioni istruttorie), quanto quella intesa a dimostrare un fatto già allegato in primo grado>>, ciò posto, <<nella prima ipotesi risulta applicabile – a tutta evidenza – l’art. 345, comma 3, cit. là dove consente quei nuovi documenti e mezzi di prova che la parte non abbia potuto chiedere nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile>>.

La stessa, quindi, da atto dell’orientamento prevalente per cui, l’indispensabilità presuppone un giudizio in merito alla possibilità del mezzo istruttorio a fugare un perdurante stato di incertezza sui fatti controversi (Cfr.: Cass. n. 14133/2006).

Pertanto, <<la locuzione «indispensabili ai fini della decisione della causa» che si legge nel previgente testo del cit. art. 345, comma 3, cod. proc. civ., semanticamente non può che intendersi come riferita, appunto, a prove assolutamente necessarie, essenziali, di cui non si può fare a meno, tali cioè da determinare la decisione del giudice in un senso anziché in un altro. In breve, devono essere prove decisive, ossia tali da dissipare ogni incertezza sulla ricostruzione fattuale della vicenda sottoposta all’esame del giudice>>.

In conseguenza di ciò esprime il principio, applicabile, come visto, anche attualmente, limitatamente ai procedimenti sopra detti, per cui <<prova nuova indispensabile di cui al testo dell’art. 345, comma 3, cod. proc. civ., previgente rispetto alla novella di cui all’art. 54, comma 1, lett. b), d.l. n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012, è quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado>>.

 

 

 

Avv. Accoti Paolo

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