Giustizia amministrativa – Presupposti e condizioni per l’esperibilità dell’azione di annullamento.
Indice
1. Gli “affari non compresi”: il vecchio sistema degli interessi legittimi.
Il diritto amministrativo ha subìto, per lungo tempo, la mancanza di un disegno unitario di giustizia, con la conseguente necessità di creare un corpus iuris dotato di maggiore organicità, coordinamento normativo, snellezza ed effettività della tutela. Solo nel 2010, con il D.lgs. 104 del 2010, si è pervenuti, definitivamente, ad un riassetto del processo davanti ai tribunali amministrativi regionali ed al Consiglio di Stato, nonché alla previsione di un codice del processo amministrativo, concentrato su una maggiore razionalizzazione dei termini processuali, riordino delle norme vigenti, revisione dei riti speciali e riassetto della tutela cautelare. In particolare, il codice oltre a richiamare i principi costituzionali della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo, ha reso necessaria la costruzione di un processo connotato da una forma di tutela pienamente effettiva. Infatti, l’articolo 1 del D.lgs. 104 del 2010, afferma che “la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo. Sul piano sostanziale, l’applicazione concreta di tale norma, è avvenuta attraverso la previsione di una molteplicità di azioni dirette alla tutela dell’interesse legittimo, ovvero di quella posizione individuale di vantaggio strettamente connessa con l’interesse pubblico e protetta dall’ordinamento con la tutela giuridica di questo. In tal senso, si ricava la principale divergenza, di carattere qualitativo, tra l’interesse legittimo ed il diritto soggettivo, incentrata sul modo di protezione delle singole situazioni giuridiche: difatti, mentre la soddisfazione del diritto soggettivo avviene sempre, pienamente e direttamente, quella dell’interesse legittimo ha luogo in relazione alla soddisfazione di quello pubblico. In passato ed in un clima preunitario, caratterizzato dalla frammentarietà delle fonti, dalla disorganicità delle norme e dall’assenza di un giudice amministrativo, le pretese dei cittadini nei confronti della P.A. venivano sollevate davanti ai c.d. “Tribunali del contenzioso amministrativo”, quali organi interni all’amministrazione. Inoltre, vi era l’assenza di una qualificazione normativa di interesse legittimo, tanto che con la L. 2248 del 1865 – Allegato “E”, si faceva loro riferimento con l’espressione “affari non compresi”, quali interessi che non assurgevano a diritti e non erano meritevoli di tutela davanti al giudice ordinario. Questa situazione di forte precarietà, viene superata con l’approvazione della L. Crispi nel 1889, con la quale si inizia a parlare di interessi, devolvendo la loro tutela alla quarta sezione del Consiglio di Stato. Oggi, l’ordinamento giuridico, riconosce un sistema “dualistico” e un riparto di giurisdizione fondato sul criterio della “causa petendi”, laddove la competenza tra giudice ordinario e giudice amministrativo è suddivisa in relazione alle situazioni giuridiche da tutelare.
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2. L’azione di annullamento: vizi, termini e atti impugnabili.
Come ben noto, oggetto di competenza del giudice amministrativo è la tutela degli interessi legittimi, salvo quanto espresso all’articolo 103 Cost. e all’articolo 7 c.p.a.; difatti, sono devolute, anche, al giudice amministrativo le controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi nelle particolari materie indicate dalla legge, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo e riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti posti in essere da pubbliche amministrazioni. Diversamente dal passato, il codice amministrativo ha ampliato le tecniche di tutela dell’interesse legittimo, disciplinando al libro I del D.lgs. 104 del 2010, (in particolare nel Capo II del Titolo III) le c.d. “azioni di cognizione”, tra cui l’azione di annullamento prevista all’articolo 29 c.p.a. Essa, nella sua qualità di azione tipica e tradizionale del diritto amministrativo era, in passato, l’unica forma di tutela concessa al privato dalla L. Crispi del 1889. La ratio di tale previsione, derivava dal fatto che l’unica categoria di interesse tutelato era quella dell’interesse oppositivo che consentiva al suo titolare, di annullare un atto amministrativo illegittimo e mantenere inalterata la propria sfera giuridica. Le difficoltà iniziarono a sorgere, con l’avvento dei c.d. interessi legittimi pretensivi, che spinsero il legislatore alla previsione di ulteriori tipologie di azioni, tra le quali: l’azione di condanna, l’azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità, l’azione di mero accertamento. La disciplina dell’azione di annullamento è possibile ricavarla attraverso il combinato disposto degli artt. 29 e 41 del codice del processo amministrativo; infatti l’articolo 29 c.p.a prevede che “l’azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni”; mentre l’articolo 41 c.p.a. statuisce che “le domande si introducono con ricorso al tribunale amministrativo regionale competente”, ma anche che “qualora sia proposta azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso entro il termine previsto dalla legge, decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge.”. Si evince, dunque, che l’atto introduttivo del processo amministrativo assume, necessariamente, la forma di un ricorso, e nell’ipotesi in cui venga introdotta l’azione di annullamento, esso deve essere notificato sia alla P.A. che ha emesso l’atto impugnato sia ad almeno un controinteressato, quale soggetto avente un interesse uguale e contrario a quello del ricorrente. L’azione di annullamento deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza del provvedimento impugnato, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione. Tuttavia, soprattutto in riferimento al concetto di “piena conoscenza”, interviene la giurisprudenza, secondo la quale si realizza dal momento in cui il privato ha notizia della autorità emanante, della data, degli effetti e della motivazione del provvedimento, indipendentemente dalla conoscenza integrale dell’atto. Con riferimento al termine di decadenza, risulta essere fondamentale il suo rilevamento, in quanto è a partire da quel frangente che è possibile notificare il ricorso, proporre motivi aggiunti e rendere impossibile, per il giudice, di rilevare d’ufficio i vizi di legittimità dell’atto stesso. In conformità a quanto espressamente indicato dalla legge, è possibile proporre azione di annullamento, solo per l’accertamento di specifici vizi di legittimità, quali: violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza. Secondo quanto espresso dall’articolo 21 octies della L. n. 241/1990, il vizio di violazione di legge ricorre in tutti quei casi in cui sia violata una norma giuridica, indipendentemente dal fatto che sia contenuta nella legge in senso formale o altre fonti. In tale contesto, vi rientrano la violazione di norme statali, regionali, regolamenti, costituzionali, nonché la normativa europea. Diversamente, si intende per eccesso di potere, il c.d. “cattivo esercizio della funzione discrezionale” o “sviamento di potere”. Discrezionalità equivale ad apprezzamento, ponderazione di interessi e la P.A. non può agire in totale libertà nell’esercizio delle sue funzioni. Vige il principio di legalità, ma soprattutto un agire funzionalizzato al perseguimento dell’interesse pubblico. L’eccesso di potere nasce, dunque, da uno sviamento, da un uso scorretto del potere discrezionale, per il perseguimento di fini diversi da quelli previsti ex lege. La dottrina, a tale proposito, fa riferimento alle c.d. “figure sintomatiche dell’eccesso di potere”, tali da costituirne dei sintomi di illegittimità. Tra queste, si ritiene che, l’assenza della motivazione nell’atto giuridico o la sua lacunosità, celi una forma di illegittimità. Ultimo vizio, previsto all’articolo 29 c.p.a., è quello di incompetenza, presentandosi nella duplice forma di incompetenza relativa e assoluta. Difatti, mentre la prima consegue alla violazione di norme di azione e comporta la annullabilità dell’atto amministrativo, la seconda, riguarda la violazione di una norma di relazione attinente all’elemento soggettivo e comporta la conseguente nullità dell’atto. Dal punto di vista processuale, il vizio di incompetenza è di carattere assorbente.
3. L’interesse a ricorrere: la legittimazione processuale.
Le parti del processo amministrativo, si distinguono in necessarie ed eventuali. Quelle necessarie, non possono mai mancare, e si configurano nella sussistenza della figura del ricorrente e dell’amministrazione resistente. Nella specie, per ricorrere in giudizio, si presta necessaria la sussistenza non solo dell’interesse a ricorrere avverso atti impugnabili, ma anche la legittimazione a ricorrere. Il ricorrente è infatti il titolare del diritto di azione, che agisce a tutela di un interesse legittimo e, nei casi di giurisdizione esclusiva, di un diritto soggettivo. Egli possiede l’interesse a ricorrere, ovvero la possibilità di promuovere un giudizio davanti alla magistratura amministrativa per l’ottenimento di un vantaggio pratico, derivante dall’accoglimento del ricorso. Corrisponde, dunque, all’interesse ad agire di cui all’articolo 100 c.p.c., ma, al contempo, deve essere distinto dalla posizione giuridica sostanziale protetta: l’interesse legittimo. Difatti, l’interesse a ricorrere è un presupposto processuale e costituisce condizione dell’azione che deve esistere, necessariamente, al momento della decisione finale, a pena di inammissibilità del ricorso e conseguente pronuncia di rito. Nella specie, deve trattarsi di un interesse personale, diretto, attuale e concreto al fine di rendere possibile la impugnabilità di specifici atti amministrativi, mai di meri fatti. A tale proposito, la dottrina ha individuato alcune ipotesi di atti mancanti dei requisiti necessari per procedere alla loro impugnabilità, tra questi: gli atti preparatori di un successivo provvedimento finale, gli atti interni al procedimento, gli atti politici, gli atti amministrativi a contenuto normativo, gli atti meramente esecutivi.
4. Ritardo ed errore scusabile.
Strettamente connesso all’azione di annullamento è l’istituto dell’errore scusabile di cui all’articolo 37 c.p.a. Nella specie, presentandosi come una valvola di sicurezza, consente al giudice di rimettere in termini il ricorrente che non sia riuscito a presentare ricorso entro il termine di sessanta giorni, in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto. Tuttavia, al fine di evitare che il ricorrente possa raggirare il termine decadenziale previsto, è stabilito all’articolo 34, comma 2, c.p.a. che “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati. Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall’articolo 30, comma 3, il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento di cui all’articolo 29”. Sono solo due i casi nei quali il giudice può pronunciarsi esclusivamente sulla legittimità di un atto: quando è richiesto il risarcimento dei danni senza aver proposto l’azione di annullamento, nonché, nell’ipotesi in cui, l’annullamento dell’atto non sia più utile per il ricorrente, ma l’accertamento della sua illegittimità sia fondamentale ai fini risarcitori, nonostante abbia agito nel termine di legge e nel corso del giudizio sia venuto meno l’interesse all’annullamento dell’atto.
5. Esito finale
L’obiettivo finale del ricorrente è quello di ottenere l’annullamento dell’atto impugnato e, ai sensi dell’articolo 34 c.p.a., nell’ipotesi in cui il giudice accolga il ricorso, l’adozione di una sentenza con la quale venga annullato in tutto o in parte il provvedimento impugnato. Trattasi, dunque, di sentenza di merito e definitiva con la quale il giudice non solo affronta e risolve tutte le questioni dibattute in giudizio, ma realizza l’eliminazione definitiva degli effetti prodotti dall’atto, con efficacia ex tunc.
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