Il caso dell’omicidio di Carol Maltesi cui ha fatto di recente seguito la decisione della Corte d’Assise di Busto Arsizio di concedere l’accesso alla giustizia riparativa al suo assassino, ha generato accese polemiche non solo per il dissenso manifestato dalle vittime indirette del reato (familiari) ma, soprattutto per l’efferratezza nel commettere lo stesso. Di fatto, si tratta del primo caso dell’applicazione della giustizia riparativa in una fattispecie di omicidio e già si teme per l’alta possibilità di dare avvio ad un precedente rilevante. Non vi è dubbio, che non è semplice far coincidere aspetti legati alla morale e al sentimento di giustizia che potrebbe apparire minato da tale provvedimento, ai requisiti e alle finalità dell’istituto. Ma il focus della questione, ad avviso di chi scrive, consiste proprio nell’individuare la corretta ratio sottesa all’istituto della giustizia riparativa e scindere le sue finalità dalle ragioni individualistiche. Il presente contributo si pone l’obiettivo di indagare la logica della giustizia nell’accezione della riparazione al fine di comprendere quali sono le finalità di questo nuovo istituto.
Per approfondimenti si consiglia: La riforma Cartabia della giustizia penale
Indice
1. Deflazione del contenzioso, principio di offensività e riparazione del danno
Il nostro sistema penale può dirsi carcerocentrico dal momento che è improntato, strutturalmente, all’applicazione della pena detentiva. Dal tipo di pene di cui l’ordinamento penale dispone si può, ragionevolmente, tratteggiare la ratio e la funzione dello stesso. Nonostante la Costituzione all’art. 27 Cost. valorizzi la funzione rieducativa della pena, così come espresso in più occasioni dalla Corte Costituzionale (sent. n. 12/1966, n. 22/1971, n. 364/1988, n. 1085/1988, n. 322/2007), comunque la funzione repressiva continua a ricoprire un ruolo principale. Tale conclusione è dimostrata dal tipo di sanzioni previste come pene principali, detentive e pecuniarie in molti casi applicate cumulativamente, sia in relazione ai delitti che alle contravvenzioni.
Nel corso del tempo, soprattutto con l’emergere delle problematiche legate alla lungaggine dei processi, al sovraffolamento carcerario [1] e all’iperlegificazione, man mano sono stati introdotti istituti volti a deflazionare il contenzioso. Gli interventi più incisivi in questo senso sono le depenalizzazioni, su tutte l’introduzione della legge n. 689 del 1981 in materia di sanzioni amministrative, la legge 67 del 2014 (su tutti, depenalizzazione dell’ingiuria) e il d.lgs. n. 7/2016 (in materia di illecito civile) con l’obiettivo di ridurre le fattispecie bagattellari a rilievo penale contrastando, in tal modo, il problema dell’iperlegificazione e valorizzando il principio di offensività. Proprio il principio di offensività costituisce la ratio dell’introduzione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. (in accordo con il principio di tipicità e la fattispecie del reato impossibile). Con l’ultima riforma Cartabia si è intervenuti anche su tale fattispecie introducendo il parametro del comportamento successivo al reato come elemento da dover valutare per l’applicazione o meno dell’istituto. La causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto trae fondamento dall’esigenza di rispettare la polifunzionalità della pena valorizzando la funzione rieducativa che, sarebbe compromessa in assenza di una percezione della stessa come giusta da parte del reo (ragione special-preventiva) e dell’intera comunità (ragione social-preventiva), innescando un corto circuito del sistema. In altre parole, seguendo l’insegnamento dell’illuminista Beccaria, la pena per svolgere le sue funzioni deve essere percepita come giusta dal reo e dalla società perchè una pena percepita come ingiusta non ha alcuna possibilità di essere accettata e di conseguenza si rivela controproducente per il sistema ed essa stessa offensiva della libertà personale. Il principio di offensività in concreto, infatti, consente di ponderare la fattispecie generale e astratta sulla base dell’analisi del fatto concreto e di valutare la serietà dell’offesa, intesa come gravità minima che legittima l’intervento punitivo. In assenza di tali evidenze, per le ragioni poc’anzi espresse, non ha alcuna logica procedere con quest’ultimo.
La ratio sottesa alla causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto è fortemente condivisa da tutte le cause di non punibilità presenti nel nostro ordinamento. Infatti, è nella discrezionalità del legislatore intervenire sulla necessarietà di procedere con l’intervento punitivo limitando lo stesso al fine di preservare determinate esigenze socio-politiche ma, comunque rispettando i principi che regolano il sistema. Ne consegue che, a fronte del combinato disposto dal principio di necessarietà che postula l’intervento punitivo minimo e dal principio di offensività in concreto che funge da principio valvola per l’analisi e la valutazione della gravità del fatto in concreto, il legislatore non solo può ma, deve intervenire per mitigare la risposta sanzionatoria. Si pensi alle cause di non punibilità strettamente connesse al comportamento collaborativo del reo come, ad esempio, la fattisepcie dell’art. 323 ter c.p. applicabile ai reati di corruzione e induzione indebita, la quale prevede la non punibilità del reo se lo stesso pone in essere, in tempo utile, un ravvedimento della sua condotta (… prima di avere notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini in relazione a tali fatti e, comunque, entro quattro mesi dalla commissione del fatto, lo denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili).
Hanno natura ibrida invece, alcune cause di estinzione del reato, su tutte l’istituto della messa alla prova ex art. 168 bis c.p. e 464 bis c.p.p. Tale istituto, sebbene possa essere applicato delimitatamente (reati puniti con pena detentiva massima fino a 4 anni e delitti ex art. 550 c.p.p.), contribuisce a realizzare sia la deflazione del contenzioso tramite la sospensione del processo nell’attesa dell’espletamento del programma di risocializzazione, il cui esito positivo estingue il reato, sia il rispetto dell’offensività in concreto del fatto di reato specifico che si rinviene dallo stesso limite di applicazione ai reati contenuti in un certo massimo di pena (fattispecie di minore allarme sociale). Allo stesso tempo, la messa alla prova richiede un intervento positivo da parte del reo, il quale si trova a dover ponderare la propria adesione psicologica al fatto commesso attraverso l’accettazione del programma di risocializzazione che lo riguarda, funzionale alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, al risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Ne consegue che, diventa centrale il fattore della collaborazione intesa come espressione del percorso di risocializzazione del reo.
La desistenza volontaria e il ravvedimento operoso ex art. 56 c.p. condividono l’esigenza di valorizzazione dell’intervento positivo del soggetto che nel primo caso compie quanto necessario per non realizzare il reato attraverso una volontaria controspinta psicologica mentre l’azione è ancora in corso, nel secondo, il processo della controspinta avviene in un momento successivo, quando l’azione è stata compiuta ma non si è ancora verificato l’evento.
Dagli stessi presupposti e verso gli stessi fini opera l’istituto della riparazione del danno, come ad esempio la fattispecie ex art. 162 ter c.p.(estinzione del reato per condotte riparatorie) che, in alcuni casi comporta l’applicazione di una pena attenuata mentre in altri estingue il reato. Ecco, forse la riparazione del danno è l’istituto che più si avvicina alla giustizia riparativa, non solo perchè condividono il concetto di riparazione ma, perchè entrambi postulano un punto di contatto, almeno in astratto, tra il reo e la parte offesa quando questa coincide con la parte danneggiata. La grande differenza consiste proprio nella direzione della riparazione. Mentre con la riparazione del danno, per l’appunto, il reo si rivolge nei confronti della parte danneggiata attivandosi per cercare di attenuare le conseguenze pregiudizievoli derivanti dal fatto di reato, intese dal punto di vista quantitativo, con l’istituto della giustizia riparativa ad essere riparato non è solo il danno derivante dal reato ma, l’intera offesa arrecata. Ne consegue che la giustizia riparativa, sebbene continui ad essere calibrata sul reo, per la prima volta esalta la figura della persona offesa dal reato. Il discrimine, quindi, si rintraccia nel percorso psicologico-comportamentale che il reo pone in atto nei confronti del fatto di reato commesso, divenendo centrale il suo pentimento positivo.
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2. Giustizia riparativa: ratio e funzione
Non vi è dubbio, che la ratio sottesa all’istituto della giustizia riparativa è polifunzionale in quanto, la collaborazione tra autore del reato e vittima è solo uno dei modi in cui quest’ultima si può manifestare e solo uno dei fini che l’istituto intende perseguire.
Quando si parla di giustizia riparativa, non si può fare a meno di richiamare anche l’esigenza deflattiva del contenzioso e l’applicazione in concreto del principio di offensività in relazione al fine della rieducazione della pena. In merito al principio di offensività, sebbene l’accesso alla giustizia riparativa non sia vincolato alla fattispecie di reato, non essendo dunque limitato al grado dell’offesa, comunque quest’ultima costituisce elemento di valutazione mentre, l’esigenza deflattiva è maggiormente apprezzabile anche in considerazione della possibilità di poter accedere alla stessa in ogni stato e grado del procedimento.
L’esigenza di intervenire sulla struttura e sulla funzione del sistema penale-processuale (quindi sia sul piano sostanziale che procedurale) era avvertita, ormai, da tempo [2]. Sostanzialmente, alcuni dei già presenti istituti alternativi al processo ordinario mirano verso lo stesso fine: snellire il carico processuale in concordanza alla gravità del fatto commesso. Il già richiamato procedimento della messa alla prova costituisce il massimo esempio di un tentativo di orientare il sistema punitivo verso soluzioni diverse dall’inflizione della pena detentiva. Risulta coerente, dunque, affermare che la giustizia riparativa nasce come risposta alla crisi del sistema penale, soprattutto in relazione all’efficacia e all’efficienza del sistema penale sanzionatorio, fortemente limitate dalla tipologia della risposta punitiva, dalla disorganizzazione e dalle incongruenze strutturali.
Sicuramente l’elemento di novità della giustizia riparativa è la collaborazione tra l’autore del reato e la vittima. Con tale istituto, infatti, si attua un approccio che mai era stato tentato in precedenza (almeno dal punto di vista dell’espressa previsione per legge) e che punta sulla valorizzazione della vittima del reato, intesa in senso lato.
Una prima definizione dell’istituto la si rinviene nella Direttiva 2012/29 UE che all’art. 2.1.d definisce la giustizia riparativa come “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato”. Si assiste, sostanzialmente, al passaggio da un sistema fortemente reocentrico ad un sistema allargato orientato alla visione totalizzante dell’offesa, non più solo violazione di una norma penale (reato) ma, anche violazione dei diritti individuali delle vittime.
Ancora più recente è la Raccomandazione del Consiglio d’Europa 2018/8 che definisce la
giustizia riparativa come “qualsiasi procedimento che consente a chi è stato offeso dal reato e a chi
è responsabile di tale offesa, se vi acconsentono liberamente, di partecipare attivamente alla
risoluzione delle questioni sorte con il reato mediante l’aiuto di un terzo imparziale appositamente
formato…”. Ne consegue che, non solo vi sia un mutamento di orientamento verso la valorizzazione della vittima del reato ma, si assiste anche alla valorizzazione della figura del mediatore come soggetto imparziale che favorisce la collaborazione. Il punto centrale è che con l’accesso alla giustizia riparativa non vi è la possibilità di estinguere il reato o la pena (in relazione al momento in cui questo viene ottenuto) e dunque non si crea il problema del calcolo utilitaristico. Infatti, se il percorso culmina con esito riparativo (positivo) comunque il giudice procede nella valutazione dello stesso, potendo considerarlo come circostanza attenuante della pena ex art. 62 co I n.6 (…o l’avere partecipato a un programma di giustizia riparativa con la vittima del reato, concluso con un esito riparativo. Qualora l’esito riparativo comporti l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la circostanza è valutata solo quando gli impegni sono stati rispettati), ai fini della sospensione condizionale della pena ex art. 163 ult. co. o come rimessione tacita della querela, fase permettendo, ex art. 152 c.p. (… Vi è altresì remissione tacita: (…) quando il querelante ha partecipato a un programma di giustizia riparativa concluso con un esito riparativo; nondimeno, quando l’esito riparativo comporta l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la querela si intende rimessa solo quando gli impegni sono stati rispettati.).
3. Il caso Maltesi
Ciò che nel caso Maltesi ha destato maggiore perplessità e polemiche è non solo l’applicazione dell’istituto della giustizia riparativa ad una fattispecie di omicidio (di elevata gravità) ma, anche la decisione di ammettere il condannato al programma nonostante il dissenso manifestato dai familiari della vittima. Sul punto, non bisogna ragionare seguendo l’onda del sentimento sociale che porta, sicuramente, ad esprimere un giudizio negativo su tale scelta ma, bisogna semplicemente applicare la legge secondo la ratio sottesa all’istituto. Ebbene, l’art. 129 bis c.p.p. non subordina l’accesso alla giustizia riparativa al consenso necessario di tutte le parti interessate, il loro consenso, infatti, funge da elemento di valutazione, così come il dissenso della vittima a meno che non vengano rispettate le condizioni di cui al co. IV. Come si è già accennato, il fattore della collaborazione tra autore del reato e vittima dello stesso è solo una delle possibili manifestazioni che la giustizia riparativa può assumere poiché l’istituto non opera a fini individualistici. Infatti, quantunque si realizzi la su detta collaborazione, comunque la riparazione nei confronti della vittima è valutata in ottica pubblicistica. In altre parole, la collaborazione tra autore e vittima è funzionale a ricucire il conflitto tra il reo e la società di cui fa parte. Tanto è dimostrato, non solo dalla mancanza di una disposizione che esprima un divieto di accesso all’istituto in caso del mancato consenso delle parti o del dissenso sic et simpliciter della vittima ma, soprattutto dalla possibilità di accedere allo stesso in ogni stato e grado del procedimento previa valutazione del giudice. L’analisi, cioè, si conduce su tutto il caso concreto sottoposto all’attenzione del giudice e ciò che risulta centrale non è la collaborazione o il consenso della vittima o di tutte le parti, ma ogni elemento che lo contraddistingue. Inoltre, anche in risposta alle critiche emerse recentemente, non vi sono elementi per poter temere che tramite tale istituto possa generarsi una fuga dello Stato dalle sue funzioni, proprio in ragione degli argomenti sopra esposti. Il caso Maltesi, paradossalmente, conferma che l’istituto della giustizia riparativa prevede il coinvolgimento delle parti ma opera strutturalmente e funzionalmente in ottica pubblicistica, rifiutando ogni tipo di dipendenza dalla volontà delle stesse. Tanto è dimostrato dalla discrezionalità del giudice nel procedere alla valutazione sia in fase di accesso al programma che all’esito dello stesso.
4. Conclusione
Non vi è dubbio che non è facile accettare, nell’immaginario collettivo, che si possa concedere all’autore di un delitto particolarmente grave di poter ottenere dei benefici dall’accesso alla giustizia riparativa. Allo stesso modo, è ancora lontana la possibilità che vi possa essere un incontro positivo tra le parti nei casi di delitti a forte coinvolgimento emotivo di cui il caso Maltesi costituisce esempio. Invero, l’inefficienza del sistema penale sanzionatorio ci fornisce qualche indicazione a supporto di istituti alternativi alla pena detentiva o comunque all’apertura dello stesso verso forme di giustizia diverse. Se, infatti, la giustizia è il primo grande obiettivo che legittima la funzione penale, allora questa deve rappresentare il baricentro di ogni tipo di istituto concreto di cui l’ordinamento dispone. Mantenendo la giustizia al centro della valutazione, infatti, si scinde la pretesa punitiva individualistica dai fini legali che debbono essere perseguiti. La collaborazione tra reo e vittima sicuramente incentiva il sistema a valorizzare il ruolo di quest’ultima ma, la funzione punitiva non viene meno e ne tanto meno viene svolta in base alla stessa.
Con la giustizia riparativa non si attua un meccanismo elusivo della responsabilità penale e con essa della funzione punitiva ma, un modo ulteriore in cui quest’ultima si può manifestare. Al centro della funzione punitiva, infatti, vi è la risocializzazione del condannato. La stessa logica pervade la giustizia riparativa. Ne consegue che al centro della valutazione non vi è la gravità del reato commesso ma, la concreta possibilità di poter raggiungere il fine principale del sistema punitivo: la risocializzazione. La risocializzazione è quindi la ratio della giustizia riparativa e l’esito della valutazione effettuata dall’autorità procedente dipende, sostanzialmente, da questa.
Per tale ragione, non si può condividere l’opinione che vorrebbe limitare l’accesso al programma solo ai reati di minore gravità, anche perché nessuna utilità ne conseguirebbe a fronte degli istituti che già operano in questi termini. Forse è una questione di cultura, troppo acerba per accogliere il paradigma sottesso alla giustizia riparativa ma, ad avviso di chi scrive, basterebbe pensare legalmente e sistematicamente per destare ogni tipo di perplessità.
Note
- [1]
Il sovraffolamento carcerario in combinato al problema dell’inadeguatezza degli spazi delle carceri è una tematica al centro del dibattito pubblico, attenzionato in modo particolare dalla Corte Edu che in più occasioni ha condannato l’Italia per violazione della dignità. Si ricorda il caso Torreggiani come caso pilota. Corte EDU, Sez. II, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia.
- [2]
Si pensi all’introduzione della messa alla prova, dapprima nei procedimenti riguardanti i minori, d.p.r. 448/88, artt. 9, 27 e 28 e successivamente estesa a tutti, abbracciando la logica sottesa allo stesso in ottica generale.
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Antonio Di Tullio D’Elisiis | Maggioli Editore 2022
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