Premessa.
L’art. 111 della Costituzione, nel testo novellato dalla legge costituzionale del 23 novembre 1999 n. 2, dopo aver sancito che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”, stabilisce che “ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne stabilisce la ragionevole durata”.
Il diritto ad un giudizio equo ed imparziale era già implicito nel nucleo essenziale del diritto alla tutela giudiziaria di cui all’art. 24 della Costituzione, secondo l’interpretazione costantemente fornita dalla Corte Costituzionale, e, per certi versi, non costituisce una novità assoluta, essendo il principio già contenuto anche nell’art. 6, coma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo[1]. L’elemento di novità si coglie nel fatto che l’espressa formulazione del testo costituzionale impone ora, sia al legislatore che agli operatori del diritto, un confronto continuo tra le regole processuali e l’art. 111[2].
Il controllo della Corte Costituzionale sull’operato del legislatore diventerà ora più penetrante, fermo restando che, come più volte ribadito in alcune recenti pronunce, la legge può provvedere alla disciplina del giusto processo in modi diversi, purché ragionevolmente idonei[3].
Anche l’art. 421, comma 2, c.p.c., che consente al giudice di disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile, va ora interpretato alla luce del nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione.
I dubbi di legittimità costituzionale.
Ad una prima lettura i timori di parzialità del giudice e di violazione del principio del contraddittorio, paventati già prima della riforma costituzionale da una parte della dottrina, sembrerebbero ora acquisire maggiore consistenza, alimentando, quindi, i sospetti di illegittimità della norma in questione.
Il potere istruttorio officioso del giudice, in effetti, presta particolarmente il fianco al rischio di abusi e di non terzietà del giudice, in quanto si tratta di uno strumento processuale particolarmente incisivo e penetrante, che può sbilanciare pesantemente la controversia a vantaggio di una delle parti e a danno dell’altra, violando così il principio di un corretto contraddittorio. Il rischio di favoritismi sarebbe ancor più elevato ove si ritenesse tale potere insindacabile[4].
I poteri istruttori officiosi del giudice previsti dall’art. 421, 2° comma, c.p.c. potrebbero ora essere in contrasto, oltre che con i principi dell’oralità, concentrazione ed immediatezza cui è improntato il rito del lavoro, anche con il canone costituzionale della ragionevole durata del processo introdotto dalla riforma dell’art. 111. L’applicazione della norma in commento evidenziata dalla prassi, che consente di fatto alle parti di articolare prove in ogni momento del processo, eludendo così il regime delle preclusioni istruttorie, può contribuire a dilatare ulteriormente i tempi già patologici dei processi in materia di lavoro[5].
In dottrina è stato altresì sottolineato che l’espressione giusto processo regolato dalla legge impone che le forme, i tempi e le facoltà del processo debbano essere necessariamente stabiliti dalla legge, limitando quanto più possibile ad ipotesi eccezionali la previsione di poteri discrezionali del giudice e, in tal caso, individuandone esattamente presupposti e limiti per il loro esercizio. In sostanza la predeterminazione legale delle forme diventa garanzia di un giusto processo[6].
L’interpretazione costituzionale dell’art. 421, 2° comma, c.p.c..
Tuttavia, ad una riflessione più approfondita, appare possibile fornire una lettura costituzionale dell’art. 421, 2° comma. c.p.c.. Infatti un uso ragionato dei poteri istruttori officiosi del giudice può trasformare la disposizione in commento da norma in potenziale contrasto con l’art. 111 Cost. ad efficace strumento di bilanciamento tra i vari diritti costituzionali contrapposti coinvolti nel processo del lavoro.
Per quanto concerne il principio della parità delle parti nel processo, non c’è dubbio che esso vada inteso in senso non meramente formale bensì sostanziale, anche in applicazione dell’art. 3, comma 2, Cost.: qualora le parti in lite si trovino in una originaria ed oggettiva condizione di disparità – si pensi, ad esempio, alla causa tra assicurato ed ente previdenziale o tra lavoratore e grande azienda – il principio del giusto processo impone al legislatore ed al giudice di valorizzare tutti gli strumenti processuali idonei a ristabilire una situazione di equilibrio sostanziale e di effettiva parità tra le parti, favorendo la ricerca della verità materiale, anche a parziale discapito del principio dispositivo.
In tale ottica il potere istruttorio officioso del giudice può contribuire a superare le oggettive difficoltà probatorie che la parte più debole può incontrare nel far fronte all’onere della prova ex art. 2697 c.c. (si pensi, ad esempio, alle cause per mobbing in cui molto spesso, a causa del diffuso atteggiamento omertoso dei colleghi di lavoro, è particolarmente difficile per il ricorrente dimostrare i fatti posti a fondamento della propria domanda).
Il rispetto del principio costituzionale della terzietà del giudice impone che anche i poteri istruttori ex art. 421 c.p.c. vengano esercitati nei limiti della domanda e nell’ambito dei fatti allegati e dedotti dalle parti, e ciò sia con riferimento ai fatti principali che a quelli secondari, secondo il brocardo iudex secundum alligata et probata partium decidere debet[7].
Per gli stessi motivi il giudice non potrà far ricorso alla propria scienza privata ma potrà disporre l’acquisizione di quelle sole fonti materiali di prova che siano notorie o che siano emerse nel corso del processo nel contraddittorio delle parti. In altri termini il giudice non può trasformarsi in libero investigatore[8].
Il legittimo esercizio del potere officioso di cui all’art. 421 postula che il giudice, in ossequio al principio costituzionale del corretto contraddittorio e della parità delle parti, non possa disporre l’ammissione dei mezzi istruttori prima di aver sentito le parti costituite.
Inoltre, in caso di ammissione d’ufficio di una prova in favore di una parte, il giudice deve necessariamente riconoscere alla controparte il diritto di far valere la prova contraria, prescindendo da eventuali preclusioni e decadenze e dai limiti stabiliti dal codice civile. Alla controparte deve poi essere riconosciuto il diritto di prospettare possibili ragioni volte ad ottenere la revoca del provvedimento.
Sotto il profilo temporale, non bisogna dimenticare, poi, che giusto processo significa anche definizione della causa in tempi rapidi o, quanto meno, ragionevoli, secondo il principio chiovendiano per cui la durata del processo non può andare a danno della parte che ha ragione. Pertanto l’interesse costituzionale all’imparzialità del giudice e al corretto contraddittorio deve essere necessariamente contemperato con l’altro interesse, anch’esso ormai di rango costituzionale, alla speditezza del processo[9]. E proprio nella materia del lavoro tale connotato assume un’importanza particolare, stante la natura dei diritti coinvolti, spesso indisponibili e costituzionalmente protetti, suscettibili non solo di incidere sullo status di lavoratore ma di ripercuotersi pesantemente sulla posizione umana.
Il nuovo testo dell’art. 111 Cost. impone ora al legislatore e all’interprete di valorizzare, con opportune scelte normative ed esegetiche, quegli istituti diretti a consentire un effettivo contraddittorio tra le parti e, al contempo, una tutela giudiziaria efficace e tempestiva, sfrondando tutto ciò che allunga inutilmente i tempi della giustizia senza giovare ai diritti sostanziali delle parti.
Sotto quest’aspetto l’art. 421, 2° comma, c.p.c., se usato sapientemente, può costituire un efficace strumento anche per giungere ad una sollecita definizione del giudizio: si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui il giudice individui nel materiale processuale a sua disposizione un mezzo di prova avente carattere di decisività ai fini dell’immediata definizione della lite, senza necessità di assumere altre prove.
Conclusioni.
Non c’è dubbio che il legislatore, con la norma in commento, dimostrando grande fiducia nell’operato del giudice, abbia creato una zona grigia, dai contorni volutamente sfumati, in cui l’individuazione del componimento secondo giustizia degli interessi contrapposti è rimessa di volta in volta al prudente apprezzamento del singolo giudice.
Si tratta di uno strumento processuale particolarmente incisivo, flessibile ed adattabile alle varie situazioni istruttorie, pressoché impossibili da prevedere dettagliatamente a livello casistico.
E’ proprio per questo grande potere che gli è conferito, giustificato dalla delicatezza e dalla specificità degli interessi coinvolti in questo tipo di controversie, che il giudice del lavoro non solo deve essere particolarmente preparato sotto il profilo tecnico-giuridico, ma deve avere quel quid in più rispetto al civilista puro, fatto di sensibilità umana e giuridica, di buon senso, di equilibrio e di equità che gli permetta di volta in volta, caso per caso, di giungere ad una decisione che sia al contempo rapida, formalmente corretta e sostanzialmente giusta.
Per evitare che il potere del giudice sfoci nell’arbitrio incostituzionale è necessario e sufficiente il rispetto dei limiti sopra esposti.
Se oggi si sollevasse la questione di legittimità costituzionale dell’art. 421 c.p.c., comma 2, per contrasto con l’art. 111 Cost., probabilmente la vicenda sfocerebbe in una pronuncia interpretativa di rigetto da parte della Corte che, nel fare salva la norma, ne fisserebbe i limiti per una corretta applicazione.
Claudio Righetti
Note:
[1][1] L’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata con legge del 4 agosto 1955 n. 848, sotto la rubrica Diritto ad un processo equo, stabilisce che “ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente ed imparziale…”.
[2][2] Sull’argomento v. BOVE, Articolo 111 cost. e “giusto processo civile”, in Riv. dir. proc. 2002, 479; DE CRISTOFARO, Nuove prove in appello, poteri istruttori officiosi e principi del giusto processo, in Corr. giur., 2002, 116; PROTO PISANI, Giusto processo e valore della cognizione piena, in Riv. dir. civ., 2002, I, 265; Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it., 2000, V, 241; GAETA, Del giusto processo civile, in Questione giustizia, 2001, 917; LANFRANCHI, Giusto processo (civile), voce dell’Encicl. giur. Treccani, vol. XV, 2001; CAPPONI, Il giusto processo civile e la riforma dell’art. 111 Cost., in Giudice di Pace, 2000, 203.
[3][3] Corte Cost. 4 dicembre 2002, n. 519; Corte Cost. 24 aprile 2002, n. 137; Corte Cost. 21 marzo 2002, n. 78 in Giur. it., 2002, 2034, con nota di SOCCI, Bilanciamento delle garanzie, per un giudice terzo ed imparziale, con la ragionevole durata del processo e le esigenze dell’organizzazione giudiziaria (La ragionevole durata del processo quale incisivo parametro di costituzionalità delle norme processuali).
[4][4] CIMATTI, Luci e ombre di una contraddittoria norma processuale ex artt. 421 e 437 c.p.c., in Riv. giur. lav., 2001, II, 652; CECCHELLA, Limiti all’iniziativa istruttoria dl giudice del lavoro: le preclusioni all’attività difensiva delle parti e la regola dell’onere della prova, in Giust. Civ., 1985, I, 788; FABBRINI, Potere del giudice (diritto processuale civile), voce dell’Enciclopedia del diritto, XXXIV, 1985, 734; MONTESANO, Le prove officiose nel processo del lavoro coordinate all’oralità, alle preclusioni e alla paritaria difesa, in Mas. giur. lav. 1976, 440.
[5][5] NAPOLETANO, Processo del lavoro: suggestioni regressive e tendenze defunzionalizzanti, in Riv. it. lav., 1988, II, 300.
[6][6] Così PROTO PISANI, op.cit.; v. anche dello stesso autore Appunti sul valore della cognizione piena, in Foro it., 2002, V, 65.
[7][7] Sul punto dottrina e giurisprudenza sono unanimemente concordi: v.per tutti LUISO, Il processo del lavoro, Torino, 1992, 191. In giurisprudenza Cass. 3 giugno 1997, n. 4935; Cass. 11 gennaio 1988, n. 108; Cass. 1 settembre 1987, n. 7158; Cass. 17 aprile 1985, n. 2548.
[8][8] Cass. 8 agosto 2002, n. 1202: “Nel rito lavoro i poteri istruttori del giudice ex art. 421 c.p.c. – pur diretti alla ricerca della verità, in considerazione dei diritti controversi – non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, né tradursi in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale”
[9][9] OLIVIERI, La ragionevole durata del processo di cognizione (qualche considerazione sull’art. 111, 2° coma, Cost.), in Foro it., 2000, V, 251.
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