Gli enti locali nella programmazione sanitaria siciliana

Greco Massimo 07/02/08
L’esigenza di alcuni governi regionali di rispettare gli impegni assunti con lo Stato attraverso i cosiddetti “piani di rientro” ha riportato il dibattito nelle sedi del confronto istituzionale tra Regioni ed enti locali. Ciò anche a seguito delle ricadute che tali strumenti di programmazione stanno generando nei territori di riferimento in termini di affievolimento delle prestazioni sanitarie fino a ieri garantite. Nella Regione Siciliana, anch’essa sottoposta alle misure del “piano di rientro” pattuito con lo Stato, si registrano quotidiane forme di proteste che vedono opporre le comunità locali avverso ogni ipotesi di chiusura della guardie mediche, di razionalizzazione delle strutture ospedaliere esistenti e/o di ottimizzazione dei servizi sanitari. I Sindaci, quali rappresentanti diretti delle comunità, hanno promosso tutte le forme di protesta istituzionale di cui dispongono, preparandosi anche ad impugnare in via giurisdizionale gli strumenti di pianificazione e programmazione ventilati dalla Regione. Da qui, la necessità di riflettere sul ruolo degli enti locali nella programmazione sanitaria regionale, soprattutto dopo la riforma del titolo V° della Costituzione che in forza del costituzionalizzato principio di sussidiarietà, vede la necessità di porre le decisioni il più possibile vicino al luogo in cui nasce il bisogno e quindi al cittadino e alla comunità locale.
Vediamo di richiamare l’attuale quadro normativo al fine di comprendere se gli enti locali sono adeguatamente coinvolti nel processo decisionale della programmazione sanitaria oppure si limitano ad una “partecipazione influente”.
Come è noto, con il D.Lgs 30/12/1992, n. 502, sono state soppresse le Unità Sanitarie Locali e sono state istituite le Aziende Unità Sanitarie Locali, quali “enti strumentali della Regione, dotati di personalità giuridica pubblica (art. 3, come modificato dall’art. 4 del D.Lgs 07/12/1993 n. 517). L’intervento riformatore successivo del 1999 (Decreto Legislativo n. 229/99) ha affidato alle Regioni una posizione centrale, mediante l’attribuzione di significative competenze legislative e della titolarità del servizio pubblico sanitario. In altri termini lo Stato formula i principi fondamentali, ma non interviene sul come questi principi ed obiettivi saranno attuati, perché ciò diviene competenza esclusiva delle Regioni. Il ruolo dello Stato in materia di sanità si trasforma, quindi, da una funzione preminente di organizzazione e gestore di servizi a quella di garante dell’equità sul territorio nazionale. La programmazione, divenuta elemento nodale dell’intero sistema e legata al rispetto del principio del contenimento della spesa pubblica, è ripartita tra Piano sanitario nazionale (PSN) e il Piano sanitario regionale (PSR). Il PSN fissa gli obiettivi di salute e definisce i livelli essenziali ed uniformi di assistenza del SSN (c.d. LEA) e le risorse per essi destinate. Il PSR è il piano strategico degli interventi, che tiene conto innanzitutto delle esigenze della popolazione di riferimento. “Il sistema normativo derivante dalle leggi 549/95, 449/97 e dalla legge regionale 2/2002, ha imposto un modello di pianificazione della spesa sanitaria pubblica di tipo bifasico, nel senso che a monte trova spazio la preventiva adozione da parte della regione di un atto autoritativo di programmazione, con l’individuazione dei tetti massimi di spesa sostenibile, dei preventivi annuali di prestazione e degli indirizzi e delle modalità per la contrattazione, mentre a valle si colloca, appunto, la contrattazione dei piani annuali preventivi, affidata dall’art. 28, comma 6, della citata L.r. 2/2002 ai direttori generali delle AUSL, chiamati ad operare <<nei limiti dei budget predeterminati dalla Regione>> (CGA, parere n. 892 del 19/06/2007). Tale orientamento, così rappresentato dal legislatore, appare il solo che consente di garantire il raggiungimento dell’obiettivo di carattere primario e fondamentale del settore sanitario, che è la garanzia di quello che la sentenza n. 509 del 2000 della Corte Costituzionale chiama “nucleo irriducibile” del diritto alla salute, compatibile con le esigenze di rigore ed equilibrio finanziario.   
L’art. 55 comma 3 della legge 23/12/1978, n. 833 (istitutiva del servizio sanitario nazionale) stabilisce che le Giunte regionali, nel predisporre i piani sanitari regionali triennali (come momento e strumento di attuazione dei piani sanitari nazionali triennali) adottano “…la procedura prevista nei rispettivi statuti per quanto attiene alla consultazione degli enti locali e delle altre istituzioni e organizzazioni interessate”.
L’art. 3, comma 14 del D.lgs n. 502 del 1992, come sostituito dall’art. 4 del D.lgs 7/12/1993, n. 517, stabilisce forme di partecipazione differenziata degli enti locali minori alla programmazione sanitaria regionale, nelle sue articolazioni sub-regionali e locali (nei comuni coincidenti con l’ambito territoriale dell’unità sanitaria locale, ed al fine di “…corrispondere alle esigenze della popolazione”, è affidato al Sindaco di definire le linee d’indirizzo per l’impostazione programmatica dell’attività, esaminare il bilancio pluriennale di previsione e quello di esercizio, rimettere alla regione le relative osservazioni, verificare l’andamento dell’attività e contribuire alla definizione dei piani programmatici, trasmettendo le proprie valutazioni e proposte al diretto generale dell’U.S.L. e alla regione; tali attribuzioni in caso di U.S.L. sovraccomunali o infracomunali sono assegnate invece ad apposito organismo, la Conferenza dei sindaci e/o presidenti delle circoscrizioni di riferimento territoriale, tramite propria rappresentanza, e con modalità di esercizio demandate alla normativa regionale).
L’art. 1 comma 13 del D.lgs 30/12/1992, n. 502, come sostituito dall’art. 1 del D.lgs 19/06/1999, n. 229, nel definire il piano sanitario regionale come “..piano strategico degli interventi per gli obiettivi di salute e il funzionamento dei servizi per soddisfare le esigenze specifiche della popolazione regionale anche in riferimento agli obiettivi del Piano sanitario nazionale” ribadisce che le regioni “..adottano o adeguano i Piani sanitari regionali prevedendo forme di partecipazione delle autonomie locali, ai sensi dell’art. 2 comma 2-bis, nonché delle formazioni sociali private non aventi scopo di lucro, impegnate nel campo dell’assistenza sociale e sanitaria, delle organizzazioni sindacali degli operatori sanitarie pubblici e privati e delle strutture accreditate del Servizio sanitario nazionale”.
Il comma 2 bis dell’art. 2 del D.lgs n. 502 del 1992, come introdotto dall’art. 2 del D.lgs n. 229 del 1999, ha istituito un ulteriore organo collegiale, denominato Conferenza permanente per la programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale, composto fra gli altri dal Sindaco del comune in caso di A.U.S.L. di ambito interamente comunale, dal Presidente della Conferenza dei sindaci per le A.U.S.L. sovracomunali e dal Sindaco o dai Presidenti di circoscrizione per le A.U.S.L. infracomunali, oltre che da rappresentanti delle associazioni regionali delle autonomie locali, con funzioni di consulenza obbligatoria sul progetto di piano sanitario regionale e di partecipazione alla verifica degli strumenti di pianificazione sottostanti (piani attuativi locali); mentre il successivo comma 2 quinques, ha demandato alla normativa regionale di fissare i rapporti tra programmazione regionale e programmazione attuativa locale, ivi comprese “..le modalità della partecipazione degli enti locali interessati”. E’ questo lo strumento previsto dal legislatore per garantire il coinvolgimento degli enti locali nelle funzioni regionali di programmazione e valutazione. Con riferimento alle Aziende unità sanitarie locali, analoghe funzioni sono affidate alle Conferenze dei Sindaci.
Il Piano regionale 2000-2002, al punto 1.3, auspica l’applicazione dell’art. 2, comma 2 bis del D.lgs n. 229/99 che demanda alla legge regionale l’istituzione e la disciplina della Conferenza permanente per la programmazione sanitaria e socio-sanitaria, ma ad oggi, tale organo non risulta istituito dal legislatore regionale.
L’accordo attuativo del piano previsto dall’art. 1, comma 180, della legge 30/12/2004 n. 311, unitamente al piano di rientro, di riorganizzazione, di riqualificazione e di individuazione degli interventi per il perseguimento del riequilibrio economico del servizio sanitario regionale adottato dalla Giunta regionale con delibera n. 312 dell’1 agosto 2007, prevede l’istituzione, nell’ambito delle singole province, di un Coordinamento Tecnico Provinciale (CTP) cui affidare l’applicazione delle disposizioni programmatore regionali e di monitorare i relativi interventi. Fa parte di detto CTP una rappresentanza degli Enti Locali.
“Nel delineare il ruolo degli enti locali nella gestione della sanità la c.d. riforma ter si muove principalmente secondo due coordinate, l’una nel senso della continuità rispetto alla precedente riforma, l’altra nel segno dell’innovazione. La continuità è rappresentata dalla conferma della scelta contenuta nella riforma bis di escludere gli enti territoriali da compiti di gestione diretta del servizio e di erogazione delle prestazioni. Nel solco di questa continuità si sono inserite anche leggi regionali successive alla riforma del Titolo V°, con una sola significativa eccezione, rappresentata dalle c.d. “Società della Salute” previste in via sperimentale dal Piano sanitario regionale 2002-2004 della Toscana. Si tratta di particolari <<organismi consortili>> partecipati dai comuni e dalle aziende u.s.l., cui viene ricondotta la gestione dei servizi sociali, dei servizi sociosanitari e dei servizi sanitari territoriali, rimanendo invece in capo alla Regione la gestione del sistema ospedaliero. Indubbiamente le <<Società della Salute>> rappresentano l’elemento di maggiore novità nella più recente legislazione regionale sociale e sanitaria, sotto il duplice profilo del <<ritorno dell’ente locale a funzioni di gestione in campo sanitario>> e dell’integrazione sociosanitaria”(Davide Paris, “Il ruolo delle Regioni nell’organizzazione dei servizi sanitari e sociali a sei anni dalla riforma del Titolo V° : ripartizione delle competenze e attuazione della sussidiarietà, Amministrazione in Cammino, 2007).
 
 
La riforma del Tito V° della Costituzione
 
L’assetto odierno delle autonomie locali non è probabilmente quello definitivo. Troppo numerosi ed evidenti sono gli scompensi che la concreta applicazione della recente normativa ha determinato. “Tra i principi ispiratori, vi è certamente quello che attribuisce centralità al Comune e alla Provincia nell’organizzazione pubblica, al fine di favorire la realizzazione del principi di sussidiarietà verticale ed orizzontale. Tali enti, in virtù della loro maggiore vicinanza con i cittadini, infatti, sono in condizione di coglierne meglio i bisogni e le esigenze e di sollecitarne la partecipazione e l’intervento attivo in ambiti tradizionalmente pubblici (Diego Foderini, “Rinascita del federalismo territoriale, riforma dell’ordinamento delle autonomie locali e ridefinizione del ruolo del segretario comunale”, Giust.it, n. 11/2001).
La riforma costituzionale, conformemente all’impianto federalista che la ispira, conferisce agli Enti locali piena dignità rispetto allo Stato e alle Regioni, i quali non possono più vantare la precedente generale prevalenza su tutti gli altri soggetti pubblici, soprattutto nell’ambito dell’amministrazione attiva degli interessi pubblici. “In realtà, il principio di pari dignità costituzionale espresso dall’articolo 114 della Costituzione, non costituisce il necessario corollario della loro autonomia ma rappresenta una significativa novità del legislatore costituzionale del 2003. La pari dignità deriva dal carattere esponenziale degli enti territoriali i quali,  attraverso gli organi eletti dalle comunità di riferimento, hanno il potere-dovere di promuovere, interpretare e perseguire gli interessi delle popolazioni di appartenenza; da ciò discende l’autonomia statutaria che è riconosciuta a tutti gli enti territoriali che costituiscono la Repubblica (Paolo Jori, <<L’esercizio del potere sostitutivo dello Stato e delle regioni nell’ordinamento costituzionale vigente>>, Diritto.it, n. 1/2008).
“Pur avendo il sistema sanitario nazionale un’impronta regionalista, il processo non risulta ancora sufficiente essendo necessario che la stessa gestione della garanzia del diritto alla salute, con la relativa responsabilità, sia spostata dallo Stato alle regioni. Si guardi quindi ad un altro modello rispetto a quello a cascata del 1978 e precisamente ad un modello a rete che faccia leva sull’iniziativa locale. Un esempio del genere si può riscontrare nella legge 328 del 2000 nella quale si parla appunto di sistemi di servizi sanitari e non di servizio nazionale nell’ottica di realizzare, insieme, sussidiarietà orizzontale e verticale partendo dalla progettazione locale (G. Pastori, Convegno su “Lo Stato Sussidiario”, Lecce 19-20 ottobre 2001). Grande attenzione va posta, quindi, al ruolo dei Comuni che, “soprattutto in riferimento alla dimensione socio-sanitaria, sono protagonisti della concreta realizzazione dei Livelli Essenziali di Assistenza (Prof. Banchero, Convegno su <<Le autonomie locali nella riforma costituzionale e nei nuovi statuti regionali>>, Comune di Ferrara, 30/05/2002).
“La tutela della salute umana costituisce materia rientrante nell’ambito della legislazione concorrente – secondo la riforma del Titolo V° della Parte II° della Costituzione – con la conseguenza che alla legislazione sanitaria regionale è demandato un ruolo non meramente applicativo, ma “di completamento”, integrativo e di dettaglio, della legislazione nazionale: i <<principi fondamentali>> della materia della tutela della salute di cui al comma 3 dell’art. 117 cost. non costituiscono, in senso proprio, una disciplina generale compiuta (a differenza di quanto potrebbe accadere per l’istruzione, cui è dedicata la lettera n) del comma 2 dell’art. 117). Pertanto, in attuazione della riforma costituzionale del 2001, il sistema della tutela della salute andrà rivisitato, principalmente sotto il profilo della individuazione delle residue funzioni da conservare in capo allo Stato dopo la piena devoluzione di ulteriori compiti normativi e amministrativi a regioni e comuni e dopo la verifica dell’applicabilità del principio di sussidiarietà orizzontale e dei suoi limiti” (Consiglio St. Atti norm., 25/11/2002, n. 3013).
“Dovranno essere regolati i rapporti tra la Regione e gli enti locali, visto che la nuova amministrazione dovrà essere essenzialmente locale a meno che ci siano ragioni che rendano più congruo ed efficiente la collocazione di una funzione amministrativa ad un superiore livello territoriale di governo (Giovanni Pitruzzella, “La Consulta vigili sulle riforme”, Giornale di Sicilia, 22/06/2002). “Le politiche di welfare richiedono un’applicazione del principio di sussidiarietà più forte che in altri campi: ciò sia per la c.d. <<sussidiarietà verticale (con la necessità di una conseguente, considerevole devoluzione a regioni e Autonomie locali dei relativi compiti non solo operativi, ma anche normativi, strategici e di programmazione sul territorio) che per la c.d. <<sussidiarietà orizzontale>> di cui all’art. 118 ultimo comma cost., ferma restando l’autonomia del legislatore statale nell’individuazione di strumenti di vigilanza e di controllo, particolarmente rilevanti nella materia della tutela della salute” (Consiglio St. Atti norm., 25/11/2002, n. 3013).
 
Conclusioni
 
Dall’excursus normativo che precede, si evince dunque che le Amministrazioni comunali, o in via diretta (per le AA.UU.SS.LL. di ambito coincidente con quello del comune o di ambito infracomunale) o in via indiretta, per il tramite della Conferenza dei Sindaci (per le AA.UU.SS.LL. di ambito sovracomunale) o, ancora, in forza del principio di sussidiarietà verticale, sono portatori di interessi istituzionali qualificati di tipo partecipativo in ordine al processo di programmazione sanitaria regionale (Tar Puglia, sez. I°, sent. N. 5637 del 16/12/2002) e pertanto, legittimati anche ad agire in giudizio nei confronti di atti regionali che incidano direttamente sull’interesse delle comunità (Tar Bari, 26/04/1993 n. 39; Tar Veneto, 12/04/2000, n. 922; Tar Bari, sez. I°, 21/02/2001, n. 472; Tar Bari, sez. II°, 13/05/2002 n. 2287; Tar Veneto, sez. I°, sent. 3607/2004).
Tuttavia, il grado di coinvolgimento è ancora limitato ad una “partecipazione influente” la cui assenza può anche inficiare il sistema procedimentale, ma non il sistema di governance che rimane ben saldo nelle istituzioni regionali. L’accresciuta autorevolezza istituzionale degli enti locali, all’indomani della riforma del Titolo V° della Costituzione, rimane per molte Regioni e per la Regione Siciliana in particolare solo un principio di carattere programmatico. Nella programmazione sanitaria siciliana gli Enti locali vengono infatti trattati alla stregua delle associazioni degli utenti o del privato sociale, chiamati solo a titolo informativo e/o consultivo. La mancata istituzione della Conferenza Permanente per la programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale, nonostante l’intervento sostitutivo del Governo previsto dall’art. 2 octies del D.lgs n. 229 del 1999 in caso di inadempienza, che fa il paio con la mancata istituzione del Consiglio delle autonomie locali previsto dall’art. 123, quarto comma, della Costituzione, è sintomatica della considerazione che la Regione Siciliana ha degli enti locali e, di riflesso, delle comunità amministrate, anche in tempi di federalismo.
 
Enna 20/01/2008                                                                               Massimo Greco

Greco Massimo

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