La recentissima pronuncia a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n° 21854 depositata il 20 settembre 2017 (Presidente R. Rodorf – Estensore R. Frasca) conferma, ancora una volta, il carattere vincolante del provvedimento di sospensione dei termini del Pubblico Ministero, emesso ai sensi e per gli effetti dell’art. 20, comma 7 della Legge n. 44 del 1999.
Quella degli Ermellini è senz’altro una interpretazione che fa chiarezza e non presta il fianco ad esegesi alternative al contenuto lapalissiano dell’art. 20, comma 7 della L. 44/1999, per ciò che attiene il provvedimento di sospensione disposto dal Pubblico Ministero per fatti di usura ed al suo effetto vincolante per il Giudice dell’Esecuzione.
Certamente ci troviamo dinanzi ad un intervento nomofilattico in un settore in cui per molto tempo si è assistito ad un modus operandi sia da parte del Pubblico Ministero che del Giudice dell’Esecuzione che adattava agli interessi di parte il dettato normativo ed ha enunciato il seguente principio di diritto:
“Il giudice dell’esecuzione cui sia stato trasmesso il provvedimento del pubblico ministero che, sulla base dell’elenco fornito dal prefetto, dispone la “sospensione dei termini” di una procedura esecutiva a carico del soggetto che ha chiesto l’elargizione di cui alla legge n. 44 del 1999, non può sindacare né la valutazione con cui il pubblico ministero ha ritenuto sussistente il presupposto della provvidenza sospensiva, né l’idoneità della procedura esecutiva ad incidere sull’efficacia dell’elargizione richiesta dall’interessato.
Spetta invece al giudice dell’esecuzione sia il controllo della riconducibilità del provvedimento del pubblico ministero alla norma sopra citata, sia l’accertamento che esso riguarda uno o più processi esecutivi pendenti dinanzi al suo ufficio, sia la verifica che nel processo esecutivo in corso o da iniziare decorra un termine in ordine al quale il provvedimento di sospensione possa dispiegare i suoi effetti”.
Il motivo di contrasto è rappresentato dal carattere vincolante per il Giudice dell’Esecuzione del provvedimento di sospensione del Pubblico Ministero.
Gli Ermellini hanno ripercorso storicamente l’iter della norma in esame e sono ritornati sulla distinzione ontologica tra le due formulazioni, ante e post riforma della Legge n. 3 del 2012.
Infatti, prima, per la concessione della sospensione dei termini era necessario il parere vincolante del Prefetto, espressione del potere amministrativo, mentre attualmente la sospensione stessa viene disposta su provvedimento favorevole del Procuratore della Repubblica competente per le indagini sul reato di usura od estorsione.
Appare evidente che la differenza tra le due formulazioni non è di poco conto coinvolgendo uno dei principi cardini dell’ordinamento statuale, ossia quello della separazione dei poteri.
Nella versione ante riforma della norma, il Giudice dell’Esecuzione, nel proprio ambito di azione, doveva adeguarsi al parere vincolante di un Organo che non apparteneva al proprio ordine, in quanto evidentemente il potere amministrativo influiva su quello giudiziario.
Dopo la riforma del 2012, al contrario, è il provvedimento favorevole del Pubblico Ministero ad incidere sulle procedure esecutive in corso e, in questo caso, sia il Procuratore della Repubblica che il Giudice dell’Esecuzione, sono espressione dello stesso Potere dello Stato, ossia quello giudiziario.
Ma anche questa seconda riformulazione della norma, ha dato luogo ad un dibattito circa l’ingerenza di un altro soggetto nel processo decisionale del giudice dell’esecuzione.
Si deve sottolineare però come l’interferenza del P.M. non deve essere assolutamente considerata una compressione del potere del giudice dell’esecuzione.
Ed infatti, tanto non avverrebbe se si tenesse in debita considerazione la circostanza che sinora è stato completamente travisato il carattere temporaneo e non decisorio del provvedimento di sospensione adottato dal Pubblico Ministero ex art. 20, comma 7 della Legge n. 44/1999.
La Consulta è intervenuta con la sentenza n° 192 del 2014 in cui ha sottolineato il carattere non discrezionale del provvedimento del Pubblico Ministero che resta, in ogni caso, connesso alla presentazione dell’istanza di accesso al Fondo per le vittime di usura ed estorsione, e pertanto, prima ancora rispetto al momento in cui vengono disposte le necessarie ed indifferibili indagini preliminari sul caso specifico posto al suo vaglio.
La Corte di Cassazione ha sottolineato come l’intervento del P.M., in questo caso, non è espressione di un potere amministrativo. Anche se diretto a determinare una incidenza sul processo civile di cognizione o di esecuzione, non può essere considerato espressione di un potere del P.M. di ingerirsi ella tutela giurisdizionale civile ad instar di quanto prevedono gli artt. 70 e 71 c.p.c., cioè, per ciò che attiene specificamente alle sospensioni dei termini in materia esecutiva, come se esso gli fosse attribuito tramite la previsione della trasmissione del suo provvedimento favorevole al giudice, o ai giudici, dell’esecuzione, di cui parla l’art. 7-bis dell’art. 20 della L. n. 44/1999.
Il fatto che il P.M. venga sollecitato ad emettere un provvedimento in quanto “competente per le indagini in ordine ai delitti che hanno causato l’evento lesivo di cui all’art. 3, comma 1”, come recita il comma 7 di quella norma, ancorando l’attività provvedimentale a quella competenza implica necessariamente che esso sia espressione proprio di quella competenza e, dunque, non esservi dubbio che il P.M. agisca, nell’adozione del provvedimento, nello svolgimento delle sue funzioni inerenti alla giurisdizione penale.
Essendo tali funzioni relative alle indagini sui suddetti delitti, l’attività provvedimentale determinativa della sospensione dei termini incidenti sul processo esecutivo, pur non essendo espressione, coma ha detto il Giudice delle leggi, della riserva costituzionale dell’azione penale, si colloca sul piano delle funzioni proprie del P.M. nell’ambito del processo penale, inteso in senso lato, cioè con estensione anche alle attività di indagine preliminare dato che le provvidenze non esigono affatto che i delitti presupposti siano stati già accertati.
Da ciò discende che sembrerebbe del tutto contraddittorio ipotizzare che, quando il provvedimento del P.M. venga rimesso al Giudice dell’esecuzione, esso possa essere messo in discussione quanto alla valutazione della ricorrenza delle condizioni della spettanza del beneficio della sospensione, e tanto non deve stupire in quanto tale indiscutibilità discende dalla natura giurisdizionale del provvedimento stesso e dalla collocazione della sua adozione e, pertanto, del relativo potere al di fuori della giurisdizione esercitata dal giudice dell’esecuzione.
L’assenza di una previsione espressa di un potere di controllo del giudice dell’esecuzione deve essere intesa come espressione della volontà del legislatore che sull’esercizio del potere provvedimentale del P.M., poiché esso si colloca sul piano della giurisdizione penale, il giudice civile non possa avere alcuna possibilità di controllo.
La conclusione a cui giunge la Cassazione, condividendo l’esegesi della Consulta, è che quando al giudice dell’esecuzione viene trasmesso il provvedimento del P.M. che, sulla base dell’elenco fornito dal Prefetto, dispone la sospensione dei termini di una procedura esecutiva a carico del soggetto che ha chiesto l’elargizione di cui alla L. n. 44/1999, non può sindacare né la valutazione con cui il P.M. nell’ambito delle indagini di sua competenza ha ritenuto sussistente il verificarsi del presupposto della provvidenza sospensiva, né la valutazione conseguente dell’idoneità della procedura esecutiva ad incidere sull’efficacia dell’elargizione richiesta dall’interessato.
Certamente il giudice dell’esecuzione ha il potere di accertare se tale fattispecie si sia verificata, e, pertanto, gli compete di individuare se ciò che gli è pervenuto è prima di tutto riconducibile alla fattispecie di cui al comma 7 ed al comma 7-bis dell’art. 20 citato e se il provvedimento riguarda uno o più processi esecutivi pendenti dinanzi al suo ufficio.
Sarà compito del giudice dell’esecuzione anche quello di rilevare che l’assunto del P.M. è sbagliato nel caso in cui il processo esecutivo a carico del beneficiario è errato, o perché non esiste un processo esecutivo a carico dello stesso, perché esso è cessato, perché non vi è coinvolto come soggetto esecutato, ma ad esempio come creditore intervenuto o come debitor debitoris.
Naturalmente il provvedimento del giudice dell’esecuzione potrà essere assoggettato al mezzo di tutela ordinario contro i provvedimenti sul quomodo dell’esecuzione, ossia all’opposizione agli atti esecutivi ed il giudice dell’opposizione incontrerà nei suoi poteri gli stessi limiti di valutazione che ha il giudice dell’esecuzione e che si sono innanzi illustrati.
Alla luce delle su esposte considerazioni la Corte di Cassazione, pronunciando ai sensi dell’art. 363 c.p.c., sull’istanza del Procuratore Generale, ha enunciato il principio di diritto innanzi riportato.
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