Gossip da ufficio e pettegolezzi possono configurare il reato di diffamazione

Chi “chiacchiera troppo” offendendo l’onore e il decoro di altri rischia una denuncia per diffamazione e può incorrere nell’obbligo di risarcimento dei danni per violazione della privacy.

Il pettegolezzo, si sa, rappresenta lo sport preferito di quanti amano trascorrere il loro tempo libero diffondendo informazioni alle spalle di qualcuno.

Tuttavia, la notevole velocità di propagazione di un pettegolezzo è direttamente proporzionale all’ampiezza dell’impatto, spesso negativo, che esso produce nella sfera intima della “persona bersaglio”, il che ha fatto sorgere l’interrogativo circa la sua eventuale rilevanza sul piano legale.

In primis, ci si è chiesti se la divulgazione di una confidenza ricevuta da altri e, quindi, la violazione della segretezza della medesima, possa avere delle conseguenze sotto il profilo penale. Più in generale, ci si domanda se una maldicenza, divulgata all’insaputa del diretto interessato, integri il reato di diffamazione ai sensi dell’art 595 del codice penale.

La questione circa la configurabilità del reato di diffamazione dovuta a diffusione non autorizzata di notizie personali non è nuova nemmeno alla giurisprudenza che negli anni se ne è occupata a più riprese e in diverse occasioni. Secondo la più risalente giurisprudenza il semplice “desiderio di riservatezza” di una persona non costituisce di per sé un interesse tutelato, sicché, se non ci si preoccupa a priori di mantenere il serbo su una questione personale confidandosi con altri, poi non è possibile pretendere che su quelle informazioni sia mantenuta la segretezza.[1]

La Suprema Corte faceva qui riferimento al solo caso in cui la notizia diffusa fosse “innocua”, che non fosse in grado, cioè, di attentare all’onore o alla reputazione di altri. Se la notizia, vera o falsa che sia, non lede in alcun modo la sfera della dignità personale altrui, allora la sua diffusione non costituisce reato e non è possibile attivarsi giudizialmente per denunciare l’autore della divulgazione. In altre parole, il nostro ordinamento non ritiene penalmente perseguibile  la divulgazione di informazioni relative ad altri quando queste, ancorché false, non presentino contenuti offensivi o denigratori. Parimenti, non costituisce reato il parlare bene di una persona anche quando, nella realtà dei fatti, non sussistano i presupposti per farlo.

Viceversa, quando la notizia diffusa, sia pur essa vera, contenga insulti, o sia in qualche modo offensiva dell’onore e della reputazione altrui, è tutto un altro discorso: in simili situazioni l’autore del pettegolezzo malevolo è passibile di denuncia per diffamazione e potrebbe essere chiamato a risarcire i danni arrecati alla persona offesa.

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Il primo comma dell’art 595 c.p. prevede un ulteriore elemento per la configurabilità del reato di diffamazione: non basta che la diffusione delle informazioni offenda la reputazione di qualcuno ma occorre, altresì, che la persona in questione non abbia assistito al momento della divulgazione e risulti pertanto del tutto inconsapevole. Se, al contrario, la persona oggetto di dichiarazioni diffamatorie fosse stata presente all’atto della divulgazione, percependo direttamente l’offesa, sarebbe semmai ipotizzabile un reato di ingiuria.

Ai sensi del medesimo articolo, affinché il reato di diffamazione sia procedibile a querela di parte (aprendo alla possibilità di un’eventuale richiesta per risarcimento dei danni in sede civile), occorre che la notizia infamante sia stata comunicata ad almeno due persone, anche in momenti diversi. Non rileva, invece, il fatto che la comunicazione sia avvenuta nei confronti di una persona che a sua volta abbia riferito ad altri. Tantomeno costituisce reato comunicare delle informazioni senza rivelare a quale soggetto esse si riferiscano.

Ricorrendo i presupposti  indicati dal legislatore, la parte lesa può reagire mediante denuncia querela. La denuncia deve essere effettuata entro e non oltre i 3 mesi dalla conoscenza delle dichiarazioni diffamatorie. Unitamente alla querela, la parte dovrà anche produrre le prove a supporto dei fatti indicati.

Condanna per diffamazione

Il nostro legislatore penale ha previsto a carico del colpevole la reclusione fino a un anno ed una multa fino ad euro 1032; l’offesa è ritenuta più grave quando il colpevole attribuisce “un fatto determinato” alla vittima (come spesso avviene con il pettegolezzo): in questo caso il colpevole rischia due anni di reclusione e il pagamento di una multa fino ad euro 2065. Altra aggravante contemplata dal nostro legislatore discende dalla diffusione su larga scala dei contenuti dell’offesa (si pensi alla pubblicazione a mezzo stampa o sul web): in tale frangente gli anni di reclusione salgono addirittura a tre. Infine, la multa può arrivare fino ad euro 6000 quando, ad essere colpite da diffamazione, siano le autorità dello Stato, il corpo politico, amministrativo o giudiziario.

Diffusione di informazioni personali e violazione del diritto alla privacy

Pettegolezzi e maldicenze hanno rilevanza non solo in ambito penale (quando, come si è visto, si traducono in un reato di diffamazione) ma anche in sede civile, dal momento che la vittima di diffamazione può agire giudizialmente per ottenere il risarcimento dei danni contestati. Qualora, poi, le informazioni divulgate senza il consenso altrui fossero in tutto, o in parte, ricoperte dal diritto alla riservatezza, si ricadrebbe nella ulteriore ipotesi di violazione della privacy.

Tra i dati personali, quelli più a rischio di diffusione impropria sono soprattutto i dati sensibili, ossia quelle informazioni che rivelano le origini etniche di un individuo, oppure quelle inerenti le sue condizioni di salute, le opinioni politiche, le convinzioni religiose e filosofiche, l’appartenenza sindacale, gli orientamenti sessuali ed i dati genetici o biometrici intesi ad identificare in modo univoco una persona fisica [2]. Vale la pena ricordare che la giurisprudenza annovera tra i dati sensibili anche il numero di telefono cellulare la cui divulgazione, in assenza del consenso del titolare, configurerebbe una violazione della privacy. A nulla, poi,  rileverebbe il fatto che un numero identificativo (come può essere anche la targa di un veicolo) sia noto ed accessibile a tutti, perché, ciò che conta, è che quel numero sia  abbinato ad una certa persona. [3]

Sul punto della responsabilità civile per violazione della privacy dovuta a divulgazioni diffamanti,  è intervenuta anche la Sentenza n. 44940 del 2011. Con tale decisione la Corte di Cassazione si è pronunciata sul caso di uomo, cliente di una banca, che aveva diffuso la notizia diffamante circa una presunta relazione sessuale clandestina di una dipendente con un collega sposato. Il diffamatore, invaghito dell’impiegata, aveva preventivamente ingaggiato un investigatore per raccogliere informazioni sulla vita privata della stessa e quindi, mosso da sentimenti di rancore, ha poi deciso di divulgare quanto appurato proprio al fine di arrecare nocumento ai due amanti. La diffusione di tali informazioni ha comportato un danno alla reputazione sociale della vittima in quanto le maldicenze circolanti, per quanto contenessero la constatazione di un fatto vero, hanno comunque generato nei confronti della donna una riprovazione generale da parte dell’ambiente lavorativo, esponendola a giudizi morali e critiche mortificanti. Innanzitutto, la Suprema Corte, ha confermato le pronunce di condanna dei giudici di merito stabilendo che la condotta dell’imputato integrasse pienamente gli estremi di un reato di diffamazione ai sensi del 595 c.p (con l’aggravante di aver addebitato alla vittima il compimento di un fatto determinato); ma vi è di più: la Cassazione ha rilevato altresì una violazione sotto il profilo della tutela della privacy avendo l’imputato raccolto illegittimamente dei dati sensibili altrui (le informazioni circa la situazione sentimentale della donna) per poi acquisirli e diffonderli presso terzi.

In una recente pronuncia [4], la Cassazione puntualizza come il diritto alla riservatezza possa soccombere solo ed esclusivamente rispetto all’interesse pubblico alla diffusione di informazioni personali di un certo soggetto (nella fattispecie tale interesse superiore è identificato con il diritto di cronaca). Al di fuori di questa ipotesi la diffusione di notizie, vere o false che siano, la cui divulgazione risulti dannosa per la reputazione vittima, non è consentita dalla legge.

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Note

[1] Corte di Cassazione, sentenza n.4487 del 1956

[2] art 9 del Regolamento generale per la protezione dei dati personali (GDPR 2016/679)

[3] Cfr, a riguardo, Corte di Cassazione, sentenza n. 21839 del 2011, secondo la quale pubblicare il numero di cellulare altrui su internet costituirebbe una violazione della privacy in quanto il numero telefonico privato è ritenuto un dato sensibile.

[4] Corte di Cassazione, sentenza n. 13151 del 2017.

Isabella Mascioni

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