Gratuito patrocinio: ammissione in deroga per alcuni reati

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In tema di ammissione al patrocino a spese dello Stato, ai sensi dell’art. 76, co. 4-ter, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, la persona offesa da uno dei reati ivi elencati può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dallo stesso articolo.

(Riferimento normativo: d.P.R., 30 maggio, 2002, n. 115, art. 76, co. 4-ter)

Indice

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
  4. Conclusioni

1. Il fatto

La Corte di Appello di Catanzaro rigettava il ricorso proposto da una parte civile costituita per il reato ex art. 612bis, co. 1, 2 e 3 cod. pen. nell’ambito del procedimento penale pendente innanzi alla Corte di Appello di Catanzaro, avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato emesso dai medesimi giudici di seconde cure.

2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato era proposto ricorso per Cassazione, deducendosi, quale unico motivo, violazione e falsa applicazione degli artt. 75, 76, 79 e 112 del D.P.R. 115/2002, nonchè illogicità della motivazione del provvedimento impugnato.

In particolare, il ricorrente affermava come, il giudice di primo grado, prima, e la Corte territoriale, in sede di opposizione ex art. 99 DPR 115/02, poi, avessero entrambi fatto una illegittima ed illogica applicazione della normativa laddove, muovendo da una falsa applicazione delle norme di riferimento, la Corte calabrese aveva ritenuto necessario produrre l’attestazione ISEE rilasciata dall’INPS e comprovante la situazione reddituale dell’istante, nonché una autocertificazione da cui risultasse l’iscrizione dell’avvocato  nel registro del gratuito patrocinio, oltre che i documenti di riconoscimento, con indicazione del codice fiscale dei componenti il nucleo familiare. 

3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso proposto era accolto e l’ordinanza impugnata annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Catanzaro per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito prima di tutto come apparisse essere errato il richiamo che la Corte territoriale aveva fatto all’art. 170 del D.P.R. 115/02, norma afferente al decreto di pagamento emesso a favore dell’ausiliario del magistrato, del custode e delle imprese private cui è affidato l’incarico di demolizione e riduzione in pristino posto che, nel caso in esame, alla Corte di Appello era stato presentato ricorso avverso il provvedimento con cui il magistrato competente aveva rigettato l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che trova la propria fonte normativa nell’art. 99, co. 1, del medesimo D.P.R. 115/02.

Premesso ciò, gli Ermellini ritenevano come fosse fondata la lamentata violazione di legge non apparendo corretta l’interpretazione dell’art. 76 co. 4 del D.P.R. 115/02 operata tanto dal giudice del rigetto, che da quello dell’opposizione.

Difatti, dopo essersi fatto presente che già da alcuni anni la Suprema Corte ha affermato il diritto della persona offesa da uno dei reati indicati nella norma a fruire del patrocinio a spese dello Stato per il solo fatto di rivestire tale qualifica, a prescindere dalle proprie condizioni di reddito, che, dunque, non devono neanche essere oggetto di dichiarazione o attestazione ai sensi del successivo art. 79, co. 1, lettera c), del D.P.R. n. 115 del 2002 (così Sez. 4, n. 13497 del 15/02/2017; conf. Sez. 4, n. 52822 del 10/10/2018), rilevandosi al contempo come tale lettura sia imposta dalla ratio della norma posto che la finalità della stessa appare essere quella di assicurare alle vittime di quei reati un accesso alla giustizia favorito dalla gratuità dell’assistenza legale, i giudici di piazza Cavour evidenziavano altresì che, a fugare ogni possibile dubbio interpretativo, era intervenuta poi la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2021 (udienza del 3/12/2020, deposito dell’11/1/2021), dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, co. 4-ter, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nella parte in cui determina l’automatica ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dai reati indicati nella norma medesima, sollevata, in riferimento agli artt.

3 e 24, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza del 13 dicembre 2019.

Orbene, si faceva presente che, in quella occasione, il giudice rimettente – il quale aveva fondato il proprio interesse a rivolgersi alla Consulta proprio nella non condivisione dell’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, assurto al rango di diritto vivente – aveva denunciato il contrasto della disposizione censurata con l’art. 3 della Costituzione in quanto essa, a suo avviso, istituisce un automatismo legislativo di ammissione al beneficio al solo verificarsi del presupposto di assumere la veste di persona offesa di uno dei reati indicati dalla medesima norma, con esclusione di qualsiasi spazio di apprezzamento e discrezionalità valutativa del giudice, disciplinando in modo identico situazioni del tutto eterogenee sotto il profilo economico; nonché con l’art. 24, co. 3, Cost. in quanto l’ammissione indiscriminata e automatica al beneficio di qualsiasi persona offesa da uno dei reati indicati porta a includere anche soggetti di eccezionali capacità economiche, a discapito della necessaria salvaguardia dell’equilibrio dei conti pubblici e di contenimento della spesa in tema di giustizia, deducendosi contestualmente come i giudici delle leggi abbiano ritenuto manifestamente infondate tali doglianze, in primis, ricordando come la giurisprudenza costituzionale abbia, in più occasioni, ricondotto l’istituto del patrocinio a spese dello Stato nell’alveo della disciplina processuale (sentenza n. 81 del 2017; ordinanze n. 122 del 2016 e n. 270 del 2012), nella cui conformazione il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate (ex plurimis, sentenza n. 97 del 2019, sentenza n. 80 del 2020, in linea con la sentenza n. 47 del 2020 e ordinanza n. 3 del 2020) dato che la scelta effettuata con la disposizione in esame – che va, appunto, ricondotta nell’alveo della disciplina processuale – rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la vulnerabilità delle vittime dei reati indicati dalla norma medesima oltre che le esigenze di garantire al massimo il venire alla luce di tali reati, per poi ricordare che, nel nostro ordinamento giuridico, specialmente negli ultimi anni, è stato dato grande spazio a provvedimenti e misure tese a garantire una risposta più efficace verso i reati contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale, considerati di crescente allarme sociale, anche alla luce della maggiore sensibilità culturale e giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori e da qui la volontà di approntare un sistema più efficace per sostenere le vittime, agevolandone il coinvolgimento nell’emersione e nell’accertamento delle condotte penalmente rilevanti visto che, nel preambolo del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, nella legge n. 38 del 2009, che ha introdotto la disposizione in esame, si richiama “la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare una maggiore tutela della sicurezza della collettività, a fronte dell’allarmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale, attraverso un sistema di norme finalizzate al contrasto di tali fenomeni e ad una più concreta tutela delle vittime dei suddetti reati”.


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A fronte di ciò, veniva oltre tutto rammentato che diverse – si legge ancora nella sentenza 1/2021 della Corte costituzionale – sono tra l’altro le considerazioni sviluppate nel preambolo del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella legge n. 119 del 2013.

Orbene, per il Supremo Consesso, è evidente che la ratio della disciplina in esame è rinvenibile in una precisa scelta di indirizzo politico-criminale che ha l’obiettivo di offrire un concreto sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità., trattandosi di una valutazione che appare, per la stessa Cassazione, del tutto ragionevole e frutto di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità da parte del legislatore tenuto conto altresì del fatto che, a queste argomentazioni sulla non irragionevolezza della scelta del legislatore di accordare il beneficio del patrocinio a spese dello Stato sganciandolo dal presupposto della non abbienza, va aggiunta per i giudici delle leggi la considerazione che nel nostro ordinamento sono presenti altre ipotesi in cui il legislatore ha previsto l’ammissione a tale beneficio a prescindere dalla situazione di non abbienza, ricordandosi, ad esempio, il precedente costituzionale con cui sì è affermato che la scelta di porre a carico dell’erario l’onorario e le spese spettanti all’avvocato e all’ausiliario del magistrato rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la peculiarità del procedimento di espulsione dello straniero e la necessità di non frapporre alcun ostacolo al perseguimento di questo fine (così l’ordinanza n. 439 del 2004) e, di conseguenza, sempre ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, valutazioni di analogo tenore possono svolgersi per la disciplina di cui al censurato comma 4-ter.

Ciò posto, era per di più rilevato che la Corte costituzionale, peraltro, aveva anche confutato il profilo di censura calibrato sull’automatismo del patrocinio a spese dello Stato quale presunzione assoluta laddove il giudice a quo aveva segnalato che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la presunzione legislativa è immune da censure di legittimità costituzionale e resiste al vaglio di ragionevolezza solo quando vi sia “solida rispondenza all’id quod plerumque accidit” (così tra le altre, sia pure relative a ipotesi decisamente distanti da quelle in esame, sentenza n. 191 del 2020) e che “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”  (sentenza n. 268 del 2016; in precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e n. 139 del 1982).; in particolare, l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglierebbe tutte le volte cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 253 del 2019).

Ebbene, in relazione a quanto sin qui esposto, per i giudici delle leggi, tuttavia, il rimettente non coglieva nel segno richiamando questa giurisprudenza posto che in quel caso il beneficio non era legato ad una presunzione di non abbienza delle persone offese dai reati indicati dalla norma censurata e ha tutt’altre giustificazioni mentre, invece, la verifica della regola dell’id quod plerumque accidit avrebbe dovuto, piuttosto, concernere la vulnerabilità delle persone offese dai reati presi in considerazione dal censurato comma 4-ter, in ordine alla cui sussistenza convergono significativi dati di esperienza e innumerevoli studi vittimologici.

Detto questo, per quel che concerne, infine, la prospettata violazione dell’art. 24, co. 3 Cost., gli Ermellini prendevano atto di come i giudici delle leggi si fossero limitati ad evidenziare che il parametro evocato impone di assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.

Esso non può, dunque, essere distorto nella sua portata, leggendovi una preclusione per il legislatore di prevedere strumenti per assicurare l’accesso alla giustizia, pur in difetto della situazione di non abbienza, a presidio di altri valori costituzionalmente rilevanti, come quelli in esame.

Il Supremo Consesso, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, ribadiva il principio di diritto, anche alla luce del dictum del giudice delle leggi, cui avrebbe dovuto adeguarsi il giudice del rinvio, che, in tema di ammissione al patrocino a spese dello Stato, ai sensi dell’art. 76, co. 4-ter, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, la persona offesa da uno dei reati ivi elencati può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dallo stesso articolo. Tal che se ne faceva conseguire che la relativa istanza necessita esclusivamente dei requisiti di cui alle lettere a) e b) del comma primo dell’art. 79 del decreto e non anche dell’allegazione da parte dell’interessato, prevista dalla lettera c) del medesimo articolo, di una dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l’ammissione.

Oltre a ciò, i giudici di piazza Cavour evidenziavano altresì che, nei casi di cui all’art. 76 co. 4-ter d.P.R. 115/02, a loro avviso, sarebbe ultroneo richiedere qualsivoglia attestazione reddituale e, quindi, alla luce di questo, costoro reputavano come il provvedimento di rigetto reso dalla Corte di Appello di Catanzaro fosse affetto in ulteriori errori e, segnatamente, uno consisteva nel fatto che, stante quanto previsto dall’art. art. 79 co. 1 lett. a) del D.P.R. 115/02, il richiedente l’ammissione al patrocinio dello Stato è tenuto ad indicare le generalità ed il codice fiscali dei componenti la propria famiglia anagrafica, ma non vi è alcuna norma che gli imponga -come richiestogli nel provvedimento richiamato- la produzione di copia dei documenti di riconoscimento degli stessi, così come non vi è una  norma che gli imponga “l’autocertificazione che l’avvocato risulta iscritto nel registro del gratuito patrocinio”, essendo tale elenco pubblico e la circostanza agevolmente verificabile dal giudice.

L’altro errore era dipeso dal fatto che, anche qualora non si vertesse in una delle ipotesi disciplinate dall’art. 76 cc. 4 ter del D.P.R. 115/02, a nulla servirebbe la richiesta produzione dell’attestazione ISEE laddove la Corte di legittimità, ancora di recente, ha precisato che, ai fini della determinazione del limite di reddito per l’ammissione al beneficio, deve tenersi conto anche dei redditi esenti o soggetti a tassazione separata, ovvero percepiti “in nero” o derivanti da attività illecite, senza che assuma rilievo la situazione reddituale calcolata secondo il metodo ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente). (così Sez. 4, n. 46159 del 24/11/2021, che ha ritenuto configurabile il reato di cui all’art. 95 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 nel caso di omessa indicazione, ai fini della ammissione al gratuito patrocinio, di redditi non rilevanti per l’ISEE o di imputazione di detrazioni o deduzioni da questo consentite).

4. Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi postulato che, in tema di ammissione al patrocino a spese dello Stato, ai sensi dell’art. 76, co. 4-ter, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, la persona offesa da uno dei reati ivi elencati può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dallo stesso articolo e, pertanto, la relativa istanza necessita esclusivamente dei requisiti di cui alle lettere a) e b) del comma primo dell’art. 79 del decreto e non anche dell’allegazione da parte dell’interessato, prevista dalla lettera c) del medesimo articolo, di una dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l’ammissione fermo restando che non vi è una norma che gli imponga “l’autocertificazione che l’avvocato risulta iscritto nel registro del gratuito patrocinio”, essendo tale elenco pubblico e, quindi, non si rende necessario produrre una autocertificazione di questo genere.

Tale provvedimento, di conseguenza, può essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba chiedere l’ammissione al patrocino a spese dello Stato ai sensi dell’art. 76, co. 4-ter, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché prova a fare chiarezza su siffatta tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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