Premessa
Come noto ai più, nel quadro delle modifiche apportate dal decreto legge 23 maggio 2008 n.92 in tema di “Misure urgenti in materia di pubblica sicurezza”, convertito in legge n.125 del 2008, si è provveduto ad aggiungere nel corpo dell’art.76 del D.P.R. n.115 del 2002 (Testo Unico in materia di spese di giustizia) un nuovo comma 4-bis, secondo cui: “Per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt.416-bis del codice penale, 291 quater del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n.43, 73, limitatamente alle ipotesi aggravante ai sensi dell’articolo 80, 74, comma 1 del Testo Unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n.309, nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, ai soli fini del presente decreto, il reddito [per l’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato] si ritiene superiore ai limiti previsti”.
Si tratta, in buona sostanza, di una forte limitazione all’accessibilità all’istituto del gratuito patrocinio per coloro che siano stati condannati con sentenza definitiva per i reati di associazione a delinquere di tipo mafioso, anche se straniere; associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri; produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope in forma aggravata; associazione finalizzata al traffico illecito delle predette sostanze.
La modifica normativa, di fatto, avrebbe introdotto una apposita presunzione normativa di superamento dei limiti di reddito per tali soggetti, in quanto indegni, per “tipologia di autore”, di poter usufruire del beneficio del gratuito patrocinio, essendo ritenuti i reati per i quali è intervenuta condanna particolarmente riprovevoli e capaci di poter assicurare al loro autore, anche se solo presuntivamente, elevate fonti di reddito di natura illecita.
Del resto la giurisprudenza in passato si era già espressa in tal senso, escludendo in maniera sempre più frequente dal godimento del beneficio tutti coloro che versassero in tali condizioni.
Si è così voluta introdurre una vera e propria presunzione iuris et de iure di insussistenza delle condizioni reddituali a carico di chi sia già stato condannato con sentenza irrevocabile per i predetti reati.
All’indomani dall’entrata in vigore di tale nuovo intervento legislativo, non sono tuttavia mancate forti critiche dalla dottrina penalistica, giudicandolo frutto di un agire estemporaneo, emotivo, demagogico e, vieppiù, capace di sollevare seri dubbi di legittimità costituzionale in ordine al diritto di difesa di cui all’art.24 Cost.1
L’introduzione di un vero e proprio catalogo di reati “ostativi” all’ammissione del patrocinio a spese dello Stato, aveva suscitato in dottrina2 ovvie perplessità di ordine costituzionale, essendosi limitato il legislatore ad immettere nel circuito del gratuito patrocinio una presunzione di carattere assoluto, senza previsione degli essenziali temperamenti per renderla conciliabile con il quadro costituzionale, in un ottica costituzionalmente orientata.
La sentenza della Corte Costituzionale n.139 del 14 aprile 2010
I Tribunali in composizione monocratica di Lecce – sez.distaccata di Campi Salentina (con ordinanza del 26 marzo 2009) e di Catania (ordinanza del 17 luglio 2009), hanno assunto il ruolo di “apripista” sul punto dolente della nuova normativa, così come già segnalato in dottrina, sollevando questioni di legittimità costituzionale dell’art.76, comma 4-bis del D.P.R. n.115 del 2002 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui – avuto riguardo ai soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati ivi elencati – esclude la possibilità di accertare, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’indisponibilità di un reddito superiore ai limiti indicati nell’articolo 76, comma 1 dello stesso d.P.R. n.115 del 2002.3
Con l’estensione della decisione in commento, i giudici della Corte Costituzionale hanno ritenuto fondate entrambe le questioni e stabilito che deve ritenersi “costituzionalmente illegittimo, per violazione degli articoli 3 e 24, commi 2 e 3 Cost., l’articolo 76, comma 4-bis del d.P.R. 30 maggio 2002, n.115, nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, non ammette la prova contraria”.
Le argomentazioni della Corte sottolineano in particolare come la norma censurata contenga una presunzione di possesso di un reddito superiore a quello minimo previsto dalla legge che, se ritenuta assoluta, non ammette la prova del contrario e rende pertanto inutili ed irrilevanti eventuali indagini del giudice, volte ad accertare le effettive condizioni economiche dell’imputato.
Secondo la Corte invero, che si tratti di una presunzione iuris et de iure affiora già con certezza dalla semplice lettura del dato testuale della disposizione in oggetto: si indica con l’uso perentorio del presente indicativo la conclusione cui deve pervenire il giudice, in base al semplice accertamento che l’imputato sia stato condannato con sentenza definitiva per uno dei reati elencati nella norma stessa.
Secondo la Corte peraltro, le presunzioni assolute come quella in esame, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit (sentenze n.139 del 1982, n.333 del 1995 e n.225 del 2008). In particolare, si è rilevato che l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n.41 del 1999).
La presunzione in esame, estesa a tutti i reati e senza limite di tempo, impedisce che si possa tenere conto di un eventuale percorso di emancipazione dai vincoli dell’organizzazione criminale, perfino nell’ipotesi in cui il soggetto sia imputato di un reato, anche colposo, che nulla abbia a che fare con la criminalità organizzata. E’infatti agevole ipotizzare la situazione di disagio personale, economico e sociale di chi, partecipe di una associazione di stampo mafioso, tenti il reinserimento nella società, incontri difficoltà a trovare lavoro e sconti, in vari campi della vita di relazione, la sua pregressa appartenenza e si trovi coinvolto in procedimenti penali, nei quali non possa esercitare una difesa adeguata – proprio per dimostrare la sua estraneità al crimine – a causa di una reale condizione di indigenza, il cui accertamento resta tuttavia precluso al giudice dalla norma censurata.
Non potrà di certo ritenersi irragionevole che, sulla base della comune esperienza, il legislatore presuma che l’appartenente ad una organizzazione criminale come quelle indicate nella norma censurata, abbia tratto dalla sua attività delittuosa profitti sufficienti ad escluderlo in permanenza del beneficio del patrocinio a spese dello Stato. Ciò che contrasta con i principi costituzionali è tuttavia il carattere assoluto di tale presunzione, che determina una esclusione irrimediabile, in violazione degli articoli 3 e 24 commi 2 e 3 Cost., imprimendo sui soggetti in essa indicati uno stigma permanente e incancellabile, tale da comprimerne il diritto fondamentale di difesa.
Deve quindi ritenersi che la norma censurata sia costituzionalmente illegittima nella parte in cui non ammette la prova contraria.
Secondo il ragionamento definitivo della Corte, l’introduzione, costituzionalmente obbligata, della prova contraria, non elimina dall’ordinamento la presunzione prevista dal legislatore, ma essa implica un’inversione dell’onere di documentare la ricorrenza dei presupposti reddituali per l’accesso al patrocinio, sicché, da un lato, spetterà al richiedente dimostrare, con allegazioni adeguate, il suo stato di non abbienza e, dall’altro, il giudice dovrà verificare l’attendibilità di tali allegazioni, avvalendosi di ogni necessario strumento di indagine.
Persistenti dubbi applicativi
Le criticità e i dubbi metodologici evidenziati dai giudici della Corte con la sentenza n.139 del 2010 in commento, appaiono tuttavia in piena evidenza ancora oggi, nonostante il parziale intervento riformatore del comma 4-bis dell’art.76 d.P.R. n.115 del 2002.
Risulta facile comprendere come la spinta all’intervento di riforma del legislatore sia stata quella di evitare che soggetti in possesso di ingenti ricchezze, acquisite con le attività delittuose indicate dal comma 4-bis in parola, possano paradossalmente fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato per dettato costituzionale (art.24, comma 3) ai “non abbienti”.
Tale eventualità peraltro, è resa ancora più concreta dall’estrema difficoltà di accertare in modo oggettivo il reddito proveniente dalle attività delittuose della criminalità organizzata e di conseguenza, non essendo stabiliti dal legislatore ulteriori condizioni e metodi – al di fuori del mero dato testuale, integrato dalla decisione della Corte Cost. in commento – per svolgere accertamenti sul reddito del richiedente, risulta tuttora malagevole la concreta individuazione delle allegazioni adeguate che il richiedente dovrà produrre per dimostrare -ai fini della prova contraria – il suo stato di non abbienza, nonché dei necessari strumenti di indagine che il giudice dovrà utilizzare per verificare l’attendibilità di tali allegazioni, al di fuori di quelli già previsti dal testo unico (cfr.art.96, commi 2 e 3).
Manca sul punto una precisa indicazione e pertanto sembra che ci si debba muovere “navigando a vista”, nonostante la decisione della Corte abbia inteso precisare, in maniera alquanto sibillina, che prova contraria idonea a superare la presunzione stabilita dalla legge, dovrà essere fornita mediante l’indicazione di documentati e concreti elementi di fatto, dai quali possa desumersi in modo chiaro e univoco l’effettiva situazione economico-patrimoniale del richiedente.
La formula di per sé, appare sin troppo stringente e arbitraria, imponendo da un lato al richiedente di procurarsi idonea documentazione – peraltro non indicata in forma specifica – che lo stesso nemmeno conosce in maniera chiara e che, in ogni caso, potrebbe non possedere più o esserne totalmente carente perché indigente e privo di qualsiasi forma di reddito da sempre e, dall’altro, attribuendo al giudice deputato alla verifica della situazione economico-patrimoniale dell’istante un eccesso di arbitrio, consentendo allo stesso di valutare l’eventuale documentazione prodotta alla stregua di parametri esclusivamente soggettivi e non invece prefissati per legge.
Ed invero, a mente dell’art.96 del d.P.R. n.115 del 2002 la decisione sull’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato deve essere ordinariamente resa dal magistrato competente, alla stregua della dichiarazione sostitutiva di cui all’art.79 dello stesso decreto.
Non si vede quindi per quale motivo non possa ritenersi opportuno e sufficiente, anche per i casi di cui all’art.76, comma 4-bis, consentire l’allegazione della predetta autocertificazione, onde potere documentare a prova contraria il proprio stato di non abbienza, considerando che lo stesso magistrato potrà sempre (ed anche per tali casi) disporre le penetranti verifiche di cui all’art.96 commi 2 e 3 del decreto presidenziale.
Ed ancora; il richiamo puramente sommario all’aggravante di cui all’art.80 del D.P.R. n.309/90 in materia di sostanze stupefacenti, già in passato apparso ai più come un palese errore del legislatore, atteso che l’aggravante in parola contempla svariate circostanze, alcune delle quali non possono ritenersi, a ben vedere, quale sintomo di una maggiore capacità reddituale (così per la consegna o la destinazione delle sostanze a persona minore di età; l’induzione a commettere il reato o a cooperare nella commissione del medesimo, di persona dedita all’uso di sostanze stupefacenti; l’offerta o la cessione finalizzata a ottenere prestazioni sessuali da parte di persona tossicodipendente), alimenta a tutt’oggi forti dubbi metodologici nonostante l’intervento correttivo della Corte.
Dovrebbe considerarsi maggiormente plausibile il fatto che il legislatore, mediante tale specificazione, volesse fare riferimento ad una sola delle circostanze previste all’art.80 e, in particolare, a quella afferente l’ingente quantitativo delle sostanze oggetto di condanna, ma nessuna specificazione è stata fornita a tal riguardo.
Ciò che rileva soprattutto, è la completa carenza di riferimenti al momento in cui alcuno dei reati abbracciati dall’elenco di cui al comma 4-bis dell’art.76 del d.P.R. 115 del 2002 sia stato commesso, in quanto potrebbe anche verosimilmente trattarsi di condanne per fatti assai remoti.
Condizionare l’accessibilità al beneficio del patrocinio gratuito in tali situazioni, comporta infatti l’implicito inserimento nel quadro normativo di una presunzione aggiuntiva: il soggetto avrebbe proseguito nell’attività delinquenziale e al sostentamento con i proventi di tale attività delittuosa, anche dopo aver subito la condanna, in palese contrasto con il dettato costituzionale della non considerazione di colpevolezza, di cui all’art.27, comma 2 Cost.
Come la stessa Corte ha precisato in sentenza inoltre, emerge dai dati di comune esperienza, avvalorati dalla stessa giurisprudenza, la conclusione che esiste una sensibile differenza tra la posizione ed il reddito dei capi della associazioni criminali e la cosiddetta manovalanza del crimine, spesso compensata con somme di scarsa entità, che non consentono disponibilità economiche di consistenza tale da procurare ai percettori risorse adeguate a provvedere alla loro difesa in eventuali futuri processi.
La indistinta assimilazione tra capi e gregari delle associazioni criminali che ancora oggi la disposizione di cui all’art.76, co.4-bis, seppur rivisitata, porta con sé, non potrà che continuare a produrre l’effetto di applicare una misura analoga a situazioni che, invece, possono essere (e sono, anzi, nell’esperienza concreta) fortemente differenziate.
La conseguenza di ciò è che, pur potendosi agevolmente ipotizzare casi di “non abbienza” per i semplici partecipi delle organizzazioni criminali, questi ultimi continueranno a subire lo stesso trattamento dei loro capi, che dalle attività delittuose hanno tratto ingenti profitti.
In tutti questi casi, si dimostra assai malagevole (forse impossibile) la dimostrazione documentale, chiara e univoca dei concreti elementi di fatto dai quali desumersi la situazione patrimoniale dell’istante, anche in seguito ad un eventuale accertato allontanamento del medesimo – ai fini della sua possibile ammissione al beneficio mediante prova contraria – dal contesto criminale di maturazione del fatto.
Sembrerebbe in definitiva auspicabile maggiore chiarezza e specificità sul punto, atteso che, a tutt’oggi, l’intervento parzialmente riformatore della Corte non pare avere dissipato gli originari dubbi interpretativi e applicativi sorti all’indomani della introduzione del nuovo comma 4-bis dell’art.76 D.P.R. 115 del 2002.
1 In sede di lavori preparatori alla stesura del d.l. 92 del 23/5/2008, aspre critiche sono state riversate dalle componenti dell’Unione delle Camere Penali italiane, ritenendo il predetto provvedimento quale “ennesimo intervento manifesto, estemporaneo ed emergenziale, che non solo tradisce, ancora una volta, l’ormai improcrastinabile necessità di avviare riforme organiche e strutturali nel settore della giustizia penale, ma che questo tradimento consuma attraverso scelte segnate da una preoccupante caratterizzazione in senso autoritario ed illiberale, qualificate da una logica puramente repressiva, che si mostra cedevole ad inquietanti tentazioni di un diritto penale del tipo d’autore” (Cfr.”Sicurezza: Emergenza o voglia d’ordine?”, Documenti, comunicati, rassegna stampa, UCPI, finito di stampare nel mese di marzo 2009).
2 Si veda per la trattazione delle relative problematiche: “Dall’obbligatorietà alla discrezionalità dell’esercizio dell’azione penale – Pacchetto Sicurezza”, a cura di: S.MORISCO e C.PAPAGNO, aggiornamento a Vincenzo Garofoli, Diritto processuale penale, Giuffrè Milano, 2008.
3 Art.76, co.1, del D.P.R. n.115 del 2002: “Può essere ammesso al patrocinio chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a euro 10.628,16”.
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