Gratuito patrocinio: per l’ammissione al beneficio non rilevano i redditi dei familiari fiscalmente a carico non conviventi

Daniela Sodo 25/10/21
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(accoglimento)

(Riferimento normativo: artt. 76 e 112 del D.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002)

La vicenda

A seguito di un procedimento penale promosso dinanzi al Tribunale di Rimini ed avente come parte la moglie separata richiedente il beneficio dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, meglio conosciuto come “gratuito patrocinio”, l’Agenzia delle Entrate provvedeva ad inoltrare richiesta di revoca di detto beneficio con restituzione in favore dell’Erario delle somme corrisposte al difensore per spese e competenze legali.

In prima battuta a fronte dell’avvenuta impugnativa del provvedimento in questione il Tribunale di Rimini rigettava tale opposizione alla revoca e confermava la legittimità della richiesta di restituzione somme come formulata dall’Agenzia delle Entrate, per cui la ricorrente proponeva ricorso in Cassazione.

Più in particolare, la ricorrente lamentava l’erronea applicazione dell’art. 76 comma 2 del D.P.R.  n. 115 del 2002 e la manifesta illogicità della motivazione con cui era stata rigettata la sua opposizione alla revoca per essere la stessa da tempo separata di fatto dal marito e non convivente con lui, sebbene fiscalmente a carico dello stesso negli anni d’imposta relativi al periodo di riferimento del procedimento giudiziale.

La stessa dunque si doleva del fatto che unicamente per tale presupposto fiscale anche il reddito del coniuge fosse stato ingiustamente computato in quello suo familiare determinando in tal modo l’eccedenza dello stesso rispetto ai limiti previsti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte Suprema e le incertezze interpretative

La Corte di Cassazione, in totale riforma delle conclusioni addotte dal Tribunale, ha annullato il provvedimento impugnato ed ha rinviato al lo stesso Tribunale per un riesame della controversia, non senza stigmatizzare in definitiva la superficialità dell’accertamento probatorio evidentemente svolto dal Giudice di merito quanto alla sussistenza dei presupposti, reali ed effettivi, della non convivenza della ricorrente con il marito, sebbene non separati legalmente.

Più precisamente la Corte ha sottolineato la necessità di una attenta valutazione del concetto di fatto della “convivenza” o “coabitazione” ai fini del computo del reddito familiare unicamente secondo una connotazione di “comunanza di vita e di interessi costitutiva di un legame stabile ed ha fornito ai Giudici remittenti una serie di indicazioni probatorie cui gli stessi si sarebbero dovuti attenere nella rivisitazione complessiva della vicenda, a partire dagli accertamenti sulla situazione anagrafica dei coniugi per proseguire con le ricerche circa la titolarità delle utenze domestiche dei diversi luoghi di abitazione delle parti interessate secondo l’imprescindibile onere probatorio rimesso unicamente a queste ultime, operando, in difetto, “la presunzione di coabitazione tra coniugi non legalmente separati”.

La vicenda in commento, sebbene riferita ad un aspetto procedurale di natura eminentemente tecnica e fiscale quale può essere, appunto, l’incidenza reddituale dei componenti della famiglia nella concessione del beneficio del patrocinio a spese dello Stato, si presta efficacemente, proprio grazie all’illuminante intervento degli Ermellini, ad un riesame più ampio e generale di alcuni dei principali temi del diritto di famiglia e degli istituti che regolano la crisi coniugale, non senza tralasciare, come vedremo, anche delle implicazioni giuridiche su aspetti delle obbligazioni e dei negozi.

Ecco dunque perché ci appare quanto meno singolare la motivazione addotta dal Tribunale nel revocare il beneficio laddove è dato leggere testualmente che “….il principio secondo cui, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, debbono essere cumulati esclusivamente i redditi dei familiari conviventi non possa trovare applicazione nel caso del coniuge, sul quale grava un preciso dovere di coabitazione, dalla cui violazione egli non può trarre vantaggi”.

I Giudici del merito, infatti, sostanziano detto assunto affermando che “…ai fini della determinazione del reddito della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato e dei suoi familiari, non possa attribuirsi rilievo alla circostanza che i coniugi abbiano violato il dovere di coabitazione, il quale cessa esclusivamente con l’autorizzazione presidenziale, insieme al procedimento di separazione, a vivere separati”; 2. che “dalla violazione di tale obbligo, non sia dato inferire la violazione dell’ulteriore obbligo di mantenimento e assistenza materiale gravante sui coniugi, di tal ché non sussistono elementi per escludere i redditi del marito, non legalmente separato, dal computo dei redditi della parte ammessa”; 3. che “d’altra parte, l’ammissione al patrocinio non possa dipendere dalla mancanza di un formale provvedimento di separazione, che – ove intervenuto – avrebbe verosimilmente regolato anche l’obbligo di mantenimento del coniuge non abbiente da parte dell’altro, attraverso la corresponsione di un assegno, che sarebbe confluito nella determinazione del reddito della ricorrente“.

Si tratta, invero, di una lettura interpretativa della normativa sul beneficio fiscale in parola quanto meno, a nostro parere, desueta e che, oltretutto, non sembra tener conto dell’evoluzione che la famiglia ha assunto nel tempo e delle dinamiche, sempre più complesse ed articolate, che i rapporti coniugali hanno necessariamente adottato soprattutto, ma non necessariamente, in quella fase molto delicata che contraddistingue la crisi dell’unione affettiva.

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In realtà, le disposizioni normative che regolamentano la specifica materia ci appaiono abbastanza chiare. Il comma 2 dell’art. 76 del D.P.R. n. 112/2002 prescrive, infatti, che “Salvo quanto previsto dall’articolo 92, se l’interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso l’istante”, mentre il richiamato art. 92 prevede che “Se l’interessato all’ammissione al patrocinio convive con il coniuge o con altri familiari, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 76, comma 2, ma i limiti di reddito indicati dall’articolo 76, comma 1, sono elevati di euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi”.

In considerazione di tanto, dunque, anche solo a voler privilegiare il primo criterio interpretativo che il sistema ci impone di adottare, e cioè quello letterale, l’utilizzo da parte del legislatore dei vari termini e locuzioni tutti riconducibili alla “convivenza” non lascerebbe dubbi in proposito e, pertanto, sia pure in un contesto applicativo propriamente tributario e fiscale, possiamo certamente condividere l’assunto contenuto nella sentenza in commento secondo il quale “la nozione rilevante ai fini dell’ammissione e della conservazione del beneficio del gratuito patrocinio, non è quella di familiari a carico bensì quella di familiare convivente. E la definizione di familiari conviventi va letta in correlazione all’art. 79, comma 1, lett. b) che fa riferimento alla famiglia anagrafica del richiedente[1].

Questa legittima ed univoca interpretazione, infatti, apre tutto un mondo, giustamente affrontato anche in questa occasione dalla Corte, sulla più ampia identificazione giuridica della famiglia e, soprattutto, sulla più corretta individuazione dei componenti di questa, ritenendosi tali, quanto meno con riguardo alla problematica considerata, non solo quelli legati al percettore del beneficio fiscale da vincoli di consanguineità o, comunque, giuridici, ma anche quelli che, pur non essendo né parenti né affini allo stesso, vi convivono partecipando attivamente alla gestione del menage familiare e contribuendo in tal modo al reddito complessivo della “famiglia” propriamente intesa.

Il concetto, pertanto, che i Giudici di legittimità hanno voluto prioritariamente garantire è quello di un contesto familiare contrassegnato anzitutto dalla convivenza dei vari soggetti interessati e, nell’ambito di questa, da dinamiche e relazioni interpersonali che siano contraddistinte dal carattere della stabilità e della durevolezza nel tempo, spingendosi essi anche oltre e facendo leva su quei principi imprescindibili di  “comunanza di vita e di interessi” e di “reciproca assistenza morale e materiale“ che sono propri di un rapporto affettivo anche di fatto codicisticamente riconducibile al matrimonio o alla convivenza more-uxorio propriamente detti.

L’intento dei Giudici della Corte in ciò è molto chiaro e certamente condivisibile; si vuole infatti evitare, da una parte, che meri rapporti occasionali o temporanei di coabitazione e/o convivenza, contrassegnati ad esempio dalla mera ospitalità o anche da altri rapporti giuridici più consolidati quali, pensiamo, un contratto di locazione o comodato transitori o parziali, finiscano per pregiudicare le legittime aspettative di beneficio fiscale che la parte richiedente possa vantare in relazione al suo esclusivo reddito personale.

Dall’altra parte, peraltro, si vuole allo stesso modo impedire che rapporti consolidati di convivenza familiare, come sopra individuati, possano ingiustamente sfuggire a quella doverosa considerazione globale del reddito “familiare” che consenta il riconoscimento di tale prerogativa, legata, come è noto, a primari principi costituzionali di solidarietà, equa distribuzione e partecipazione alla spesa comune che fanno sì che il costo della difesa per le persone meno abbienti possa e debba gravare sulla collettività.

Il merito, dunque, della sentenza oggi in commento è certamente quello di aver riportato un istituto di diritto che rappresenta a tutti gli effetti una pietra miliare del nostro sistema legislativo e della nostra politica di solidarietà sociale entro un alveo applicativo conforme alla realtà corrente ed alla sua continua evoluzione, andando in tal modo a contrastare, come detto, una lettura, da parte dei Primi Giudici, palesemente difforme perché basata su presupposti, quali il dovere di coabitazione, l’obbligo di mantenimento e la necessità di un provvedimento di separazione tra i coniugi, che non possono ritenersi imprescindibili a tal fine.

Essi, semmai, costituiscono elementi, anche probatori, che possono maggiormente attestare la sussistenza o meno delle condizioni di legge per usufruire dell’esenzione fiscale, ma certamente non condizioni senza le quali detta esenzione non sia concedibile a priori.

Pretendere, infatti, come risulterebbe dalla sentenza di primo grado, che i coniugi solo di fatto separati, ma ancora conviventi, per essere ritenuti tali debbano necessariamente avere un provvedimento giudiziale che ne attesti il l loro status, è un assioma che si scontra inevitabilmente con la realtà della nostra vita, sempre più contraddistinta, per necessità economiche, familiari, sociali, da rapporti pseudo-coniugali di mera coabitazione, nei quali certamente manca del tutto una qualsivoglia comunanza di intenti e di interessi che stava alla base della loro unione.

Al contrario, è significativa la posizione assunta oggi dalla Corte di Cassazione nel solco di un suo consolidato orientamento giurisprudenziale[2] di riconoscimento esplicito, anche a tali fini, della convivenza more-uxorio come istituto perfettamente equiparato a quella coniugale, quale espressione del rilievo sociale e giuridico che assume la famiglia di fatto e della predominanza dell’elemento fattuale rispetto a quello meramente anagrafico o legale.

Nel rilevare questo, non ci sfugge ovviamente che la prova certa e rigorosa di questi elementi di fatto sia quanto mai difficile, se non del tutto improbabile, né tralasciamo altresì di considerare le motivazioni che hanno indotto la Corte a ritenere, come unico ed indefettibile presupposto del beneficio fiscale in questione, quello della convivenza, nella sua effettiva accezione di situazione di fatto ma, come si legge testualmente nella sentenza, “connotata da comunanza di vita e di interessi costitutiva di un legame stabile”.

La Corte, del resto, per sostanziare questa sua interpretazione sottolinea come “…Diversamente, va ricordato, il divorzio, ove intervenuto, fa venir meno quella presunzione di convivenza dei coniugi cui è correlata la cumulabilità dei rispettivi redditi; tuttavia, la pronuncia della sentenza di cessazione degli effetti civili non comporta, ex se, necessariamente, l’effettiva cessazione di quella convivenza dei coniugi alla quale è correlata la cumulabilità, ai suddetti fini, dei redditie riporta la sentenza della propria Quarta Sezione n. 14442 del 13 gennaio 2006 con la quale essa Corte ha ritenuto corretto e congruamente motivato il provvedimento che aveva respinto l’istanza di ammissione al patrocinio, per superamento dei limiti di reddito, solo perché l’istante, pur essendo divorziato, risultava ancora convivente con la moglie in quanto anagrafato nella medesima abitazione ed oltretutto sottoposte a regime di detenzione domiciliare.

Ebbene, forse è proprio questo eclatante esempio a confermare le difficoltà probatorie sopra ricordate ed a legittimare tutte le nostre perplessità su una problematica che non può in alcun modo essere irregimentata nei limiti di un concetto, quello di “convivenza stabile”, che la Corte oggi propugna, certamente anche per intuibili ragioni di praticità processuale, poiché è evidente come nel caso specifico lo status obbligato di detenzione domiciliare del coniuge divorziato non possa in alcun modo autorizzarci a ritenere sussistente quella “comunanza di vita e di interessi costitutiva di un legame stabile” espressamente richiamata nella pronuncia in commento.

Delle due ipotesi, infatti, l’una: o partiamo dal presupposto che la convivenza prescritta sia necessariamente anche espressione certa di un cammino comune di gestione della vita familiare e di piena condivisione di un progetto familiare stabile, oppure escludiamo del tutto il riferimento a detti principi e consideriamo il presupposto della convivenza coincidente di fatto con quello di semplice coabitazione stabile, escludendo da questo solo quei casi, facilmente riconoscibili, contrassegnati da temporaneità ed occasionalità della presenza nel medesimo domicilio ovvero di assoluta estraneità dei soggetti per intercorsi rapporti contrattuali.  

Sono oltretutto emblematici della incertezza interpretativa con la quale da sempre ci si muove su questo terreno processuale e tributario accidentato, il caso che sempre la Corte di Cassazione[3] ha trattato a suo tempo a proposito della ammissione al beneficio fiscale di un soggetto che, sebbene anagraficamente residente in un dato nucleo familiare, nella realtà risultava essere “senza fissa dimora”, ancora una volta con il dichiarato predominio della effettiva e reale situazione di fatto del contribuente rispetto al mero dato formale, rispetto a quello in cui il soggetto istante, sebbene detenuto in istituto penitenziario, è stato ritenuto comunque obbligato alla specificazione dei redditi dei suoi familiari[4], in palese contraddizione con il più volte citato criterio della stabile convivenza.

D’altra parte, siamo perfettamente consapevoli che in questo contesto “fumoso” ed aleatorio che involge interessi erariali e primari principi costituzionali si debba pure partire da un dato di fatto quanto più individuato ed individuabile, ed allora certamente detto elemento della “stabile convivenza” non può che rappresentarne l’espressione forse più concreta ed obbligata che eviti, nella sua applicazione pratica, conseguenze ben peggiori quale potrebbe essere quella di considerare probante una mera coabitazione del tutto temporanea e transitoria nella determinazione del reddito familiare.

Il male minore, dunque, risiede nella conclusione, chiara e lapidaria, espressa oggi dalla Corte di Cassazione: “In assenza di sporadicità e di stretta temporaneità, la stabile coabitazione altro non è che convivenza”.

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Note:

[1] Cass. Pen. con sentenza della Quarta Sezione n. 42016/2019 ha, tuttavia, precisato come non rilevi il solo dato formale della convivenza emergente dalla residenza anagrafica, costituendo esso piuttosto solo un significativo dato probatorio e, conforme, Cass. Pen. Quarta Sezione sentenza n. 45511 del 28 ottobre 2016

[2] Cass. Pen. Sezione Quarta sentenza n. 109 del 05 gennaio 2006

[3] Cass. Pen. Sentenza n. 45511/2006

[4] Cass. Pen. Sezione Quarta sentenza n. 17374 del 17 gennaio 2006 e, conforme, Sezione Quarta sentenza n. 109 del 26 ottobre 2005

Sentenza collegata

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Daniela Sodo

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