Greenwashing: l’eco-friendly al vaglio dell’autorita’ garante della concorrenza e del mercato

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Introduzione – 1. Origini ed evoluzioni del fenomeno – 2. Pratiche moderne di Greenwashing – 3. Quadro giuridico a tutela del consumatore di fronte a casi di Greenwashing – 4. I provvedimenti dell’AGCM e le ultime novità – 5. Conclusioni

Introduzione


Con l’avvento di un numero sempre crescente di attivisti, di formali prese di posizioni ecologiste da parte di personaggi famosi, istituzioni ed imprese, nonché di campagne volte a sensibilizzare la popolazione, le tematiche ambientali hanno fortemente attirato attenzione ed interesse.

E poiché ai giorni nostri il consumatore è lo specchio della società, è su costui che ricade il compito di fissare gli standards di accettabilità dei prodotti e servizi offerti. In altri termini: le campagne informative sull’inquinamento, le inchieste sul cieco sfruttamento delle risorse naturali, l’emergere di tendenze a favore di prodotti “bio” ed “eco” ha evidentemente condotto alla nascita di un segmento di mercato promotore di una produzione ed un consumo più etici ed ecologici.

Da un recente studio condotto da McKinsey[i], sono circa il 70% i consumatori che, anche a fronte di prezzi più elevati, in fase di acquisto optano per prodotti eco-friendly rispetto a quelli tradizionali. Si tratta di dati verosimilmente destinati a salire.

Tuttavia, il tema dell’etica ambientale è stato sempre più piegato alle esigenze delle imprese che, cavalcando l’onda della nascente consapevolezza ecologista dei consumatori, hanno iniziato a spacciare per sostenibili strategie industriali che, in realtà, poco o nulla giovano all’ambiente.

Così, dall’apprezzabile tentativo di tutela ambientale si è ben presto arrivati alla sua estremizzazione e degenerazione, sfociando in quel fenomeno oggi noto come Greenwashing.

Origini ed evoluzioni del fenomeno

Il termine Greenwashing nasce dalla fusione di “green” (“verde”, nel senso di ecologico) e “whitewashing” (“dare la calce”, metaforicamente inteso come “nascondere”, “coprire”, “ripulire”) e indica un modello di business, non sempre lecito, in cui le imprese “ripuliscono” il loro brand attraverso campagne pubblicitarie e strategie di marketing magnificanti una sensibilità e attenzione per l’ambiente non corrispondente, tuttavia, alle loro pratiche commerciali ed alla loro reale attività.

La parola è stata coniata nel 1986 da Jay Westerveld, un giornalista che, durante un viaggio, s’imbatté in un bizzarro paradosso dato dal fatto che un noto resort, da un lato, distribuiva biglietti per esortare i propri clienti a riutilizzare gli asciugamani al fine di ridurre sprechi e inquinamento, dall’altro si stava espandendo in maniera tale da impattare fortemente sull’ecosistema locale.

Il primo esempio eclatante di Greenwashing è però da attribuire al caso della compagnia petrolifera Chevron, che, alla fine degli anni Ottanta, investì un capitale milionario in spot pubblicitari ove sponsorizzava un attivo impegno dei propri dipendenti nella tutela di farfalle, tartarughe, orsi ed altre specie protette[ii].

Fu però grazie al lavoro degli ambientalisti che venne alla luce il grande inganno della Chevron: una reale attività volta alla tutela dell’ambiente e del regno animale avrebbe richiesto circa cinquemila dollari l’anno, mentre solo l’imponente macchina pubblicitaria azionata ne aveva richiesti milioni.

A ciò si aggiunga che, al contrario della sensibilità ecologica ostentata, proprio in quegli anni la Chevron[iii] si rendeva responsabile di reiterate violazioni del “Clean Air Act” e del “Clean Water Act”: normative federali regolanti emissioni e scarichi di sostanze inquinanti.

Il secondo caso più noto, definito da studiosi ed ecologisti come il gold standard del fenomeno Greenwashing, riguarda l’azienda chimica DuPont[iv]. Come la Chevron, anch’essa si avvalse a lungo di spot pubblicitari che mostravano animali felici e protetti, salvo poi dimostrarsi, secondo un rapporto federale, la più grande industria inquinante degli Stati Uniti[v]. Si stima che in circa trent’anni la DuPont abbia sversato nei fiumi e nell’ambiente limitrofo circa 7100 tonnellate di una sostanza chimica altamente inquinante e cancerogena.

Altri esempi emblematici sono rappresentati dal caso della catena americana di retailer Walmart, che tentò di sponsorizzare come sostenibile la produzione dei gioielli venduti, quando, invece, un’inchiesta del quotidiano Miami New Times rivelò come le pratiche estrattive dell’oro e le condizioni di lavoro degli operai fossero tutt’altro che eco-compatibili, e da quello della società British Petroleum, responsabile nel 2010 di uno dei peggiori disastri ambientali (quando una sua piattaforme petrolifere esplose riversando nel Golfo del Messico milioni di tonnellate di petrolio), che solo due anni più tardi, in occasione delle Olimpiadi di Londra, spacciò la sua attività come rispettosa della natura, ritraendo nelle proprie pubblicità atleti olimpici su spiagge incontaminate e boschi lussureggianti.

  1. Pratiche moderne di Greenwashing

Nelle pratiche commerciali attuali, le aziende impegnate a creare artatamente un’immagine di loro stesse come dedite alla sostenibilità ed alla riduzione di sprechi ed inquinamenti, utilizzano generalmente dei comportamenti standard, facilmente riconoscibili come spia di Greenwashing.

La Federal Trade Commission (FTC) americana è stata un’antesignana nello stilare, nei primi anni 2000, delle linee guida per l’utilizzo di “environmental marketing claims”: regole che obbligano le aziende alla chiarezza e trasparenza non solo nella corretta ed esaustiva portata del proprio impegno ambientalista, ma anche nelle scelte del linguaggio.

Tra le tipiche pratiche di Greenwashing può annoverarsi, primo fra tutto, l’uso di una comunicazione scorretta, attraverso un linguaggio volutamente vago, generico, poco trasparente per l’utenza o, di contro, così scientifico da non essere fruibile; comunicazione reticente ed omissiva, laddove l’azienda si proclama “green” soltanto in relazione ad una fase marginale del processo produttivo, tacendo l’impatto ambientale che altre fasi generano, oppure laddove si esalta il proprio prodotto come maggiormente ecosostenibile di altri, non fornendo però dati utili a permetterne un riscontro o la replicabilità della performance.

Altre tecniche sleali si riscontrano poi con l’abuso, negli slogan, di colori verdi, ambientazioni bucoliche e animali “parlanti”; nel promuovere iniziative di rimboscamento, piantumazioni di aree verdi, celando che l’abbattimento di piante ed alberi è direttamente legato alla propria attività; nel pubblicizzare riduzioni di emissioni di sostanze inquinanti, attraverso campagne però fortemente energivore (es. volantinaggio massivo).

Infine, nei casi più evidenti e più gravi, le imprese compiono Greenwashing direttamente mentendo sulle loro performaces ambientali attraverso informazioni scorrette e slogan non rispondenti alla realtà.
Tali contegni mirano evidentemente ad indurre il consumatore all’acquisto dei prodotti così pubblicizzati, nella convinzione, errata, di compiere un gesto a favore dell’ambiente.

Il 28 gennaio 2021 la Commissione europea e le Autorità nazionali di tutela dei consumatori di cui al Regolamento (UE) 2017/2394 (per l’Italia il Ministero dello sviluppo economico – Direzione Generale per il Mercato, la concorrenza, il Consumatore, la Vigilanza e la Normativa Tecnica), congiuntamente ad altre Autorità internazionali, sotto il coordinamento della IPCEN (Consumer Protection and Enforcement Network), hanno condotto per la prima volta un’indagine approfondita sulla pratica del Greenwashing.

Attraverso uno screening dei siti web e delle affermazioni ecologiche di brand che proclamano di svolgere attività a tutela dell’ambiente, si è giunti a risultati tutt’altro che confortanti. Di fatto, in oltre la metà dei casi, l’azienda non aveva fornito ai consumatori informazioni e dati sufficienti per valutare la veridicità dell’affermazione; nel 37 % dei casi, l’affermazione conteneva formulazioni vaghe e generiche, come “cosciente”, “rispettoso dell’ambiente”, “sostenibile” e nel 59 % dei casi non venivano fornite prove a sostegno delle affermazioni. Nel complesso, nel 42% dei casi le Autorità hanno ritenuto ingannevoli e non veritiere le affermazioni, palesando la possibilità di considerare tali proclami come pratiche commerciali sleali, ai sensi della Direttiva sulle pratiche commerciali sleali[vi].

  1. Quadro giuridico a tutela del consumatore di fronte a casi di Greenwashing

Nell’ordinamento italiano, sino al 2014, mancava totalmente una normativa ad hoc che tutelasse il consumatore dal fenomeno del Greenwashing.

L’evoluzione normativa, in tal senso, è passata attraverso tappe piuttosto lunghe.
Una generale tutela del consumatore è rinvenibile già nel testo costituzionale: ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 2-3 Cost., emerge l’esistenza, e di conseguenza la copertura costituzionale, di un nucleo di diritti dell’individuo nella qualità di consumatore. La stessa Costituzione, all’art. 41 Cost., riconoscendo la libertà d’iniziativa economica e fissandone espressamente i limiti, tutela implicitamente i destinatari della stessa iniziativa economica: i consumatori.

Se guardiamo, invece, alla tutela specifica del consumatore avverso pratiche scorrette esercitate dalle aziende mediante dichiarazioni false o inesatte per accrescere la propria popolarità e quindi le proprie vendite (cd. “pubblicità ingannevole”), essa venne introdotta per la prima volta dal d.lgs. 25 gennaio 1992 n.74.

Il succitato decreto, attuativo con notevole ritardo della Direttiva europea 84/450/CEE, modificata dalla Direttiva 97/55/CE[vii], assoggettava le pratiche aziendali rientranti nella nozione di “pubblicità ingannevole” al controllo ed al potere sanzionatorio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Si stabiliva la possibilità d’intervento di quest’ultima solo su istanza di parte (“i concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni, il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali, anche su denuncia del pubblico”) e quale rimedio sanzionatorio il solo ordine di cessazione del messaggio ingannevole.

La disciplina fondava il giudizio di “ingannevolezza” su ogni elemento oggettivo in grado di pregiudicare verosimilmente le scelte economiche del consumatore o di ledere gli interessi di un’azienda concorrente, a nulla rilevando il profilo soggettivo del comportamento dell’azienda scorretta.

Con l’avvento del D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del Consumo), la precedente normativa è stata completamente inglobata ed è stata introdotto espressamente, all’art.2, il diritto dei consumatori alla tutela della salute, alla sicurezza e qualità dei prodotti e dei servizi, all’ adeguata informazione e corretta pubblicità ed alla correttezza, trasparenza e equità dei rapporti contrattuali.

Nel 2007, in attuazione dell’articolo 14 della sopraggiunta Direttiva 2005/29/CE[viii], modificante la Direttiva 84/450/CE sulla pubblicità ingannevole, venne varato il d.lgs. 145/07[ix], il quale, pur lasciando immutata nella sostanza la definizione di pubblicità ingannevole, introdusse significative novità, quali la possibilità per l’ Autorità garante della concorrenza e del mercato di agire d’ ufficio contro la pubblicità ingannevole e comparativa illecita; la possibilità per l’azienda scorretta di impegnarsi a risolvere l’infrazione, cessando dalla diffusione della pubblicità ingannevole o modificandola; nonché l’applicazione di sanzioni pecuniarie più elevate.

Nella cornice normativa così delineata, si aggiunga che, nei casi in cui i brand ricorrono al Greenwashing mentendo sull’impatto ambientale delle proprie strategie di produzione o nelle etichette dei loro prodotti, spiegano effetti anche gli artt. 2043 e ss. del Codice civile.

E’ evidente l’applicabilità della tutela aquiliana, segnatamente riguardo al danno reputazionale che potrebbe conseguire all’eventuale debunking di informazioni scorrette e falsi proclami.
Il vero giro di vite, coinvolgente la tutela dal Greenwashing, si è avuto però solo nel 2014, anno in cui l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria ha pubblicato la 58esima edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, introducendo per la prima volta, l’abuso di dichiarazioni che richiamano la sostenibilità ambientale “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono” (art.12)[x].

Successivamente, nel 2015 è stata varata la L. 221/2015 sulla Green Economy “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”, (c.d. “collegato ambientale” alla Legge di stabilità 2016)[xi]. Con tale provvedimento sono state introdotte molteplici disposizioni destinate ad impattare sulla normativa ambientale sino ad allora vigente: una pervasiva promozione a favore del riutilizzo delle risorse e dei materiali, un forte impulso alla sostenibilità ambientale ed incentivi a favore dei cittadini (consumatori e non) più virtuosi.

Più variegato il quadro normativo a livello europeo.

Muovendo dal diritto primario, la base giuridica della tutela dei consumatori va rintracciata già ai tempi del Trattato istitutivo della CEE, il cui art. 153 rappresenta l’anticipazione dell’odierno articolo 169 TFUE: «al fine di promuovere gli interessi dei consumatori ed assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori, l’Unione contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori nonché a promuovere il loro diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi». Si menzionano, poi, l’art. 12 TFUE, secondo il quale l’Unione, nel definire ed attuare altre politiche o attività deve sempre tenere in considerazione le esigenze connesse alla tutela dei consumatori; e l’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la quale ribadisce la protezione dei consumatori accordata dall’UE, affermando che nelle politiche europee deve essere garantito sempre il massimo livello di protezione degli individui.

Passando al diritto derivato, invece, ferme rimanendo le già citate Direttive in materia di pubblicità ingannevole, occorre partire dai primissimi passi mossi dalle istituzioni europee a favore di una “Green Economy”. Prima fra tutte, la proposta della Commissione europea per l’istituzione di un mercato unico dei prodotti verdi, emanata il febbraio 2013 mediante la Comunicazione 196/2013 “Single Market for Green Products”, con lo scopo di esortare gli Stati Membri ad una sensibilità maggiore per l’uso efficiente di risorse, migliorando e armonizzando i processi di misurazione della sostenibilità ambientale dei prodotti verdi per incentivarne la diffusione e fornire ai consumatori informazioni veritiere e comprovate[xii].

Di recente, invece, è intervenuto il Regolamento sulla tassonomia, adottato dal Parlamento europeo il 18 giugno 2020 con l’intento di definire univocamente, nel contesto dei mercati finanziari, il concetto di “attività economica sostenibile dal punto di vista ambientale”, onde rendere chiaro agli investitori il tasso di sostenibilità di un’azienda alla quale destinare flussi di capitali d’investimento.

Il Regolamento[xiii] definisce come ecosostenibile un’attività economica che: 1) contribuisce in maniera sostanziale a uno o più obiettivi ambientali; 2) non danneggia in modo significativo nessun obiettivo ambientale europeo; 3) è svolta senza violare i diritti umani.

Altre iniziative dell’Unione Europea, volte a fornire strumenti idonei a tutelare i consumatori da fenomeni di Greenwashing ed a garantire loro informazioni veritiere sulla sostenibilità dei prodotti che scelgono di acquistare, sono state incluse nella nuova agenda dei consumatori dell’Ue (2020-2025).
Tra queste: il Green Consumption Pledge ( “l’impegno per consumi sostenibili”)[xiv], avanzato nel gennaio 2021 dal Commissario Raynders, la proposta legislativa per rafforzare il ruolo dei consumatori nella transizione verde[xv] e la proposta legislativa sulla dimostrazione della veridicità delle affermazioni ecologiche[xvi].

Da segnalarsi anche l’introduzione dell’obbligo di dotare i prodotti alimentari di etichette nutrizionali armonizzate tra gli Stati membri e dell’obbligo di etichetta energetica UE per gli elettrodomestici, al fine di permettere ai consumatori di conoscere l’efficienza energetica di taluni prodotti e di acquistarli nella consapevolezza di reali risparmi.

In tale cornice, inoltre, nella vigenza dell’Accordo di Parigi, con cui l’Ue ed altri Paesi si sono solennemente impegnati a mantenere l’innalzamento della temperatura media globale al di sotto dei 2°C dei livelli preindustriali, e nell’ambito degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Onu, l’Unione Europea ha recentemente adottato il Green Deal e avanzato una proposta di una legge UE sul clima[xvii].

Il Green Deal[xviii] è un ambizioso piano volto a rendere climaticamente neutra l’Unione, al fine di contrastare il cambiamento climatico legato al riscaldamento globale e tutelare la biodiversità e la salute dei cittadini europei. Il Piano passa attraverso la graduale decarbonizzazione, entro il 2050, del settore energetico, nell’incentivazione di forme di produzione sostenibili in un’ottica di concreta transizione “green” di tutti gli Stati Membri, soprattutto quelli che maggiormente legano ancora la loro economia a combustibili fossili. Per far ciò, l’UE fornirà strumenti legislativi e finanziari, attingendo alle risorse reperibili dal budget dell’Ue ma anche attraverso l’istituzione di programmi appositi (come InvestUE e Just Transition Fund)[xix] per aumentare fondi pubblici e privati.

  1. I provvedimenti dell’AGCM e le novità giurisprudenziali

Già nei primissimi anni Duemila, l’Autorità garante del mercato e della concorrenza aveva individuato e sanzionato per pubblicità ingannevole talune note aziende.

Sebbene non abbia mai adoperato il neologismo “Greenwashing”, nella sostanza ciò che l’AGCM censurava erano proprio gli slogan diffusi dalle aziende, mediante i quali le stesse si autoproclamavano amiche dell’ambiente e magnificavano i loro prodotti come ecocompatibili[xx].

A seguito delle istruttorie condotte dall’Autorità, tuttavia, è emerso puntualmente l’utilizzo di dati parziali, di misurazioni non ripetibili, di informazioni enfatizzate, confusionarie e non veritiere, nonché di réclame capaci di indurre il consumatore a scelte poco etiche.

Tra le pronunce più paradigmatiche vale la pena ricordare il caso dei pannolini per neonati “Naturae[xxi]”, (qualificati dal produttore come “biodegradabili e compostabili”, ma che a seguito dell’istruttoria dell’AGCM si sono rivelati non compostabili per la presenza di polimeri non biodegradabili) ed il caso dei sacchetti per la spesa COOP [xxii](presentati dalla pubblicità come 100% biodegradabili, ma che a seguito di una consulenza richiesta dall’AGCM sono risultati biodegradabili solo in tempi molto lunghi).

Nel 2015 venne avviata dall’AGCM una delle più grandi istruttorie inerenti all’ambito “green”, che per il suo clamore mediatico e globale è stata rinominata “Diesel gate[xxiii].

Nel mirino dell’Authority è finita la pratica della casa automobilistica Volkswagen di commercializzare sul mercato italiano, a partire dal 2009, autoveicoli diesel il cui impatto inquinante in termini di gas terra veniva sponsorizzato come fortemente inferiore se comparato ad altri autoveicoli in circolazione, nonché di diffusione di cataloghi pubblicitari in cui veniva declamata la grande sensibilità ed attenzione dell’azienda per i livelli di emissione delle proprie autovetture.

L’Autorità ha ritenuto la condotta gravemente contraria agli obblighi di diligenza professionale imposti dal Codice del Consumo, perché artificiosamente ottenuta mediante modificazioni dei softwares di rilevamento emissioni usati durante i test per l’omologazione, ma anche idonea a falsare le scelte dei consumatori, “inducendoli ad assumere una scelta di consumo che non avrebbero altrimenti preso qualora consapevoli delle reali caratteristiche dei veicoli acquistati”, irrogando il massimo edittale della sanzione pecuniaria, pari a 5 milioni di euro.

La prima pronuncia italiana a parlare ufficialmente di Greenwashing, definita dalle Associazioni ambientaliste come “storica”[xxiv], è stata emessa dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato il 15 gennaio 2020.

Con tale provvedimento, l’Autorità, esaminando taluni claims diffusi tra il 2016 ed il 2019 dal colosso energetico italiano ENI relativi al prodotto “ENIdiesel+”, esaltato come diesel bio, green e rinnovabile, capace di abbattere le emissioni di CO2 fino al 40%, ha considerato quella pubblicità come “ingannevole, ai sensi del Codice del Consumo”, nella misura in cui gli additivi vegetali di cui il prodotto si compone[xxv], secondo uno studio condotto dalla Commissione europea, non riducono né l’impatto ambientale né i consumi.

È stato pertanto interdetto ad Eni di continuare ad utilizzare quei messaggi pubblicitari ed è stata comminata una multa di cinque milioni di euro (il massimo edittale).

La pubblicità di Eni, dunque, può considerarsi la prima pratica ufficialmente accertata di Greenwashing in Italia e la relativa sentenza si pone come apripista di una serie di pronunce successive che verosimilmente non tarderanno ad arrivare.

Ciò che è certo è che la paradigmatica presa di posizione dell’AGCM rappresenta oggi, per i consumatori e per le aziende che si avvalgono di combustibili fossili, un forte segnale di cambiamento e propensione verso l’agognata transizione verde europea.

Per completezza, si segnala, altresì, il recentissimo caso Ryanair, la famosa compagnia aerea irlandese low cost che negli ultimi anni aveva diffuso messaggi pubblicitari in cui si auto dichiarava la compagnia aerea con le emissioni di gas serra più basse d’Europa. Gli spot non sono sfuggiti all’ASA (Advertising Standard Autority), l’autorità britannica Antitrust, che ha condannato Ryanair al ritiro immediato della pubblicità per pubblicità ingannevole poiché “basata su dati scarsamente comprovati”, atteso che i dati usati per gli spot si basavano sulle emissioni pro capite per chilometro, non tenendo però conto dell’altissima densità dei posti sui suoi voli low cost.

 

  1. Conclusioni

Come si è visto, oggi la tutela del consumatore di fronte a comunicazioni commerciali che pubblicizzano benefici per l’ambiente e sensibilità ecologiche passa attraverso non solo normative nazionali e sovranazionali sempre più rigorose, ma anche attraverso il rigido e pervasivo controllo dell’Antitrust, al fine di orientare le scelte consumeristiche su dati chiari, trasparenti, autorevoli e rispondenti alla realtà scientifica.

Le conseguenze di pratiche di Greenwashing non rappresentano solo un rischio per il capitale reputazionale delle aziende che se ne avvalgono ma sono idonee ad impattare anche sulla credibilità di tutte le altre aziende sane, appartenenti al medesimo comparto.

Evitare sanzioni dall’Antitrust richiederà necessariamente alle imprese attente strategie di marketing, basate su comunicazioni autentiche, attendibili, che trovino riscontro nelle reali policies produttive aziendali e che non nascondano gli ambiti nei quali il processo produttivo non sia ancora totalmente ecocompatibile.

Nonostante i grandi passi compiuti negli ultimi anni a favore dell’ecologia, non esistono ancora realtà industriali che possano dirsi totalmente a impatto zero: ciò che fa la differenza e permette alle aziende di tenersi lontane da fenomeni di Greenwashing sono prevalentemente gli impegni volontari.

Tra questi la possibilità di avvalersi dell’utilizzo di etichette che siano in grado di specificare concretamente i regimi di risparmio e l’impatto ambientale del prodotto venduto, l’impiego di green claims convalidati da soggetti terzi e indipendenti o da dati empirici e scientifici, il ricorso a professionisti della comunicazione.

Sarà poi la platea degli stakeholders e dei consumatori a premiare l’impegno a favore dell’ecosostenibilità.

Intanto si attende di assistere ai primi effetti del Green Deal europeo.

 

Note

[i] dal titolo “Sustainability matters, but does it sell?

[ii] La campagna pubblicitaria, chiamata «People Do», raccontava che, dopo le estrazioni di petrolio nel sottosuolo, la Chevron si premurava di ripristinare qualsiasi eventuale danno all’ambiente nel più breve tempo possibile.

[iii] Chevron Commercial Ad 1985, disponibile al link: https://youtu.be/cpm00Z9PXzk

[iv] La battaglia legale riguardante la multinazionale DuPont è stata ricostruita dal New York Times Magazine nell’articolo «The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare» (gennaio del 2016) cfr. https://www.scienzainrete.it/articolo/cinquanta-sfumature-di-greenwashing/silvia-rapisarda-asia-moretti/2021-01-11.

[v] all’art. 153 che “al fine di promuovere interessi dei consumatori ed assicurare un elevato livello di protezione dei consumatori, la Comunità contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori, nonché a promuovere il loro diritto all’informazione, all’educazione e alla organizzazione per la salvaguardia dei loro interessi”.

[vi] https://www.regionieambiente.it/greenwashing-per-meta-delle-affermazioni-ecologiche-dei-prodotti-online/

[vii]https://www.ambientediritto.it/Legislazione/consumatori/2002/direttiva%2097ce55.htm#:~:text=%C3%89%20considerata%20ingannevole%20la%20pubblicit%C3%A0,regole%20di%20prudenza%20e%20vigilanza.

[viii] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32005L0029&from=IT

[ix] https://www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/07145dl.htm

[x] https://www.iusinitinere.it/greenwashing-quando-leco-friendly-diventa-un-problema-19533

[xi] https://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/GPP/legge_28_12_2015_221.pdf

[xii] https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2013:0196:FIN:IT:PDF

[xiii] https://www.pandslegal.it/ambientale/sostenibilita-ambientale-il-regolamento-sulla-tassonomia/

[xiv] https://ec.europa.eu/info/policies/consumers/consumer-protection/green-consumption-pledge-initiative_it.

[xv] Consumer policy- strengthening the role of consumers in the green transition (cfr. https://ec.europa.eu/info/law/better-regulation/have-your-say/initiatives/12467-Empowering-the-consumer-for-the-green-transition)

[xvi] Environmental performance of products and businesses- substantiating claims (cfr. https://ec.europa.eu/info/law/better-regulation/have-your-say/initiatives/12511-Environmental-claims-based-on-environmental-footprint-methods)

[xvii] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?qid=1588581905912&uri=CELEX:52020PC0080

[xviii] https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_it#cronologia

[xix] https://www.iconaclima.it/estero/green-deal-europeo/

[xx] Ad esempio, 1999 PI/2486 Iaber Caldaie Beretta; 2006 PI/4927 Sacchetti Coop «degradabili al 100%»; 2009 PS/4026 Acqua San Benedetto – «La scelta naturale»; 2012 PS/7235 Acqua Ferrarelle «IMPATTO ZERO» dove l’Autorità ha accertato la scorrettezza, sub specie di pratica commerciale ingannevole, delle modalità con cui la società utilizzava, a fini pubblicitari, la sua adesione per una durata temporale limitata ad un progetto ambientale finalizzato alla compensazione delle emissioni di CO2 connesse alla produzione di un determinato quantitativo di bottiglie a marchio “Ferrarelle”; 2017 PS/8438 Pannolini Nauturae’ «biodegradabili compostabili (cfr. https://www.osservatorioveganok.com/green-claim-come-cosa-e-perche/).

[xxi] PS/8438 –Pannolini Naturae’- PS/10389 –Nappynat-

[xxii] PI/4927 Sacchetti Coop «degradabili al 100%»

[xxiii] https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2016/8/alias-8372

[xxiv] https://www.legambiente.it/comunicati-stampa/maxi-multa-per-eni-ha-ingannato-i-consumatori-sul-green-diesel/

[xxv] Prevalentemente HVO (Hydrotreated Vegetable Oil), ovvero provenienti dall’olio di palma grezzo e dai suoi derivati.

Dott.ssa Camilla Cellupica

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