Guida in stato di ebbrezza: i risultati del prelievo utilizzabili anche senza consenso

Oggetto: reato di guida in stato di ebbrezza; esito del giudizio: rigetto; normativa di riferimento: art. 186 codice della strada; orientamento giurisprudenziale : confermato.

 

I risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad incidente stradale e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale sono utilizzabili per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, senza che rilevi la “mancanza di consenso” dell’interessato.

La violazione dell’obbligo di dare avviso al conducente, da sottoporre all’esame alcolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio che può essere tempestivamente dedotta fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado.

Il caso

Un conducente veniva condannato sia in primo che in secondo grado per il reato di guida sotto l’influenza di alcool ex art. 186, comma 2, lett. c) codice della strada, con l’aggravante di aver causato un incidente stradale e di aver commesso il fatto tra le ore 22.00 e le ore 7.00.

In particolare, il giudice d’appello non aveva accolto l’eccezione di inutilizzabilità sollevata dal suddetto automobilista con riferimento al prelievo ematico effettuato durante il ricovero in ospedale; a detta dell’imputato i risultati di tale atto sanitario erano stati illegittimamente assunti a base del reato contestato dal momento che non c’era stata né una specifica richiesta della polizia giudiziaria – così come previsto dall’art. 186, comma 5, del c.d.s. – né il suo consenso preventivo.

Del pari disattesa l’ulteriore doglianza riferita alla mancanza dell’avviso ex art. 114 delle norme di attuazione del c.p.p. riguardante il diritto all’assistenza di un difensore di fiducia.

 

Utilizzabilità dei risultati dei prelievi ematici nel reato di guida in stato di ebbrezza.

L’art. 186, comma 5, c.d.s. prevede che per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti a cure mediche, l’accertamento del tasso alcolemico, su richiesta della polizia stradale, viene effettuato dalle strutture sanitarie in cui vengono ricoverati, che rilasciano ai predetti organi la relativa certificazione estesa alla prognosi delle lesioni accertate.

I prelievi ematici così eseguiti potranno essere utilizzati nei confronti dell’imputato per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, trattandosi di elementi di prova acquisiti dalla documentazione medica, a nulla rilevando, ai fini dell’utilizzabilità processuale, la mancanza del consenso.

Qualora, invece, il prelievo in discorso venga eseguito non per finalità diagnostiche ma unicamente per l’accertamento del tasso alcolemico (sempre su impulso della polizia giudiziaria), l’utilizzabilità dei dati diagnostici sarà subordinata alla mancanza di un dissenso espresso dell’interessato.

Sostanzialmente, se i sanitari hanno ritenuto di non sottoporre il conducente al prelievo ematico, la richiesta degli organi di polizia giudiziaria di effettuare l’analisi del tasso alcolemico in presenza di un dissenso espresso dell’interessato è illegittima e, quindi, l’eventuale accertamento sarà inutilizzabile ai fini dell’affermazione di responsabilità per il reato di guida in stato di ebbrezza.

Diversa l’ipotesi in cui il rifiuto venga opposto nei confronti del prelievo effettuato nell’ambito dei protocolli sanitari della struttura presso cui viene ricoverato il conducente/paziente. Invero, in tal caso, pur trattandosi di prestazione incoercibile (e, come tale, rifiutabile dall’interessato), la manifestazione di volontà contraria al prelievo viene a configurare il reato di rifiuto di cui all’art. 186, comma 7, c.d.s. (o  quello di cui al comma successivo).

Tale approdo esegetico è stato criticato da una parte della dottrina e della giurisprudenza a motivo dei correlati limiti di tenuta costituzionale, palesandosi come una sorta di coercizione, ostativa all’esercizio del diritto dell’indagato di rifiutare la propria cooperazione alle indagini che devono essere eseguite a suo carico.

A tale orientamento si oppone quello, oramai, consolidato che precisa come il principio “nemo tenetur se detegere” è operante solo quando l’indagato sia “organo” dell’attività probatoria (ad esempio esercitando il diritto al silenzio nel rendere l’interrogatorio) e non quando sia “oggetto” della ricerca della prova, come nella fattispecie scrutinata (così, da ultimo, Cass. n. 4236/17).

La decisione della Corte

La Corte nel respingere il ricorso richiama il consolidato orientamento in virtù del quale i risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso, successive ad incidente stradale e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale, sono utilizzabili per l’accertamento della guida in stato di ebbrezza senza che rilevi la mancanza di un preventivo consenso dell’interessato (ex multis Cass. n. 52877/16; Cass. n. 1522/13 e Cass. 6755/12).

Nel caso in esame la corte di appello ha rilevato che l’imputato era stato trasportato in ospedale e sottoposto a cure mediche, avendo riportato un trauma cranico con sanguinamento; il prelievo doveva, pertanto, ritenersi disposto nell’ambito delle cure mediche del caso e, come tale, legittimamente acquisito ed utilizzabile ai fini dell’accertamento penale anche in assenza del preventivo consenso dell’interessato.

Quanto all’eccepita inutilizzabilità dei risultati del prelievo in parola per la dedotta mancanza dell’avvertimento di cui all’art. 114 disp. att. c.p.p., tale omissione – proseguono i Giudici di legittimità – determina una nullità di ordine generale a regime intermedio che può essere sollevata, a norma del combinato disposto dell’art. 180 c.p.p. e art. 182 c.p.p., comma 2, fino alla deliberazione della sentenza di primo grado (così, da ultimo Cass. SS.UU. n. 5397/15; Cass. n. 42667/13; Cass. 16131/17; Cass. 22608/17).

Dalla lettura dei verbali di udienza relativi al giudizio di primo grado non risulta mai essere stata eccepita la violazione in discorso; da ciò ne consegue – conclude la Corte – che il vizio prospettato, non proposto in primo grado, non è più denunciabile nei successivi gradi del giudizio.

Sentenza collegata

53991-1.pdf 142kB

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Apollonio Gianfranco

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