La Quarta Sezione della Suprema Corte, con la sentenza in commento (n. 5517/13), ribadisce la tassativa applicazione del principio del favor rei, in materia di guida in stato di ebbrezza, avendo riguardo specifico al caso in cui le due rilevazioni, operate a mezzo strumento tecnico, risultino disomogenee, al punto da configurare violazioni di scaglioni diversi dell’art. 186 comma 2° CdS.
Nel caso concreto, oggetto del giudizio di legittimità, l’accertamento aveva, infatti, prodotto un esito contraddittorio.
La prima misurazione (0,78 g/l) rientrava, infatti, nel contesto dell’ipotesi penalmente irrilevante di cui alla lett. a) dell’art. 186 comma 2° CdS, mentre la seconda (0,94 g/l) sanciva la violazione della lett. b) della medesima norma, che introduce una sanzione di carattere penale.
Il Collegio di legittimità non si è limitato, dunque, a declinare un’indicazione, peraltro, corretta e pacifica giuridicamente (e, comunque, ragionevole), circoscrivendo, così, l’operatività della stessa al solo caso in cui la verifica, delle condizioni psicofisiche del conducente di un veicolo, venga effettuata con l’ausilio di strumenti elettronici e si sia in presenza di dati muniti di un carattere di sufficiente certezza.
Va osservato, infatti, che la Corte ha riaffermato, preliminarmente a qualsiasi altra considerazione, che il reato di guida in stato di ebbrezza può essere accertato in qualunque modo.
E’ stata, così, ribadita la legittimazione a che la specifica forma di controllo risulti idonea a sortire un risultato (positivo), in quanto l’agente è facultizzato , quindi, anche ad avvalersi di percezioni personali e soggettive, che si possano fondare – ictu oculi – su rilevazioni di comportamenti o di situazioni del tutto compatibili, sul piano sintomatico, con lo stato di alterazione che il reato presuppone.
La conseguenza di questa premessa, è, ad avviso dei giudici di legittimità, che tale indirizzo investigativo non possa sfuggire alla tassativa applicazione del ricordato principio generale di favore per l’indagato/imputato, in tutte quelle ipotesi, in cui – pur essendo raggiunta empiricamente la prova dell’effettivo stato di intossicazione dell’interessato – difetti, peraltro, la sicura dimostrazione, che tale condizione psico-fisica possa essere ricondotta alla sfera di una delle due ipotesi di maggiore gravità.
E’ di tutta evidenza la considerazione che un controllo eminentemente pratico, caratterizzato da profili di forte soggettività (e privo di specificità scientifica), si espone a maggiori percentuali di fallibilità ed opinabilità, rispetto all’esito di una verifica strumentale.
Proprio in funzione di tale avvertito rischio diagnostico, (ovviamente insussistente in ipotesi di controllo con il ricorso a mezzi tecnici), il quale riverbera dirette conseguenze sull’esito del possibile giudizio penale, interviene l’ammonimento della Corte di Cassazione.
Esso mira, quindi, a richiamare l’applicazione di regole di giudizio certe, uniformi e costanti.
I spremi giudici intendono, con questo approccio ermeneutico, prevenire in modo rigoroso e preciso ogni possibile rischio di estensione della responsabilità del singolo (da illecito amministrativo a fattispecie penale), che potrebbe concretarsi, abnormemente, attraverso l’adozione surrettizia di forme di giudizio puramente presuntive – da parte degli agenti operanti -, le quali possano risolversi in sfavore dell’inquisito.
Deve, infatti, venire superata l’equazione (purtroppo, talora, adottata nelle aule di giustizia) in base alla quale, la percezione sensoriale di alcuni elementi fattuali [la anormalità dell’alito (“vinoso”), il rallentamento dei movimenti, la assenza di prontezza di reazioni ed elaborazione logico-verbale, da parte della persona controllata etc.] costituisca prova assoluta di una importante forma di intossicazione alcolica e, dunque, appaia inequivoca e sicura dimostrazione del superamento, quanto meno, della soglia del comma 2 lett. b) dell’art. 186 CdS, che conferisce carattere di reato all’illecito.
La valenza della constatazione soggettiva dello stato della persona controllata, dunque, implicitamente viene, in sentenza, ridimensionata e ricondotta al carattere di elemento induttivo (un vero e proprio incipit investigativo).
Tale atto di indagine, per potere fungere da prova dimostrativa dello sforamento dei limiti minimi penalmente rilevanti, in relazione alla condotta in parola, deve essere, però, indubbiamente, sostenuto da ulteriori (e successivi) elementi di riscontro ab externo.
Rimini, lì 6 febbraio 2013
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