Hate speech, cyberbullismo e i limiti alla libertà di espressione sul web

Tra hate speech, libertà di espressione e cyberbullismo: quadro normativo e interpretazioni giurisprudenziali.

Mariella Spata 19/12/24

Tra hate speech, libertà di espressione e cyberbullismo: quadro normativo e interpretazioni giurisprudenziali. Per l’approfondimento, si consiglia il volume Il Cyberbullismo e i reati dell’era digitale, con cui si inquadra il contesto normativo nazionale ed europeo, ivi compresa la tutela dei dati personali dei minori, il quadro costituzionale a sostegno della legge n. 71/2017 e le procedure cautelari-amministrative in essa previste.

Indice

1. Il quadro normativo italiano: articoli 604-bis e 604-ter del codice penale


Il discorso di odio e i crimini di odio costituiscono tematiche attuali nel panorama giuridico italiano ed europeo, poiché rappresentano una minaccia diretta alla coesione sociale e ai valori democratici. In Italia, un primo intervento legislativo in materia antidiscriminatoria si è avuto con il decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, successivamente convertito nella legge 25 giugno 1993, n. 205, nota come legge Mancino, che ha introdotto “Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa“. Questo corpus normativo è stato integrato e trasposto nel codice penale con il decreto legislativo 1 marzo 2018, n. 21, che ha introdotto la nuova Sezione I-bis del Titolo XII, “Dei delitti contro la persona”, Capo III, dedicato ai “Delitti contro l’uguaglianza”, con l’inserimento degli articoli 604-bis e 604-ter. Tale tassonomia, “delitti contro la persona e delitti contro l’uguaglianza”, è oggi essenziale per la ricostruzione del bene giuridico tutelato dalle due norme sopra richiamate.
L’articolo 604-bis cod. pen., rubricato “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa“, prevede: «È punito:

  • con la reclusione fino a un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chiunque, in qualsiasi modo, propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;
  • con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.»

Il secondo comma aggiunge:
«È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi è punito, per il solo fatto della partecipazione, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che li promuovono, dirigono o organizzano sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni.»
Il terzo comma introduce una circostanza aggravante, specificando:
«La pena è aumentata se la propaganda, l’istigazione o l’incitamento sono commessi in modo tale da determinare un concreto pericolo di diffusione, anche per mezzo di strumenti informatici o telematici.»
L’articolo 604-ter cod. pen., rubricato “Circostanze aggravanti“, dispone invece che:
«Per i reati non puniti con l’ergastolo, la pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso.»
Gli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale rappresentano il fulcro del sistema giuridico italiano nella lotta contro i discorsi di odio e le condotte discriminatorie. Essi distinguono tra reati autonomi e circostanze aggravanti, garantendo una risposta incisiva alle manifestazioni di odio che minacciano la dignità umana e i principi di uguaglianza. In particolare, l’articolo 604-bis punisce la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, etnico, nazionale o religioso, nonché l’incitamento pubblico alla discriminazione o alla violenza. La propaganda si configura come la diffusione di messaggi volti a promuovere l’odio o la superiorità di un gruppo rispetto a un altro, mentre l’incitamento riguarda condotte finalizzate a provocare direttamente atti di discriminazione o violenza. La norma sanziona inoltre la partecipazione a organizzazioni, movimenti o gruppi che perseguono scopi discriminatori o violenti, prevedendo pene più severe per chi promuove, dirige o organizza tali realtà. Parallelamente, l’articolo 604-ter introduce un’aggravante specifica che si applica ai reati comuni quando questi sono motivati da finalità discriminatorie o di odio razziale, etnico, nazionale o religioso. La Corte di Cassazione ha precisato che questa aggravante si configura non solo quando l’azione è chiaramente diretta a provocare odio o comportamenti discriminatori, ma anche quando rispecchia un pregiudizio manifesto nei confronti di un gruppo, a prescindere dalla motivazione soggettiva dell’autore della condotta. Ad esempio, in un caso di lesioni personali, l’aggravante è stata riconosciuta poiché la vittima era stata apostrofata con epiteti razzisti, come “negro di merda”[1]. La Corte di Cassazione[2] ha inoltre precisato che l’articolo 604-bis si applica sia a gruppi organizzati sia a realtà più fluide o estemporanee, purché la propaganda e l’istigazione discriminatoria siano elementi costitutivi del gruppo. Diversamente, l’articolo 604-ter si applica come circostanza aggravante quando l’azione è motivata da intenti discriminatori, estendendo la tutela penale a reati comuni che assumono una valenza particolarmente grave per il contesto e la finalità. La giurisprudenza della Corte di Cassazione esclude l’applicazione del criterio di specialità di cui all’articolo 15 cod. pen., che infatti, dispone che: “quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”. Per l’approfondimento, si consiglia il volume Il Cyberbullismo e i reati dell’era digitale, con cui si inquadra il contesto normativo nazionale ed europeo, ivi compresa la tutela dei dati personali dei minori, il quadro costituzionale a sostegno della legge n. 71/2017 e le procedure cautelari-amministrative in essa previste.

FORMATO CARTACEO

Il Cyberbullismo e i reati dell’era digitale

Bullismo e cyberbullismo sono tra le principali problematiche con le quali bambini e adolescenti si trovano a far fronte nei loro contesti di vita quotidiani. Il presente volume analizza questi due fenomeni attraverso un approccio interdisciplinare, alla luce della nuova Legge n. 70/2024, che ha apportato significative modifiche alla Legge n. 71/2017 (Prevenzione e contrasto dei fenomeni del bullismo e del cyberbullismo). Con la presente opera si inquadra il contesto normativo nazionale ed europeo, ivi compresa la tutela dei dati personali dei minori, il quadro costituzionale a sostegno della legge n. 71/2017 e le procedure cautelari-amministrative in essa previste. Sono analizzati i possibili reati, sia contro la persona che contro il patrimonio, che le varie condotte di bullismo e di cyberbullismo possono integrare e i profili nei quali possono attuarsi (hate speech, flaming, sexting, sextortion, revenge porn, cyberstalking, happy slapping, harassment, doxing, denigration). Il testo, corredato da riferimenti normativi nonché da utili prospetti con le linee giurisprudenziali più recenti, è diretto agli operatori del diritto, ma anche agli operatori scolastici e attivi nel sociale, oltre che naturalmente a tutti quei genitori che abbiano la volontà o la necessità di approfondire in maniera tecnica le loro conoscenze, ponendosi come valido strumento operativo e di ausilio nei diversi ambiti professionali coinvolti.Paolo Emilio De SimoneMagistrato presso il Tribunale di Roma.Mariella SpataAvvocato specializzato in diritto amministrativo, diritto pubblico dell’economia e in diritto europeo

Paolo Emilio De Simone, Mariella Spata | Maggioli Editore 2024

2. L’evoluzione giurisprudenziale: la sentenza n. 16153/2024 e il rapporto con la legge Scelba


La giurisprudenza ha chiarito che la partecipazione punita dall’articolo 604-bis, co. 2, può riguardare anche organismi privi di una struttura stabile o organizzata, purché caratterizzati dalla propaganda o dall’incitamento alla discriminazione come elementi costitutivi. In questa prospettiva, viene rilevato che tali gruppi possono richiamarsi a ideologie del passato, come quella fascista o nazista, utilizzandone simboli e rituali per identificare la propria matrice ideologica e promuovere concretamente contenuti discriminatori. L’elemento chiave è dunque la funzionalità tra il simbolo e l’attività attuale del gruppo, con un focus sull’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16153/2024[3], hanno approfondito ulteriormente il rapporto tra l’articolo 5 della legge Scelba[4] e l’articolo 604-bis del codice penale, affrontando la questione della riconducibilità del saluto romano e della risposta alla “chiamata del presente” alle fattispecie previste dalle due norme. La Corte ha chiarito che l’articolo 5 della legge Scelba punisce le manifestazioni esteriori che evocano il disciolto partito fascista, vietato dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Trattandosi di un reato di pericolo concreto, è necessario che il giudice accerti, alla luce del contesto fattuale, se la condotta sia idonea a determinare il pericolo effettivo di riorganizzazione del partito fascista. L’articolo 604-bis, invece, è finalizzato a contrastare ideologie discriminatorie o violente, configurando un reato di pericolo presunto in cui il legislatore anticipa la tutela del bene giuridico, lasciando comunque al giudice il compito di verificare la concretezza dell’offesa. La Corte ha escluso un rapporto di specialità tra le due norme, in quanto esse tutelano beni giuridici diversi: da un lato, la legge Scelba mira a preservare l’ordinamento costituzionale e democratico, dall’altro, l’articolo 604-bis protegge la dignità umana e i principi di uguaglianza e non discriminazione sanciti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione. Di conseguenza, le due norme possono concorrere: il saluto romano, ad esempio, può integrare il reato di cui all’articolo 5 se si verifica un pericolo concreto di riorganizzazione del partito fascista e configurare anche il reato di cui all’articolo 604-bis se esprime ideologie discriminatorie o di odio.

3. Hate speech online e le nuove sfide digitali


Un aspetto particolarmente rilevante riguarda l’hate speech online e la diffusione di contenuti discriminatori attraverso i social media. La sentenza della Cassazione n. 4534/2022[5] ha stabilito che i messaggi di odio diffusi tramite piattaforme digitali possono rientrare nell’ambito dell’articolo 604-bis, a condizione che sussista un concreto rischio di provocare atti di discriminazione o violenza. Integra ad esempio il reato di cui all’art. 604-bis, co. 2, cod. pen., l’adesione a una comunità virtuale caratterizzata da vocazione ideologica neonazista, avente tra gli scopi la propaganda e l’incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici o religiosi e la condivisione, sulle bacheche delle sue piattaforme social, di messaggi di chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza, attraverso l’inserimento di “like” e il rilancio di “post” e dei correlati commenti, per l’elevato pericolo di diffusione di tali contenuti ideologici tra un numero indeterminato di persone derivante dall’algoritmo di funzione dei social network, che aumenta il numero di interazioni tra gli utenti. Il contesto digitale, caratterizzato dalla rapidità di propagazione e dall’apparente anonimato degli utenti, amplifica la capacità offensiva dei messaggi e accresce il potenziale danno sociale. La Corte ha ribadito che la libertà di manifestare il proprio pensiero (art. 21 Cost.) non tutela contenuti discriminatori o che incitano alla violenza. Per questo motivo, la giurisprudenza riconosce che l’utilizzo di strumenti telematici o informatici costituisce un’aggravante specifica, si veda l’articolo 604-bis, co. 3, giustificando un’applicazione rigorosa delle norme penali.
In conclusione, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha svolto un ruolo fondamentale nell’interpretazione di queste norme, soprattutto con riferimento alla diffusione dei discorsi di odio online e al bilanciamento tra libertà di espressione e tutela dei valori fondamentali della Costituzione. L’efficacia delle norme penali, in un contesto sempre più digitalizzato e complesso, risiede nella loro capacità di adattarsi a nuove forme di comunicazione, garantendo una tutela efficace contro fenomeni di odio, discriminazione e violenza ideologica, senza perdere di vista il principio di offensività concreta.

4. Le lacune normative e le prospettive legislative: il DDL Zan


L’ordinamento italiano non prevede sanzioni esplicite per l’incitamento all’odio basato su genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità, creando una significativa lacuna di tutela. Il tentativo di colmare questa mancanza è stato avanzato con il DDL Zan (S. 2005), che estendeva le tutele penali degli articoli 604-bis e 604-ter alle discriminazioni per motivi di omofobia, transfobia e abilismo. Sebbene approvato alla Camera nel 2020, il disegno di legge è stato respinto al Senato nell’ottobre 2021. Nella corrente XIX Legislatura, l’Atto Senato S. 219 riprende le finalità del DDL Zan, puntando a una tutela uniforme contro i crimini e discorsi d’odio contro la comunità LGBTQ+ e le persone con disabilità. Il testo propone di integrare gli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale per includere queste nuove fattispecie discriminatorie, con l’obiettivo di garantire una tutela uniforme contro i reati d’odio e le forme di incitamento all’odio.

5. La risposta europea: Risoluzione n. 5733 del 2024 e Decisione Quadro 2008/913/GAI


A livello europeo, il Parlamento Europeo ha adottato nel maggio 2024 una Risoluzione (C/2024/5733)[6] per integrare i reati di odio e i discorsi di odio nell’elenco dei crimini dell’UE ai sensi dell’articolo 83, paragrafo 1, del TFUE. Questa decisione rappresenta un passo fondamentale per armonizzare le legislazioni nazionali degli Stati membri e garantire standard comuni nella definizione e nella sanzione dei reati d’odio, comprese le discriminazioni basate su orientamento sessuale, identità di genere e disabilità. La risoluzione sottolinea che i discorsi di odio online e offline minacciano i valori fondamentali dell’Unione Europea e possono avere conseguenze gravi, incentivando comportamenti violenti e discriminatori nella società reale. Il Parlamento europeo esorta la Commissione e gli Stati membri a proteggere i minori dall’incitamento all’odio, a prevenire situazioni simili, in particolare il bullismo scolastico e il cyberbullismo, e a ridurne l’impatto sullo sviluppo e sulla salute mentale dei bambini.
A livello europeo, la Decisione Quadro 2008/913/GAI[7] dell’Unione Europea impone agli Stati membri l’obbligo di criminalizzare l’incitamento pubblico alla violenza o all’odio fondato su motivi di razza, religione, etnia o nazionalità. Tale normativa ha svolto un ruolo cruciale nell’armonizzazione delle legislazioni nazionali, inclusa quella italiana, assicurando la compatibilità tra le disposizioni interne e i principi sovranazionali.

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6. Libertà di espressione e hate speech


Con riferimento all’hate speech, la tutela della libertà di espressione, sancita dall’articolo 21 della Costituzione Italiana e dall’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), non è assoluta. Entrambe le disposizioni prevedono limitazioni a tale diritto in presenza di interessi superiori, come la tutela della dignità umana, dell’ordine pubblico e dei diritti fondamentali. L’articolo 21 della Costituzione Italiana stabilisce il diritto fondamentale di manifestare liberamente il proprio pensiero attraverso qualsiasi mezzo di diffusione, garantendo il pluralismo delle idee e la formazione dell’opinione pubblica. Tuttavia, tale diritto non è illimitato. La Corte Costituzionale e la giurisprudenza ordinaria hanno chiarito che la libertà di espressione deve essere bilanciata con altri valori costituzionali, quali la dignità umana (articolo 2), il principio di uguaglianza (articolo 3) e il divieto di discriminazione. Espressioni che incitano all’odio, alla violenza o ledono i diritti fondamentali non sono tutelate, in quanto costituiscono una minaccia alla convivenza civile e all’ordine democratico. Il cosiddetto discorso di odio, caratterizzato da messaggi violenti o discriminatori, esula pertanto dalla protezione garantita dall’articolo 21. La Corte Costituzionale, nell’interpretazione di tale articolo, ha richiamato più volte i principi elaborati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), in linea con l’obbligo di conformità imposto dall’articolo 117 della Costituzione Italiana.
Parallelamente, l’articolo 10 della CEDU riconosce la libertà di espressione come un pilastro della democrazia europea, comprendendo il diritto di ricevere e comunicare informazioni e opinioni senza interferenze pubbliche. Tuttavia, il secondo paragrafo stabilisce che tale diritto può essere limitato per ragioni di sicurezza nazionale, ordine pubblico, protezione della reputazione altrui o prevenzione dei reati. La Corte EDU ha ribadito nei casi Erbakan v. Turkey[8] e Beizaras-Levickas v. Lithuania[9] che il discorso di odio, minacciando i valori democratici e i diritti fondamentali, non rientra nella protezione dell’articolo 10. Nel caso Erbakan, la Corte ha stabilito che espressioni discriminatorie o incitanti all’odio, anche in contesti politici, non sono ammesse. Nel caso Beizaras-Levickas, la Corte ha affrontato la diffusione di contenuti omofobi sui social media, affermando che l’incitamento all’odio online deve essere contrastato con fermezza, poiché può alimentare un clima di violenza e intolleranza incompatibile con i principi democratici. A complemento di tali disposizioni, la Corte EDU fa ricorso all’articolo 17 della CEDU, che vieta l’abuso dei diritti garantiti dalla Convenzione. Questo strumento è stato applicato in casi significativi, come Garaudy v. France[10], per contrastare il negazionismo, e nel caso M’Bala M’Bala v. France[11], che rappresenta un importante precedente nella giurisprudenza della Corte EDU, poiché:

  • conferma che l’abuso della libertà di espressione non può essere tollerato quando viola valori fondamentali della Convenzione, come la dignità umana e la lotta contro il razzismo e l’antisemitismo; e
  • ribadisce l’applicabilità dell’articolo 17 come strumento per escludere dalla protezione della Convenzione comportamenti e discorsi che minacciano i principi democratici.

La Corte EDU ha dunque riaffermato che la libertà di espressione non è un diritto assoluto e che, in presenza di discorsi d’odio o negazionisti, è legittimo per gli Stati adottare misure restrittive al fine di tutelare la società democratica e le sue basi etiche.

7. Hate speech, intelligenza artificiale e cyberbullismo


L’Unione Europea ha adottato misure concrete per contrastare l’incitamento all’odio, concentrandosi in particolare sull’ambiente digitale, contesto favorevole alla proliferazione di hate speech. Nel 2016, la Commissione Europea ha introdotto il Codice di Condotta contro l’incitamento all’odio online, sottoscritto inizialmente con Facebook, Twitter, Microsoft e YouTube e successivamente esteso a Instagram, Snapchat e TikTok. Tale Codice prevede la revisione tempestiva delle segnalazioni entro 24 ore e la rimozione dei contenuti illeciti. La Commissione Europea ha recentemente pubblicato la prima bozza del Codice di Condotta per i modelli di Intelligenza Artificiale di Uso Generale (GPAI), ovvero quelli utilizzati ogni giorno da milioni di utenti, come ChatGPT di OpenAI, Copilot di Microsoft e Gemini di Google. La versione finale sarà disponibile entro aprile 2025 con l’obiettivo di integrare e anticipare le disposizioni dell’AI Act (Regolamento 2024/1689/UE)[12], che entrerà pienamente in vigore nell’agosto 2025. Il Codice fornisce linee guida per garantire un utilizzo etico, sicuro e trasparente dell’intelligenza artificiale, bilanciando innovazione tecnologica e tutela dei diritti fondamentali. Il documento stabilisce obblighi di trasparenza per i fornitori di modelli GPAI, come la documentazione dei processi di addestramento, il rispetto del copyright e l’identificazione delle fonti dei dati utilizzati. Particolare attenzione è posta sui rischi sistemici, che includono minacce alla sicurezza, alla cybersicurezza e possibili manipolazioni su larga scala. Questa iniziativa rappresenta un importante passo verso la regolamentazione dell’intelligenza artificiale in Europa, promuovendo uno sviluppo tecnologico sostenibile e rispettoso dei valori democratici e della sicurezza collettiva. Nonostante l’efficacia nell’azione immediata, l’Unione Europea ha riconosciuto che tali misure non sono sufficienti per contrastare fenomeni strutturali come il bullismo e il cyberbullismo, che minacciano gravemente la dignità umana e i diritti dei minori. In particolare, il Parlamento Europeo, nel Rapporto del 2016 e nella Risoluzione del 2021 sulla protezione dei diritti dei minori nell’ambiente digitale, ha sottolineato l’urgenza di adottare strategie educative e normative coordinate per prevenire e combattere tali fenomeni. Queste forme di violenza, seppur virtuali, hanno conseguenze reali e profonde sulle vittime, soprattutto sui minori. La creazione di un ambiente digitale sicuro richiede l’implementazione di strumenti più efficaci di monitoraggio, segnalazione e rimozione dei contenuti offensivi. Inoltre, l’Unione Europea ha riconosciuto la necessità di un cambiamento culturale profondo, che coinvolga istituzioni, scuole e famiglie per promuovere un uso responsabile e consapevole delle tecnologie. La realizzazione di spazi digitali inclusivi, basati sul rispetto della dignità umana e sul dialogo costruttivo, rappresenta una priorità. La Commissione Europea ha evidenziato il ruolo sempre più centrale delle piattaforme digitali nella diffusione di contenuti online. I loro algoritmi, progettati per massimizzare l’engagement degli utenti (e quindi i profitti pubblicitari), spesso finiscono per favorire la diffusione di contenuti polarizzanti, divisivi e violenti. Questo succede perché contenuti che suscitano forti reazioni emotive, come i discorsi d’odio o notizie sensazionalistiche, attirano più attenzione e interazioni (like, commenti e condivisioni). In questo modo, si crea un circolo vizioso che alimenta divisioni sociali, disinformazione e odio. Il problema nasce dal modello di business delle piattaforme, che dà priorità alla monetizzazione dell’attenzione degli utenti, senza considerare i danni sociali causati dalla promozione di contenuti negativi. Gli algoritmi, che decidono cosa farci vedere, tendono a premiare ciò che genera più interazioni, a discapito di contenuti più equilibrati e costruttivi.
Per affrontare questa situazione, la Commissione Europea ha introdotto il Digital Services Act (DSA), una legge che mira a responsabilizzare le piattaforme digitali. Il DSA richiede maggiore trasparenza su come funzionano gli algoritmi e obbliga le piattaforme a rimuovere rapidamente contenuti illegali, come i discorsi d’odio. L’obiettivo è limitare la diffusione di contenuti dannosi, senza però limitare la libertà di espressione. Un punto fondamentale è la necessità di sviluppare algoritmi più responsabili, che non si limitino a spingere contenuti virali, ma che promuovano informazioni di qualità e messaggi positivi. Le piattaforme potrebbero, ad esempio, offrire agli utenti più controllo sui contenuti visualizzati, permettendo di scegliere un ordine cronologico anziché quello suggerito dagli algoritmi. L’intelligenza artificiale può avere un ruolo importante in questo contesto. Se usata correttamente, può aiutare a individuare e bloccare rapidamente contenuti d’odio e disinformazione. Tuttavia, se non regolata, rischia di amplificare il problema, soprattutto quando viene utilizzata per massimizzare i profitti. Come sopra menzionato, l’Unione europea sta lavorando per promuovere un uso etico e responsabile dell’IA, che rispetti i diritti umani e favorisca un ambiente online più sicuro. Oltre alla regolamentazione, è importante promuovere l’educazione digitale. Gli utenti devono essere messi in grado di capire come funzionano gli algoritmi e di riconoscere contenuti manipolatori o dannosi. Educare alla cittadinanza digitale significa dare alle persone strumenti per navigare online in modo consapevole e responsabile.

8. Conclusione


La lotta all’hate speech e al cyberbullismo richiede un approccio integrato e multidisciplinare. È fondamentale bilanciare la libertà di espressione con la tutela della dignità umana, garantendo l’applicazione efficace delle norme penali in un contesto sempre più digitalizzato. L’evoluzione giurisprudenziale, unita alle nuove proposte legislative e ai meccanismi europei, rappresenta un passo cruciale verso la costruzione di una società più inclusiva e rispettosa dei diritti fondamentali.

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Il Cyberbullismo e i reati dell’era digitale

Bullismo e cyberbullismo sono tra le principali problematiche con le quali bambini e adolescenti si trovano a far fronte nei loro contesti di vita quotidiani. Il presente volume analizza questi due fenomeni attraverso un approccio interdisciplinare, alla luce della nuova Legge n. 70/2024, che ha apportato significative modifiche alla Legge n. 71/2017 (Prevenzione e contrasto dei fenomeni del bullismo e del cyberbullismo). Con la presente opera si inquadra il contesto normativo nazionale ed europeo, ivi compresa la tutela dei dati personali dei minori, il quadro costituzionale a sostegno della legge n. 71/2017 e le procedure cautelari-amministrative in essa previste. Sono analizzati i possibili reati, sia contro la persona che contro il patrimonio, che le varie condotte di bullismo e di cyberbullismo possono integrare e i profili nei quali possono attuarsi (hate speech, flaming, sexting, sextortion, revenge porn, cyberstalking, happy slapping, harassment, doxing, denigration). Il testo, corredato da riferimenti normativi nonché da utili prospetti con le linee giurisprudenziali più recenti, è diretto agli operatori del diritto, ma anche agli operatori scolastici e attivi nel sociale, oltre che naturalmente a tutti quei genitori che abbiano la volontà o la necessità di approfondire in maniera tecnica le loro conoscenze, ponendosi come valido strumento operativo e di ausilio nei diversi ambiti professionali coinvolti.Paolo Emilio De SimoneMagistrato presso il Tribunale di Roma.Mariella SpataAvvocato specializzato in diritto amministrativo, diritto pubblico dell’economia e in diritto europeo

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Note


[1] Cass. Pen., sentenza n. 307 del 18 novembre 2020.
[2] Cass. Pen., sentenza n. 2121 del 17 novembre 2023. Cfr., Cass. Pen., Sez. Un., n. 1235 del 28 ottobre 2010.
[3] Cass. Pen., Sez. Un., n. 16153 del 18 gennaio 2024.
[4] Legge 20 giugno 1952, n. 645.
[5] Cass. Pen., sentenza n. 4534 del 06 dicembre 2021.
[6] Estensione dell’elenco dei reati riconosciuti dall’UE all’incitamento all’odio e ai reati generati dall’odio. Risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2024 «Estendere l’elenco dei reati riconosciuti dall’UE all’incitamento all’odio e ai reati generati dall’odio» (2023/2068(INI)) (C/2024/5733).
[7] Decisione quadro 2008/913/GAI, del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale.
[8] ERBAKAN c. TURQUIE (Ricorso no 59405/00). Cfr., HANDYSIDE v. THE UNITED KINGDOM (Ricorso no. 5493/72) e Gündüz v. Turkey (Ricorso no. 35071/97).
[9] BEIZARAS AND LEVICKAS v. LITHUANIA (Ricorso no. 41288/15).
[10] Garaudy v. France (Ricorso no. 65831/01).
[11] M’Bala M’Bala v. France (Ricorso no. 25239/13): Il protagonista, il noto comico francese sig. Dieudonné, durante uno spettacolo tenutosi nel 2008 a Parigi, aveva invitato sul palco Robert Faurisson, un noto negazionista dell’Olocausto. Durante l’evento, Faurisson ricevette un premio ironico da un individuo vestito con l’uniforme di un deportato e con una stella gialla cucita sui vestiti. L’episodio fu interpretato come una banalizzazione dell’Olocausto e un atto offensivo nei confronti delle vittime della Shoah.
[12] Regolamento (UE) 2024/1689 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 giugno 2024, che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale e modifica i regolamenti (CE) n, 300/2008, (UE) n, 167/2013, (UE) n, 168/2013, (UE) 2018/858, (UE) 2018/1139 e (UE) 2019/2144 e le direttive 2014/90/UE, (UE) 2016/797 e (UE) 2020/1828 (regolamento sull’intelligenza artificiale)

Mariella Spata

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