I C.D. MUTUI ANTIUSURA DOPO LA LEGGE 28 FEBBRAIO 2001, N. 24 Il primo comma dell’art. 1 del suddetto decreto, introducendo la c.d. “interpretazione autentica” della legge antiusura prevede che, “ai fini dell’applicazione dell’art. 644 del codice penale e dell’art. 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.
Il commi 2° e 3° (così come novellati dalla legge n. 24/2001), inoltre, stabiliscono che, “salvo diversa pattuizione più favorevole per il debitore”, in considerazione della forte riduzione dei tassi intervenuta in Italia e in Europa a partire dal 1998, avente carattere strutturale, agli interessi previsti a tasso fisso più elevato, per le rate con scadenza a decorrere dal 3 Gennaio 2001, subentri un “tasso di sostituzione”, pari al valore medio per il periodo gennaio 1986-ottobre 2000 dei rendimenti lordi dei Btp “con vita residua superiore ad un anno”;. Tale valore medio risulta pari all’8% per i mutui ovvero quote di mutui di importo originario non superiore a 150 milioni di lire (…) accesi per l’acquisto o la costruzione di abitazioni, diverse da quelle rientranti nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9. Si aggiunge, inoltre, che tale sostituzione non ha efficacia novativa, non comporta spese a carico del mutuatario e si applica alle rate che scadono successivamente al 2 gennaio 2001; è previsto, infine, un tasso del 9,96% per gli altri mutui contratti dalle persone fisiche e, parimenti, dalle imprese.
Infine, il 4° comma del medesimo articolo, prevede che il “tasso di sostituzione” non si applichi “ai finanziamenti ed ai prestiti concessi o ricevuti, in essere alla data di entrata in vigore del decreto” dalle Pubbliche Amministrazioni.
La conversione del provvedimento è avvenuta dopo un iter parlamentare piuttosto difficile ed a seguito di numerose ed accese polemiche, iniziate con il varo da parte del Consiglio dei Ministri del Decreto legge n. 394 del 29/12/2000 (pubblicato sulla G.U. n. 303, Serie generale, del 30/12/2000).
La versione originaria del decreto prevedeva un “tasso di sostituzione” al 12,21% che aumentava, in virtù di una maggiorazione dello 0,50%, al 12,71% per le imprese, ma, in seguito, numerose sono state le modifiche apportate a tale decisione.
Fin dall’arrivo del provvedimento in Aula, al Senato, infatti, si sono avute le prime difficoltà (circa settanta sono stati gli emendamenti presentati) nel contemperare le diverse esigenze in gioco: quelle dei consumatori, da un lato e quelle del sistema bancario, dall’altro. Nonostante la spaccatura in seno alla stessa maggioranza (che non ha avuto il placet del Verdi), il 31 gennaio 2001 il decreto ha ottenuto il via libera da Palazzo Madama che ha però mutato il tasso di sostituzione originariamente previsto fissandone uno nuovo al 9,96% (con una riduzione all’8% per i mutui fino a 150 milioni per case non di lusso) e prevedendo una maggiorazione all’11,46% per le imprese.
La decisione del Senato è stata oggetto di forti critiche da parte dell’Abi che ha ritenuto insostenibili gli oneri (circa 3900 miliardi in termine di mancati ricavi) derivanti da tali manovre per il sistema bancario ed ha invitato il Parlamento a riconsiderare la questione.
Il 21 febbraio 2001 il decreto in esame è poi passato al vaglio della Camera dove, per un “incidente” (alcuni deputati della maggioranza si erano assentati dall’aula) è stato approvato un emendamento dell’opposizione che ha poi costretto alla terza lettura al Senato, nonostante l’imminente scadenza del decreto prevista per il 28 febbraio. In particolare, l’emendamento di Rifondazione Comunista (approvato con uno scarto di soli due voti) ha proposto l’eliminazione della maggiorazione del tasso di riconversione dei mutui previsto per le imprese (11,46%) e la sua equiparazione a quello previsto per la generalità delle famiglie (9,96%).
Proprio l’ultimo giorno di febbraio ha visto l’approvazione del testo da parte del Senato così come modificato dalla Camera, fissando, definitivamente il tasso di sostituzione all’8% per i mutui prima casa (fatta eccezione per le abitazioni di lusso, le ville e i castelli) fino a 150 milioni, che sale al 9,96% per gli altri mutui contratti sia dalle imprese sia dalle famiglie; questa decisione, tuttavia, comporterà ulteriori costi per il sistema bancario che dovranno subire una maggiorazione di circa 1500 miliardi.
Il provvedimento si applica ai mutui accesi prima dell’aprile 1997, data in cui è diventata operativa la legge n. 108/1996; per la rinegoziazione dei mutui non sono previste spese a carico del mutuatario e, inoltre, il tasso di sostituzione si applica a partire dalle rate con scadenza 3 gennaio 2001. Non è contemplata, infine, nessuna restituzione per il periodo pregresso 1997-2000.
2) Questa, dunque, è la situazione attuale in virtù dell’intervento del legislatore resosi necessario a causa dell’emanazione di una sentenza da parte della I Sezione della Corte di Cassazione n. 14899/2000, depositata il 17 Novembre 2000, con cui il Supremo Collegio, aderendo ad un consolidato orientamento dottrinario e giurisprudenziale (cfr. C.C. Sez. I n. 5286/2000; C.C. Sez. III n. 1126/2000; C.C. Sez. I Penale n. 11055/1998), ha decretato l’applicazione della Legge 7 Marzo 1996 n. 108, recante “Disposizioni in materia di usura”, anche ai rapporti di mutuo stipulati anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge. In particolare, la Suprema Corte, nella citata sentenza, ha disposto che “di fronte ad un rapporto fra cittadino e banca che non si è già concluso nel momento dell’entrata in vigore della legge antiusura (perché all’istituto si devono ancora corrispondere le rate di somma capitale e gli interessi), la Corte di merito non poteva escludere radicalmente la rilevabilità d’ufficio della dedotta nullità della clausola del contratto relativa agli interessi, solo perché la pattuizione era intervenuta in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n. 108/1996: al contrario, avrebbe dovuto verificare se detta nullità sussistesse o meno, correlando il convenuto tasso degli interessi alla nuova normativa in tema di mora”.
Nella citata sentenza, inoltre, si richiamano i principi enunciati dalla medesima Corte con le recenti sentenze n. 5286/2000 del 22 aprile 2000 e n. 1126/2000 del 2 febbraio 2000: in particolare, con la prima (in tema di interessi moratori per scoperto di conto corrente, ma con argomenti di carattere generale) si è affermato che “la pattuizione di interessi a tasso divenuto usurario a seguito della legge 108/1996 è nulla anche se compiuta in epoca antecedente all’entrata in vigore di detta legge”; questo perché, prosegue la Corte, “l’obbligazione degli interessi non si esaurisce in una sola prestazione, concretandosi in una serie di prestazioni successive e ai fini della qualificazione usuraria degli interessi, il momento rilevante è la dazione e non la stipula del contratto come si evince anche dall’art. 644- ter c. p. (introdotto dall’art. 11 L. 108/1996)”.
La seconda sentenza, la n. 1126/2000, infine, ha affermato che “si può ben ritenere che la sopravvenuta legge 108/1996, di per sé evidentemente non retroattiva e dunque insuscettibile di operare rispetto agli anteriori contratti di mutuo, sia di immediata applicazione nei correlativi rapporti, limitatamente alla regolamentazione di effetti ancora in corso e, quindi, alla corresponsione degli interessi. Non si può insomma far proseguire una pattuizione di interessi che siano eventualmente usurari, di fronte ad un principio introdotto nel nostro ordinamento con valore generale ed assoluto”.
Tali sentenze, dunque, assumono notevole rilevanza in ordine all’individuazione del momento consumativo dell’illecito civile e penale previsto dalla legge n. 108/1996, il cui art. 1, comma 1, innovando l’art. 644 c.p., ha previsto la reclusione da uno a sei anni o la multa da lire sei milioni a lire trenta milioni per chiunque si faccia “dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari”. La stessa pena è poi prevista per “chi fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro od altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario”.
Il 3° e il 4° comma dello stesso articolo si preoccupano, poi, di individuare gli interessi c.d. “usurari”, prevedendo che: “La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Sono altresì usurari gli interessi che, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria” (…).
A norma dell’art. 2, comma 1, della medesima legge, inoltre, “Il Ministero del Tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari, nel corso del trimestre precedente per operazioni della stessa natura”; in seguito a tale rilevazione, i valori medi ottenuti, corretti in base alle “eventuali variazioni del tasso ufficiale di sconto successive al trimestre di riferimento, sono pubblicati senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale”.
Il successivo comma 4, poi, prevede che il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, “è stabilito nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà”.
Molta importanza assume, infine, un’ulteriore modifica apportata dalla legge n. 108, e cioè quella relativa al 2° comma dell’art. 1815 del codice civile (interessi dei mutui), in cui si legge che “se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”; ciò implica, pertanto, che in nessun caso è legittima la percezione o la pretesa di interessi il cui tasso superi la soglia trimestrale rilevata dal Ministero del Tesoro agli effetti della legge 108/1996 che mira alla tutela dell’interesse collettivo del debitore da esposizioni alla levitazione incontrollata dei tassi, vista la sua posizione di contraente debole.
A questo punto, risulta chiaro il contrasto esistente tra il contenuto del decreto – legge, emanato dal Governo, e le precedenti pronunce della Corte di Cassazione messo in luce soprattutto dalle associazioni dei consumatori che hanno chiesto la rinegoziazione dei tassi senza oneri per i cittadini, a differenza di quanto sostenuto dalle banche che si sono battute per l’inapplicabilità della legge antiusura ai contratti stipulati prima della sua entrata in vigore.
3) Tralasciando quelle che sono le necessarie considerazioni di ordine politico e sociale, tuttavia, è opportuno leggere la questione anche nell’ottica della scienza del diritto e occorre, pertanto, interrogarsi preliminarmente sul significato di “interpretazione autentica” contenuta nel decreto che è stato fin qui esaminato.
Si afferma, notoriamente, in proposito, che tale tipo di interpretazione è quella posta in essere dal potere legislativo che, di fronte alle dispute insorte sulla ricostruzione dell’intenzione del legislatore, impone la sua. Si tratta, dunque, di una nuova legge che si rivolge a tutti i cittadini e che ha effetto retroattivo fino al momento in cui è stata emanata la norma che viene chiarita ed integrata dal nuovo atto di volontà legislativa. Tuttavia, è un istituto, elaborato dalla dottrina e di cui, del resto, non vi è alcuna traccia né nelle leggi ordinarie né nella nostra Costituzione, a differenza di quanto previsto dallo Statuto Albertino che, nel 1848, al suo art. 73, stabiliva che “l’interpretazione delle leggi, in modo per tutti obbligatorio”, spettasse “esclusivamente al potere legislativo”[1][1][1][1].
In tal senso si esprime parte della dottrina, che afferma: “La Costituzione della Repubblica non contiene, come lo Statuto Albertino, nell’art. 73, una norma che disciplina l’interpretazione autentica.Tuttavia è compatibile con la Costituzione l’emanazione da parte del legislatore, di un’apposita legge interpretativa, per precisare in modo obbligatorio il significato di una legge che sia risultata di difficile interpretazione (cfr. C.C. 22 Gennaio 1957, n. 168). L’attività interpretativa del legislatore ha carattere eccezionale, e va espressa in modo esplicito” (RESCIGNO).
L’assenza di limiti relativi all’attività interpretativa del legislatore, tuttavia, non deve trasformarsi in mero arbitrio, giacché “il legislatore può sempre riformare la disciplina vigente, modificando la legge anteriore; non può, però, dirsi che faccia ugualmente buon uso della sua potestà il legislatore che si sostituisca al potere cui è riservato il compito istituzionale di interpretare la legge, dichiarandone mediante altra legge l’autentico significato con valore obbligatorio per tutti e, quindi, vincolante anche per il giudice, quando non ricorrano quei casi in cui la legge anteriore riveli gravi ed insuperabili anfibologie o abbia dato luogo a contrastanti applicazioni, specie in sede giurisprudenziale” (cfr. C. Cost. n. 187/1981).
A conferma di tale orientamento, la Corte Costituzionale ha recentemente chiarito (cfr. C. Cost. n. 525/2000) e ribadito i limiti posti all’attività interpretativa del legislatore: in particolare, la Corte ha precisato che “il legislatore può adottare norme che precisino il significato di altre disposizioni legislative non solo quando sussista una situazione di incertezza nell’applicazione del diritto o vi siano contrasti giurisprudenziali, ma anche in presenza di un indirizzo omogeneo della Corte di Cassazione, quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore (v., tra le altre, le sentenze n. 311/1995 e n. 397/1994 e l’ordinanza n. 480/1992). In proposito questa Corte ha individuato, oltre alla materia penale, altri limiti, che attengono alla salvaguardia di norme costituzionali (v., ex plurimis, le citate sentenze n. 311/1995 e n. 397/1994), tra i quali principi generali di ragionevolezza e di uguaglianza, quello della tutela dell’affidamento legittimamente posto sulla certezza dell’ordinamento giuridico, e quello del rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ciò che vieta di intervenire per annullare gli effetti del giudicato o di incidere intenzionalmente su concrete fattispecie sub iudice)”.
La Corte ha analizzato, infine, il principio dell’affidamento del cittadino, che “quale elemento essenziale dello Stato di diritto, non può essere leso da norme con effetti retroattivi che incidano irragionevolmente su situazioni regolate da leggi precedenti (v. le sentenze n. 416/1999 e n. 211/1997); tale principio deve valere anche in materia processuale, dove si traduce nell’esigenza che le parti conoscano il momento in cui sorgono oneri con effetti per loro pregiudizievoli, nonché nel legittimo affidamento delle parti stesse nello svolgimento del giudizio secondo le regole vigenti all’epoca del compimento degli atti processuali (cfr. sentenza n. 111/1998)”.
Da ultimo, sempre in tema di interpretazione autentica, occorre ricordare la recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 425 del 17 novembre 2000 che ha dichiarato illegittimo l’art. 25 del Decreto lgs. n. 342/1999 sulla capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici in questi precisi termini: (omissis)” Non si tratta, evidentemente di una norma interpretativa (autentica) – che pure era stata suggerita nel corso dei lavori parlamentari (seduta del 17 giugno 1999 della sesta Commissione: pag. 35 del relativo verbale) perché la disposizione, così come strutturata, non si riferisce e non si salda a norme precedenti intervenendo sul significato normativo di queste, dunque lasciando intatto il dato testuale ed imponendo una delle possibili opzioni ermeneutiche già ricomprese nell’ambito semantico della legge interpretata”.
Ma vi è di più: occorre rilevare l’ulteriore problema, evidenziato dalla citata sentenza della Corte Costituzionale del 1981, dello “sviamento strumentale della funzione legislativa”, consistente nel “ricorso allo strumento della legge interpretativa per porre il vizio rilevato dall’organo di controllo al riparo da tale controllo”. Si tratta di un concetto preso in prestito dal diritto amministrativo laddove si parla di “sviamento di potere” sia nel caso in cui la Pubblica Amministrazione usi un potere discrezionale per un fine diverso da quello per cui le era stato conferito, sia nel caso in cui la P.A. persegua l’interesse pubblico, ma con potere diverso da quello previsto a tal fine dalla legge.
Nella fattispecie in esame, quindi, potrebbe ravvisarsi un conflitto di attribuzione così come previsto dall’art. 134 Cost., a norma del quale “La Corte Costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni” (…). In particolare, se è vero che una legge interpretativa non rappresenta, di per sé sola, un’interferenza nella sfera del potere giudiziario e che non può considerarsi lesiva di tale ambito qualora rispetti i giudicati e non appaia mossa dall’intento di interferire nei giudizi in corso, è pur vero che l’utilizzo dello strumento interpretativo in ipotesi di non manifesta incertezza circa il significato di una legge, costituisce, senza dubbio, un caso di sviamento strumentale della funzione legislativa, così come delineato dalla Corte Costituzionale nel 1981.
Inoltre, appare necessario rilevare l’ulteriore conflitto con gli artt. 101 Cost., che assoggetta i giudici esclusivamente alla legge; 102 Cost., che attribuisce l’esercizio della funzione giurisdizionale “ai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”; 104 Cost., a norma del quale “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, ivi compreso quello legislativo.
E’ necessario, pertanto, che l’attività legislativa rimanga racchiusa entro i limiti per essa stabiliti dal Costituente e dal disposto dell’art. 12 delle preleggi a norma del quale “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dall’intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.
4) L’art. 1 del decreto in esame, comunque, è stato oggetto di una questione di legittimità costituzionale (in relazione agli artt. 3, 24, 47 e 77), sollevata dal Tribunale Ordinario di Benevento, nella persona del Giudice unico, Dott. Flavio Cusani. Con ordinanza del 30/12/2000, depositata il 2/1/2001, infatti, il citato Tribunale ha assunto come violati: l’art. 3 della Costituzione (principio di uguaglianza) “in quanto l’impugnato provvedimento contraddittoriamente ed irragionevolmente riserva un ingiustificato favore per le banche e gli altri enti creditizi che abbiano commesso usura a danno di coloro che in passato, indiscriminatamente sia prima sia dopo il marzo 1996, hanno contratto mutui alle condizioni dettate dal cartello bancario, i quali non possono più avvalersi delle disposizioni della legge n.108/1996 e quindi della nullità delle clausole con le quali sono state convenuti interessi usurari e consequenzialmente del disposto di cui agli artt. 1339 e 1815, comma 2, c.c.”; l’art. 24 Cost. (diritto di difesa) “atteso che tutti coloro, probabilmente non molti, che hanno avuto la forza, il coraggio e l’intuito giuridico di opporsi in un giudizio contro le banche si vedono lesi nel diritto alla tutela giurisdizionale nella quale avevano confidato in base al diritto vigente all’epoca della domanda”; l’art. 47 Cost. (tutela e valorizzazione del risparmio) “poiché con l’impugnato decreto legge, con un deciso mutamento di rotta rispetto alle vigenti leggi antiusura e a tutela del consumatore, non si protegge il piccolo risparmiatore né si incoraggia l’accesso al credito e alla proprietà dell’abitazione, alla quale notoriamente il lavoratore può anelare solo contraendo un mutuo; viceversa si tutela la condotta dei banchieri più arroganti che non si sono fatti carico, da contraenti forti, né al momento della stipula dei contratti di mutuo, né nell’esecuzione degli stessi, della prevedibile evoluzione in senso usurario degli effetti delle convenzioni sugli interessi, come doverosamente erano tenuti a fare in base all’ordinamento e segnatamente subito dopo l’entrata in vigore della legge 108/1996”; l’art. 77 (presupposti di necessità e urgenza) “ per carenza dei presupposti alla base della decretazione”.
Da parte loro, le associazioni dei consumatori, prima che il decreto fosse convertito, avevano sottoscritto un documento unitario con cui richiedevano al Governo l’immediato ritiro del decreto legge perché ritenuto iniquo ed incostituzionale. Proponevano, peraltro, l’apertura di un negoziato con il Governo sull’intera vicenda sollecitando: 1) la riduzione del tasso sulla parte residua del mutuo al di sotto delle attuali soglie usurarie; 2) l’integrale rimborso dell’indebito sulle rate pregresse; 3) la rinegoziazione a costo zero; 4) le garanzie per i consumatori per far valere le proprie ragioni in giudizio; 5) una maggiore trasparenza nel credito con l’applicazione del tasso effettivo globale a tutte le operazioni.
Nonostante le numerose mobilitazioni delle stesse associazioni, tuttavia, da parte del Governo non solo si è proceduto alla conversione del decreto, ma ci si è schierati contro l’introduzione di criteri di retroattività nel decreto sui mutui usurari. A tal proposito, infatti, il Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, il Ministro del Tesoro, Vincenzo Visco, e il Ministro della Giustizia, Piero Fassino, hanno diramato un comunicato con il quale hanno chiarito le motivazioni che hanno portato all’emanazione del decreto: quest’ultimo, a detta del Governo, si sarebbe reso necessario a causa dell’urgenza di garantire riferimenti certi sia ai cittadini sia al sistema finanziario; inoltre, occorreva fronteggiare la situazione di squilibrio originata dalla brusca e strutturale discesa dei tassi che, a sua volta, ha provocato un’improvvisa caduta della soglia di legge prevista per la determinazione dei tassi usurari, creando un differenziale che, al momento in cui fu emanata la legge antiusura, non poteva essere previsto. Il decreto si è reso necessario, inoltre, anche per “assicurare l’invarianza dei rendimenti dei titoli del debito pubblico, altrimenti esposti ad un obbligo di revisione determinando il venir meno del patto stipulato con i sottoscrittori, vulnerando le loro aspettative e producendo una pericolosa perdita di credibilità del debito pubblico italiano sui mercati internazionali”.
In seguito a tale comunicato, tuttavia, le critiche da parte delle associazioni dei consumatori, si sono fatte sempre più aspre: in particolare, a parere dell’ADUSBEF, con tale decreto il Governo si sarebbe schierato dalla parte delle banche e a difesa dell’illegalità e, a tal proposito, ha minacciato ricorsi in tutti i Tribunali italiani per difendere i principi fondanti di uno stato di diritto, che devono valere per tutti i cittadini. In particolare, si è richiamata l’attenzione sull’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del d.l. 29/12/2000, n. 394 che risulta in contrasto con l’orientamento della Giurisprudenza (sulla disciplina antiusura) sia penale (cfr. C.C. Sez. I Penale, 22 ottobre 1998, n. 11055) sia civile (cfr. C.C., Sez. I Civile, 17 novembre 2000, n. 14899; C.C., Sez. I Civile, 22 aprile 2000, n. 5286; C.C., Sez. III Civile, 2 febbraio 2000, n. 1126), ma anche con l’orientamento uniforme dei Giudici di merito i quali sanzionano il principio dell’applicabilità della Legge 108/1996 in relazione al momento in cui gli interessi devono essere corrisposti, tenendo conto delle norme vigenti in materia di usura nel momento in cui si procede al pagamento delle rate di mutuo comprensive di interessi (cfr. C.C. 5286/2000; 11055/1998).
Ancora, secondo l’ADUSBEF, l’art. 1 del decreto n. 394/2000 violerebbe l’art. 3 della Costituzione relativo ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza poiché, prevedendo quale tempus commissi delicti il momento della conclusione del contratto di mutuo, provocherebbe un’irragionevole disparità di trattamento nei confronti di coloro i quali abbiano stipulato un contratto analogo ma in data anteriore all’entrata in vigore della L. 108/1996, la quale, invece, fu introdotta proprio per tutelare il contraente debole in considerazione della particolarità del rapporto caratterizzato da condizioni economiche fisse e prestabilite al momento della definizione della contratto; nei rapporti di durata, al contrario, quale è quello di mutuo, riveste enorme importanza, nella determinazione degli interessi, il fattore “tempo” e, di conseguenza, ogni avvenimento che possa avere una certa influenza sui medesimi interessi e che non è in alcun modo prevedibile (seppur determinante) al momento della pattuizione originaria.
Del resto, a parere di chi scrive, questo concetto può essere riconsiderato alla luce di quanto previsto dall’art. 1467 c.c. in tema di eccessiva onerosità nel contratto a prestazioni corrispettive, in cui si afferma: “Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto (…). La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.
L’art. 1 del decreto in esame, inoltre, sempre secondo l’ADUSBEF, sarebbe in contrasto con l’art. 47 della Costituzione, relativo alla “tutela del risparmio in tutte le sue forme”: la funzione istituzionale delle banche, infatti, è quella dell’intermediazione nell’uso del risparmio e, pertanto, il mancato adeguamento delle condizioni contrattuali alla sopravvenuta normativa ha, senza dubbio, penalizzato i soggetti i cui contratti siano antecedenti alla legge antiusura.
In seguito alla conversione del decreto, le associazioni dei consumatori, che non si sono viste riconoscere il diritto alla restituzione degli interessi già pagati e caratterizzati da un tasso superiore a quello antiusura, non hanno deposto le armi: l’ADUSBEF ha annunciato, infatti, il ricorso alla Corte Costituzionale “per la restituzione del maltolto e per far affermare principi di legalità da parte di un sistema bancario che ha violato la legge 108/96”. In particolare, la suddetta associazione afferma che il Governo e la maggioranza “hanno dimenticato che la Costituzione vieta di dare interpretazioni autentiche alle leggi vigenti passate al vaglio della Corte di Cassazione”.
L’ADUSBEF, infatti, è dell’avviso di sollevare questione di illegittimità costituzionale del citato articolo per contrasto con gli artt. 3, 24, 101, 102, 104 Cost. per violazione dei limiti costituzionali al potere del legislatore di emanare disposizioni interpretative. Al riguardo, si richiama la sentenza della Corte Costituzionale 12 luglio 1995 n. 311, a norma della quale “la legge di interpretazione autentica deve rispondere alla funzione che le è propria: quella di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale sia al fine di eliminare eventuali incertezze interpretative (cfr. C. Cost. n. 163/1991; n. 413/1988) sia per rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea di politica del diritto perseguita dal legislatore (cfr. C. Cost. n. 6/1994; n. 397/1994; n. 424/1993; n. 402/1993; n. 455/1992; n. 454/1992).
Per definire una norma “interpretativa”, si aggiunge, occorre che essa chiarisca il senso di norme preesistenti, ovvero imponga una delle possibili varianti di senso conciliabili con il tenore letterale, ovvero elimini eventuali incertezze interpretative o risolva i contrasti in caso di interpretazioni giurisprudenziali contrastanti; nel caso specifico, tuttavia, non ricorre nessuna di queste ipotesi, chè, anzi, vige un uniforme indirizzo interpretativo ad opera della Giurisprudenza di legittimità che propende per la coincidenza del momento consumativo dell’illecito usurario con la riscossione dell’interesse e non, al contrario, con quello della convenzione del medesimo. Del resto, si sostiene, lo stesso articolo 644- ter c.p. (previsto dalla legge n. 108/1996), prevede che “la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale”.
A conferma di quanto sopra, le citata associazione richiama, ancora una volta, la sentenza della Corte Costituzionale n. 311/1995 in cui si afferma che: “La sovrana volontà del legislatore nell’emanare delle leggi (in tema di interpretazione autentica) incontra una serie di limiti, che questa corte ha da tempo individuato, e che attengono alla salvaguardia, oltre che di norme costituzionali, di fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento (cfr. C. Cost. n. 6/1994; n. 397/1994; n. 283/1993; n. 424/1993; n. 429/1993; n. 440/1993); la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto (cfr. C. Cost. n. 6/1994; n. 397/1994; n. 429/1993; n. 822/1988), e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario”. L’art. 1 del decreto legge n. 394, quindi, avrebbe svolto una funzione prettamente giurisdizionale, sostituendosi all’autorità giudiziaria nel contenzioso tra banche e clienti e privando, quindi, il cittadino della possibilità di tutelare i propri diritti ed interessi legittimi (ex art. 24 Cost.) dinanzi alla medesima autorità; ancora, risulterebbe violato l’art. 102 Cost., a norma del quale “la funzione giurisdizionale è esercitata da Magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”, ma anche il successivo articolo 104 Cost. che prevede l’indipendenza e l’autonomia della Magistratura.
Infine, si evidenzia come il citato art. 1 del decreto, interpretando la legge n. 108/1996 con specifico riferimento all’unica categoria dei mutui (circostanza che si evince dal riferimento all’art. 1815 c.c.), abbia dato effetto ad un contrasto con la norma generale, integrando, esso, una disposizione speciale che deroga alla ratio ed alla disciplina della legge del 1996 laddove prevede che per il passato, vale a dire per gli interessi maturati sotto la vigenza della legge antiusura e anteriormente all’entrata in vigore del decreto, si affermi la liceità delle prestazioni per interessi sui mutui a tasso fisso; tale situazione risulta, quindi, in contrasto con il generale principio di coerenza proprio dell’ordinamento (cfr. C. Cost. n. 204/1982), e causa un’ingiusta discriminazione nei confronti di coloro i quali abbiano pagato, sotto la vigenza della legge n. 108, interessi usurari. Appare, dunque, violato il principio di ragionevolezza previsto dall’art. 3 Cost. poiché una norma generale ritenuta valida è stata derogata ingiustificatamente da una disciplina particolare (cfr. C. Cost. n. 464/1983).
La conversione del decreto, comunque, ha provocato critiche pesanti anche da parte dell’Abi, seppur per motivi differenti. Tale associazione, infatti, ha riconfermato “il proprio giudizio contrario alla parte della legge sui mutui relativa alla fissazione di imperio dei tassi di rinegoziazione”, ed ha aggiunto che “le soluzioni definitivamente individuate dal Parlamento sono state determinate da un particolare clima e non hanno tenuto conto della natura di impresa propria della banca e delle regole fondamentali del mercato. Per le banche si determina un costo pesante. L’Associazione bancaria, alla luce della nuova legge, valuterà tutte le iniziative più opportune da adottare sia sul fronte interno che su quello comunitario” preannunciando un ricorso alla Corte di giustizia Europea.
5) Ci troviamo al cospetto, quindi, di una situazione caratterizzata da una grossa confusione ed incertezza, che è resa maggiormente complessa dagli opposti e contrastanti interessi in gioco: da una parte, quelli dei consumatori, che rivendicano il diritto alla tutela del risparmio e all’esercizio del credito (ex art. 47 Cost.), dall’altra, quelli delle banche le quali, pur trattandosi di interessi imprenditoriali da tutelare paventano ingenti perdite ed anche squilibri nel rapporto con le esigenze concorrenziali anche a livello europeo, specie in previsione della normativa comunitaria specifica e della prossima entrata in vigore della moneta unica europea.
Comunque, porre dei limiti al potere legislativo, non sembra sufficiente affinché, nel caso specifico, siano pienamente tutelati i diritti dei consumatori nei rapporti con gli istituti bancari. Occorrerebbe, forse, ad avviso di chi scrive, una riconsiderazione delle relazioni intercorrenti tra banca e utente, in particolare in relazione ad un rapporto tanto delicato quale è quello di mutuo. Quest’ultimo, infatti, a norma del codice civile (art. 1813), è il contratto mediante il quale “una parte (mutuante) consegna all’altra (mutuatario) una determinata quantità di denaro o di altre cose fungibili, e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità”, e può essere richiesto per acquisto, costruzione o ristrutturazione di un immobile ovvero per esigenze di liquidità. Le relative procedure di concessione e di erogazione variano in base alla finalità per cui il mutuo è richiesto, ma anche in base alle caratteristiche del soggetto erogatore: di norma, l’Ente mutuante è un Istituto di Credito fondiario, una Banca o una Società finanziaria.
Si tratta, quindi, di un rapporto caratterizzato, da una differente posizione delle parti contraenti, attesa la necessità economica dell’una (il cliente) e la fisiologica attività imprenditoriale dell’altra (l’ente erogatore).
Certo, numerosi passi avanti sono stati fatti, negli ultimi anni, affinché i rapporti tra banca e utente fossero maggiormente chiari e paritari e, soprattutto, in linea con i canoni imposti dalla Comunità Europea (primo fra tutti quello della libera concorrenza). Evidentemente, però, ancora molto deve farsi affinché i diritti dei consumatori siano realmente tutelati in modo pieno e completo; auspicandosi, comunque, al riguardo, nuovi interventi, anche a livello legislativo, tali da ricondurre i rapporti tra gli istituti di credito e i privati almeno ad un reale ed effettivo equilibrio.
Allo stato, quindi, appare abbastanza evidente come le esigenze economiche siano alla base delle dispute poste in essere dai consumatori, da un lato, e dalle banche e dal Governo, dall’altro.
Invero, fatta eccezione per l’ADUSBEF – la quale ha incidentalmente posto l’attenzione sul problema dell’interpretazione autentica – sembra prevalere un approccio di tipo economico mirante al soddisfacimento delle contrapposte tesi delle parti in causa.
Si è spostato, in tal modo, a parere di chi scrive, l’asse della questione, non tenendo conto di quello che sembra, invece, il suo nucleo centrale.Vale a dire quello di una probabile interferenza del potere legislativo nella sfera di quello giudiziario a scapito di un principio fondamentale della nostra Costituzione che riconosce, al contrario, la netta separazione dei poteri. Occorrerebbe, pertanto, una riconsiderazione dell’intera vicenda sotto quest’aspetto ed un suo attento esame sotto il profilo della legittimità costituzionale.
Marzo 2001
Prof. Dott. Angelo Sodo
Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione (a.r.)
Presidente della Commissione tributaria regionale della Puglia (Sez. stac. Lecce)
Docente del Corso di Perfezionamento di Diritto Tributario presso l’Università di Bari
Dott. Rita Sodo
Dottore in giurisprudenza Università Statale di Milano
[1] Tutto ciò, naturalmente, trovava la sua giustificazione nei principi cardine del medesimo Statuto che costituiva la “legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia” e che, pertanto, era l’espressione del potere del sovrano, il re Carlo Alberto di Savoia, il quale deteneva quasi tutto il potere politico, conservava intero quello esecutivo e il comando delle forze armate, riservava a sé il controllo sull’indirizzo politico del Governo, e quello, ancora, di nominare e revocare i ministri. Per quanto riguarda il potere legislativo, poi, il sovrano si attribuiva il potere di “sanzionare” le leggi (ossia di approvarle) decretando, in tal modo, la propria partecipazione diretta a quello legislativo).
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento