I capi e/o i punti della decisione: alcune perplessità sulla forma dell’impugnazione

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Abstract: L’art. 581 comma I° lettera a) del codice di procedura penale reca, tra i requisiti che l’atto d’impugnazione deve possedere al fine di poter essere ritenuto ammissibile, quella dei “capi o dei punti della decisione” ai quali si riferisce. Nonostante gli sforzi della dottrina e della giurisprudenza di disegnare contorni nitidi a tali concetti, essi appaiono all’occhio dell’interprete ancora sfuggenti e di difficile definizione.

D’altro canto, la L. 103 del 2017 (cd. Riforma Orlando), recentemente intervenuta sul dettato normativo, non ha affatto risolto le perplessità in materia, anzi: grazie all’introduzione della sanzione dell’inammissibilità, i dubbi si sono trasformati in vere e proprie “paure” che costringono la sostanza all’interno della forma, tanto da arrivare, sovente, a sopprimerla.

Alla luce di queste novità, i margini di manovra si riducono di molto per l’operatore, soprattutto laddove si aggiunga a vincoli maggiormente pressanti un già presente sostrato normativo di incerto inquadramento: vie sempre più strette si sommano ad un terreno ancora troppo scivoloso.

 

Sommario: 1. Premessa: la Riforma Orlando e il principio del tantum devolutum quantum appellatum. – 2. I capi, i punti e la congiunzione disgiuntiva: termini di una questione (ir)risolta. – 3. Il ruolo dei motivi nelle impugnazioni. – 4. Il criterio formalistico e i metodi di redazione della sentenza. – 5. Conclusioni.

Volume consigliato

Le nuove impugnazioni penali dopo il D.LGS. 11/2018

Con formulario e giurisprudenza, aggiornata al D.Lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 (G.U. n. 41 del 19 febbraio 2018), di riforma della disciplina in materia di giudizi di impugnazione (in attuazione della L. 103/2017), l’opera è un indispensabile manuale operativo per quanti alle prese con il processo penale. Il testo è una guida sicura per determinare il miglior modo di procedere e gli errori da evitare nell’ambito di una disciplina connotata da un elevato tecnicismo e oggetto di significative modifiche ad opera della novella di cui al D.Lgs. 11/2018.Il taglio è eminentemente pratico, di rapida, chiara e agile comprensione. Si privilegiano gli aspetti processuali attraverso i seguenti apparati:tabelle di sintesi e schemi a lettura guidata che evidenziano i punti salienti di ogni questione problematica;tabelle di raffronto tra la vecchia e la nuova disciplina;rassegna organica e ragionata delle massime giurisprudenziali più significative per argomento;ricco corredo di formule, tutte seguite da numerose avvertenze, senza trascurare alcuno degli accorgimenti da osservare nella loro predisposizione.La coerente sequenza di testo, schemi esplicativi/riassuntivi, massime giurisprudenziali e formule garantisce al professionista uno strumento immediatamente spendibile nella pratica quotidiana. Paolo Emilio De Simone, Magistrato dal 1998, dal 2006 è in servizio presso la prima sezione penale del Tribunale di Roma, in precedenza ha svolto le sue funzioni presso il Tribunale di Castrovillari, poi presso la Corte di Appello di Catanzaro, nonché presso il Tribunale del Riesame di Roma. Dal 2016 è inserito nell’albo dei docenti della Scuola Superiore della Magistratura, ed è stato nominato componente titolare della Commissione per gli Esami di Avvocato presso la Corte di Appello di Roma per le sessioni 2009 e 2016. È autore di numerose pubblicazioni, sia in materia penale sia civile, per diverse case editrici.Roberta Della Fina, Magistrato attualmente in tirocinio presso il Tribunale di Roma, laureata presso l’Università del Piemonte Orientale e specializzata presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali di Torino.

Paolo Emilio De Simone – Roberta Della Fina | 2018 Maggioli Editore

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  1. Premessa: la Riforma Orlando e il principio del tantum devolutum quantum appellatum.

La cd Riforma Orlando, intervenuta (tra le altre cose) sul regime delle impugnazioni nel processo penale, ha modificato l’art. 581 del codice di rito disponendo che nell’atto preposto a tal fine debba essere riportata l’enunciazione specifica “a pena di inammissibilità” dei capi o dei punti della decisione ai quali essa si riferisce.

Rispetto al passato, il legislatore ha imposto un cambio di rotta ed un appesantimento dell’onere di specificità della critica nei confronti dell’atto del giudice[1], al precipuo scopo di evitare una sostanziale ripetizione del processo di primo grado[2] nonché un abuso, da parte dei ricorrenti, dei rimedi impugnatori a fini prettamente dilatori[3].

L’inammissibilità dell’impugnazione è stata un elemento sanzionatorio che ha ristretto senz’altro i margini di manovra degli operatori del diritto, i quali erano soliti nel passato impugnare le statuizioni giudiziali in maniera abbastanza lassa, svilendo significativamente la portata del concetto processuale della parziale devoluzione, espresso mediante il noto brocardo tantum devolutum quantum appellatum: il giudice di seconde cure, infatti, non può prendere contezza di tutto il decisum in precedenza per poter assumere una nuova decisione[4].

In altri termini, l’impugnante ha lo specifico onere di evidenziare in maniera precisa quelle che sono le doglianze mosse al provvedimento, non sollevando (più) critiche generiche e dannose nei riguardi del giusto processo, del buon andamento e dell’efficienza dell’amministrazione della giustizia[5].

Ciò precisato, è bene interrogarsi se la sanzione dell’inammissibilità, introdotta dalla L. n. 103 del 2017, sia stata effettivamente realizzata entro i termini più corretti: in altre parole, presa visione del sostrato normativo e giurisprudenziale su cui si innesta, la riforma delle impugnazioni ha fatto davvero quanto di più opportuno al fine di produrre una evoluzione di sistema, o essa è invece intervenuta in maniera poco centrata, determinando di tal guisa una vera e propria “involuzione”, nascente da talune scelte riformatrici poco ponderate nella loro prefigurazione astratta antecedente all’emanazione stessa[6]?.

 

  1. I capi, i punti e la congiunzione disgiuntiva: termini di una questione (ir)risolta.

Il punto di partenza non può che concernere i termini primi della questione, la cui enucleazione e definizione non risulta (almeno ad avviso di chi scrive) né chiara né pacifica.

L’art. 581 comma I° lettera a) del codice di rito vede, tra i presupposti dell’atto d’impugnazione da indicare a pena di inammissibilità, i “capi” o i “punti” della decisione ai quali si intenda riferirsi con lo strumento impugnatorio.

Su questi due estremi le definizioni della dottrina e della giurisprudenza si sono progressivamente affinate ed equiparate[7], fino ad una pressoché unitaria concettualizzazione che definisce per “capo di sentenza” (da riferirsi soprattutto a sentenze plurime o cumulative)  ogni singola statuizione presa con riguardo ad uno dei reati attribuiti all’imputato: il capo dovrebbe costituire, cioè, un atto giuridico completo, “tale da poter costituire anche da solo, separatamente, il contenuto di una sentenza”.

Dall’altra parte, invece, il concetto di “punto della decisione” avrebbe una portata più ristretta, in quanto esso consisterebbe nella tematica generale che il giudice deve affrontare per ottenere una decisione completa su un singolo capo.

Stando a quanto detto, la Suprema Corte pare accogliere una definizione prettamente sostanzialistica dei capi e dei punti della decisione, scevra da ogni riferimento puramente formale: i capi e i punti della decisione sono concetti attinenti al quod, a ciò che il giudice afferma, e non al quomodo, al come organizza e riporta le proprie affermazioni.

Una tale lettura, tuttavia, non pare cogliere appieno il reale significato della disposizione normativa, la quale inserisce tra i “capi” e i “punti” la congiunzione “o”, di non facile lettura.

Ebbene, secondo quanto (ancora) statuisce l’art. 12 delle disposizione preliminari al codice civile[8], compito dell’interprete è quello di effettuare le operazioni ermeneutiche attribuendo alla legge il “significato proprio delle parole”; tuttavia, comprendere il significato da attribuire in questo caso alla vocale “solitaria” non pare così semplice.

Infatti, questa può assumere un senso quantomeno duplice, a seconda del contesto in cui è inserita: può avere valore disgiuntivo, coordinando due o più frasi o parti di una stessa frase o parole, avvertite come alternative che si escludano a vicenda; ma può avere, altresì, valore esplicativo, introducendo così un termine equivalente ed assumendo identico significato delle congiunzioni “cioè”, “ovvero”.

Proprio nei testi giuridici, occorre sottolineare come il significato della congiunzione in oggetto sia spesso mutevole e difficilmente decifrabile, assumendo in egual misura valore esplicativo e disgiuntivo a seconda dei casi. Ne è un esempio l’art. 43 c.p. e la definizione di delitto colposo, ove si trovano riportati in poche battute i molteplici significati della vocale in questione[9].

Quale significato attribuire alla lettera “o” contenuta nell’art. 581 comma I lettera a) c.p.p.? E quali conseguenze scaturiscono da una lettura in un senso piuttosto che in un altro?

Laddove ad essa venisse attribuito valore disgiuntivo ed intesa secondo il senso proprio dell’aut latino, i significati di “capo” e di “punto” che fino ad oggi la giurisprudenza ha fornito non avrebbero più alcun senso. Infatti, a colui che redige l’atto d’impugnazione sarebbe richiesto dal dettato normativo di indicare i capi o i punti, in alternativa tra loro e non unitamente; ciò non può avere alcuna logica laddove con “capo” si intenda la statuizione emessa in relazione ad una incolpazione che assume autonomia rispetto ad altre parti della decisione tanto da poter costituire ex se oggetto di sentenza, e con punto ogni singolo tema affrontato all’interno di un capo di decisione, relativamente all’accertamento del fatto storico, all’attribuzione di questo all’imputato, alla sua qualificazione giuridica, all’eventuale inesistenza di cause di giustificazione, all’elemento soggettivo e, nel caso di condanna, all’accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti ed alla determinazione della pena[10].

Grazie alla disgiuntiva, l’interprete avrebbe la facoltà di indicare l’uno senza fare riferimento all’altro, potendo menzionare i capi senza menzionare i punti, così come menzionare i punti senza i capi. Tuttavia, una lettura orientata in tal senso genererebbe nell’un caso impugnazioni generiche, non potendo il giudice di seconde cure capire soltanto da questa indicazione a quale errore ermeneutico del consesso di prime cure voglia riferirsi l’impugnante; nel secondo caso, invece, ciò produrrebbe impugnazioni indeterminate nel fine, in quanto, pur indicando il passaggio logico-argomentativo fallace, non lo orienta verso alcun obiettivo.

Utilizzando una metafora, laddove alla congiunzione “o” venisse attribuito un valore disgiuntivo, sarebbe attribuita all’impugnante la possibilità di scagliare le frecce presenti nel suo arco alla rinfusa, senza orientarle verso alcun bersaglio, così annullando completamente il principio di diritto processuale del tantum devolutum quantum appellatum. Se, al contrario, alla congiunzione venisse attribuito valore esplicativo, perderebbero di qualsiasi significato gli sforzi ermeneutici e gli approdi giurisprudenziali fatti fino ad oggi per giungere alla definizione di “capo” e di “punto” della sentenza.

In altre parole, il capo non sarebbe più un’entità generale cui il giudice giunge mediante l’analisi di quelle entità logiche ed argomentative particolari definite come punti; al contrario, entrambi sarebbero posti su un piano di identità ed uguaglianza, risolvendosi entrambi nella medesima entità concepita e definita in via generale quale partizione (sotto altri termini non meglio precisata) della statuizione.

Mediante una simile congettura, l’interprete sarebbe invitato dall’art. 581 lett. a) c.p.p. ad indicare la “parte” della sentenza che si accinge a contestare in sede impugnatoria, senza tuttavia chiarire come questa parte possa essere identificata, non essendo colta la reale essenza del concetto unitario di “capo-punto” (da considerare come la stessa cosa)[11]. Tale lettura, dunque, condurrebbe, in maniera perfettamente ciclica, alla domanda posta in partenza: cosa sono i capi e i punti della sentenza?

 

  1. Il ruolo dei motivi nelle impugnazioni.

Da tutto ciò che è stato finora osservato, è evidente come una interpretazione letterale sia poco risolutiva delle questioni che gravano attorno ai mezzi impugnatori parzialmente devolutivi; occorre, pertanto, cercare altrove una soluzione ai problemi posti.

A ben vedere, la lettera d) dell’art. 581 del codice di rito menziona, tra gli elementi essenziali che l’atto d’impugnazione deve contenere, i motivi che lo giustificano. Come suggerisce la stessa etimologia della parola, il motivus (da motus, movere) è ciò che spinge e che suscita il movimento, l’impulso di un’azione o di un atto.

Sia la giurisprudenza sia la più autorevole dottrina sostengono che il motivo deve riferirsi ai capi e ai punti della sentenza, in modo tale da precisare quale sia l’aspetto che viene criticato e sottoposto al giudice di seconde cure[12], sottolineando la sussistenza di un legame inscindibile tra l’operazione di delimitazione della decisione nelle sue parti oggetto di critica e la corroborazione delle argomentazioni ad esse contrarie: in altre parole, non sarebbe possibile indicare determinati capi o punti della sentenza da impugnare, per poi riferire ad essi motivazioni che attengono ad altri capi o punti della stessa, in quanto i secondi non impugnati e dunque destinati a passare in giudicato.

L’importanza di questo collegamento tra le parti dell’atto impugnatorio è ictu oculi essenziale; la sua mancanza produrrebbe evidentemente atti scoordinati al loro interno, indeterminati e perciò destinati all’inammissibilità.

Tuttavia, stante la mancanza di una definizione precisa, univoca, priva di margini di obiezione dei “capi” e dei “punti” della decisione, non è poi così semplice definire a priori quando sussista (o non sussista) detto collegamento: quando i motivi potranno essere riferiti ai capi e ai punti se non è possibile sapere che cosa essi siano?

Ciò che la Riforma Orlando ha avuto modo di precisare mediante la modifica operata nel 2017 è la necessità che i motivi vengano enunciati “in maniera specifica”[13]; a ben vedere, già negli anni precedenti la giurisprudenza di legittimità si era fatta portatrice delle istanze di precisione all’interno dei motivi dedotti negli atti impugnatori, chiarendo come l’indicazione di essi in maniera generica costituisse di per sé ragione di inammissibilità del proposto gravame, anche se successivamente fossero stati depositati nei termini di legge motivi nuovi ex art. 585 comma IV, ad integrazione e specificazione di quelli già dedotti[14].

Ancora una volta, tuttavia, si rileva la questione di definire in base a quale parametro sia possibile misurare questa tanto invocata specificità. A tal proposito, i giudici di Piazza Cavour hanno dato risposte non univoche, secondo le quali, da una parte è ritenuto specifico il motivo che indichi i punti della sentenza dei quali chiede il riesame precisandone le ragioni, non rilevando la necessità di un confronto argomentativo con la motivazione della statuizione di prime cure[15]; dall’altra, il motivo potrà dirsi specifico soltanto allorchè indichi con chiarezza le ragioni di fatto e di diritto su cui si fondano le censure senza rilevare l’indicazione dei punti a cui si riferisce, ferma restando la proporzionalità alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato[16].

Secondo un più preciso ordine di idee e pur sempre nell’ottica del favor impugnationis, il requisito della specificità va colto con riferimento ad entrambe le prospettive sopra citate, in quanto esso implica a carico della parte impugnante non solamente l’onere di dedurre le censure che intenda muovere su uno o più punti determinati della decisione gravata, ma anche quello di indicare con chiarezza e precisione (evitando enunciati in forma perplessa o alternativa) gli elementi che sono alla base delle censure medesime, in modo da consentire al giudice della impugnazione di individuare i rilievi proposti ed esercitare quindi il proprio sindacato[17].

Pur tendendo sempre più verso soluzioni accettabili, queste non possono ancora dirsi risolutive, stante la mancanza della certezza definitiva su cosa debba intendersi per “punto” della decisione.

Un flebile spiraglio di luce in questo intricato groviglio ermeneutico è (forse) dato dall’art. 597 c.p.p., il quale definisce la natura parzialmente devolutiva dello strumento impugnatorio dell’appello[18].

In particolare, essendo attribuita al giudice di seconde cure cognizione “limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti”, si desume che, almeno per ciò che concerne l’atto di appello, i punti non devono necessariamente essere indicati in maniera autonoma ed indipendente, potendo desumersi essi stessi dai motivi proposti.

In altre parole, l’effetto devolutivo si ha una volta che il soggetto impugnante formuli uno specifico motivo di gravame, assumendo in tal caso il giudice il relativo obbligo di pronunciarsi sul tema di indagine evocato, identificato dalla dottrina e in tal caso anche dalla legge con il “punto della decisione”.

La cognizione del giudice di appello è, dunque, delimitata dai motivi indicati nell’atto di impugnazione[19], ed i “punti” sui quali egli dovrà decidere potranno essere dedotti espressamente dai motivi.

In questo modo, è lo stesso legislatore a rifiutare espressamente qualsiasi criterio formalistico che possa condurre il giudice a dichiarare inammissibile un atto di appello laddove non siano indicati i tanto famigerati “punti” della decisione, pur essendo il thema appellatum desumibile chiaramente dai motivi: laddove formulati in maniera precisa, non generica o fumosa, essi possono ben fungere da arco, da freccia e da bersaglio, dando impulso al procedimento, individuando le statuizioni contenute nel provvedimento di prime cure che si vogliono attaccare, ed infine attaccandole essi stessi.

A ben vedere, ciò che è possibile osservare in tema di appello si riscontra, altresì, nell’ambito del procedimento per cassazione; infatti, l’art. 609 c.p.p., nell’affermare che la cognizione della Suprema Corte è attribuita ad essa nei limiti dei motivi proposti (ricompresi tra quelli enucleati all’interno dell’art. 606 cp.p.) all’interno del ricorso, escluderebbe qualsiasi ulteriore riferimento ai capi e ai punti della decisione che si intenderebbero criticare.

Sulla base di questa norma, dunque, è ben possibile affermare che il giudice dell’impugnazione di legittimità assume su di sé l’obbligo di pronunciarsi sul tema di indagine devolutogli stante la correlazione tra motivi di impugnazione e ambito della cognizione e della decisione[20].

Si rileva poi, ancor più approfonditamente e secondo la tradizionale bipartizione tra rimedi impugnatori a critica libera e vincolata, come la differenza sostanziale che sussiste tra i due mezzi impugnatori è che il motivo proposto in sede di appello non vincola il giudice del secondo grado di merito, essendo egli tenuto a decidere con riferimento al punto che è stato indicato; al contrario, il giudice di legittimità è limitato dai motivi addotti dal ricorrente, e soltanto su questi si instaura la parziale devoluzione[21].

Seppur corretta da un punto di vista formale, tale impostazione traduce il disposto dell’art. 597 in una scissione netta tra i motivi e i punti della decisione, i quali, tuttavia – sulla scorta del suo dispositivo –, si dedurrebbero proprio grazie al riferimento contenuto nei motivi stessi.

In sostanza, mentre in sede d’appello le tematiche generali su cui si basa la critica alla statuizione di primo grado sono deducibili dai motivi (i quali, tuttavia, non sarebbero limitativi della cognizione entro il “punto”), in sede di ricorso per cassazione i motivi sollevati (pur tipici che siano) non sarebbero in grado di raccogliere e devolvere i temi della decisione al giudice di legittimità.

Delle due l’una: o il termine “motivo” non cambia soltanto i contorni all’interno del giudizio di legittimità ex art. 606 c.p.p., ma anche l’essenza stessa; o i “punti” della decisione non sono ciò che appaiono prima facie.

 

  1. Il criterio formalistico e i metodi di redazione della sentenza.

Giunti a tal punto, verrebbe da chiedersi se il legislatore non pretenda, pur riferendosi agli strumenti dell’impugnazione della sentenza, che essa stessa sia organizzata mediante partizioni formali e criteri topografici a cui l’impugnante dovrebbe espressamente fare riferimento per attuare il tantum devolutum quantum appellatum[22].

Capi e punti verrebbero così a costituire nient’altro che singole voci di una schematizzazione delle motivazioni all’interno della decisione, a cui è possibile fare riferimento in sede di impugnazione; in questo senso, la definizione stessa di “capo” e di “punto” non costituirebbe (più) un rompicapo ermeneutico per gli operatori del settore, e la congiunzione disgiuntiva “o” verrebbe ricondotta al suo significato proprio ex art. 12 delle preleggi.

Tali ripartizioni dovrebbero essere, poi, esplicitate all’interno di un indice iniziale, che non soltanto permetterebbe un puntuale riferimento alla sezione che si intende contrastare, ma che, altresì, faciliterebbe al lettore (sia esso parte in causa, sia che non lo sia[23]) il compito di rendere evidente la gerarchizzazione formale del testo[24].

Autorevole dottrina osserva come, allora, l’individuazione dei “punti” intesi come “unità logiche dei capi” verrebbe ad essere operata sulla base di una precisa suddivisione in capitoli e paragrafi sulla base di norme grafiche ed editoriali stringenti, le quali fornirebbero a chiunque si confronti con il testo una guida sicura[25].

In breve, una rigida schematizzazione delle decisioni giurisdizionali condurrebbe ad un miglioramento non soltanto nel lavoro degli avvocati e dei pratici del diritto in generale, ma anche ad una attuazione concreta ed effettiva dei principi del giusto processo, della sua ragionevole durata nonché del buon andamento dell’amministrazione giudiziaria; al contrario, laddove ciò non accada ed a seguito, soprattutto, delle più recenti riforme del processo penale, la mancanza di criteri stabili e di “punti fermi” nel sistema delle impugnazioni dà spazio a casi di denegata giustizia a fronte di vizi formali inesistenti.

 

  1. Conclusioni.

Quali possono essere, dunque, le soluzioni immediate, che l’interprete ed il pratico devono attuare nell’esegesi dell’art. 581 lettera a) del codice di procedura penale? A fronte dei dubbi sopra sollevati, le vie che si possono intraprendere sono due.

La prima è quella di non indicare alcun capo o punto della decisione e lasciare che sia il giudice stesso ad identificare dai motivi le partizioni che si vogliono riformare.

Tale modus operandi presta il fianco a due differenti critiche, la prima di carattere teorico, in quanto gli artt. 581 e 591 c.p.p. reclamano l’indicazione di un’entità, di un frammento o di una porzione della decisione al fine della devoluzione. Lasciando soltanto ai motivi il compito di attuare il tantum devolutum quantum appellatum si opera, in maniera evidente, contro il dettato della legge, che impone comunque all’impugnante un restringimento diretto della cognizione del giudice di seconde cure: valgono a poco, in tal senso, indicazioni che si riferiscono in maniera vaga e generica a “tutti i capi e punti della statuizione”, prive della necessaria specificità idonea a costituire valida forma d’impugnazione.

La seconda critica, di carattere eminentemente pratico, conduce il giudice di grado successivo, sommerso spesso da un numero di processi innumerevoli, a “sfoltire” mediante pronuncia di inammissibilità il carico di lavoro laddove non riesca a reperire “a colpo d’occhio” l’indicazione dei requisiti formali essenziali richiesti dalla legge per l’atto di impugnazione.

Seppur contraria al criterio del favor impugnationis, una sempre più stretta esigenza di efficienza della macchina giudiziaria permette all’organo decidente di eliminare tutto ciò che non viene reputato conforme al dettato normativo; e, laddove tale difformità possa essere rintracciata ancor prima di aver studiato ed appreso il contenuto dell’atto nella sua interezza (con conseguente risparmio di tempo ed energie), tanto meglio.

Ecco che, allora, si rende necessario intraprendere la seconda strada ermeneutica, consistente nell’indicare in maniera pedissequa e con riferimenti testuali precisi la parte della decisione che si ritiene di dover sottoporre al giudice di seconde cure.

Questa via conduce ad un formale rispetto dell’art. 581 lettera a) c.p.p., ed esclude le preliminari declaratorie di inammissibilità sopra viste, seppur non in toto: infatti, l’inammissibilità si ha non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati i cc.dd. capi o punti, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato[26] in quanto le ragioni di tale necessaria correlazione tra la decisione censurata e l’atto di impugnazione risiedono nel fatto che quest’ultimo non può ignorare le ragioni del provvedimento censurato[27].

Al Legislatore di domani si pone, ancora una volta, una alternativa molto stretta: o eliminare definitivamente i concetti di “capo” e di “punto” dal dettato normativo, rimettendo al giudicante il compito di individuare questi ultimi da solo sulla scorta dei motivi sollevati in sede di impugnazione, previa valutazione della specificità di questi ultimi; oppure dettando criteri redazionali delle sentenze di merito stringenti e puntuali, ed attuare il principio del tantum devolutum quantum appellatum non mediante il riferimento a capi o punti della statuizione ma, magari, a “capitoli” e “paragrafi” della stessa, attuando a posteriori l’individuazione di ciò che possa ritenersi o meno passato in giudicato.

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[1] Si veda Spangher, La riforma Orlando della giustizia penale: prime riflessioni, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.

[2]Si veda, al proposito, Belluta, Oltre Dasgupta o contro Dasgupta? Alle Sezioni Unite decidere se la rinnovazione è obbligatoria anche in caso di overturning da condanna a proscioglimento, in Dir. pen. cont., 10, 2017, nota a Cass., Sez. II, 20 giugno 2017, ric. Marchetti e al., Rv. 50228: «Il principale rischio che si prefigura (…) è quello di un appello “nuovo primo giudizio”: al netto della probabile irragionevolezza dei tempi che ne conseguirà, sembra prevedibile che l’epilogo di seconde cure prima o poi rivendicherà una nuova forma di controllo, più ampia e penetrante dell’attuale ricorso per cassazione».

[3] Cabiale, Dell’Anno, Specificità ed inammissibilità dell’atto di impugnazione a seguito della riforma Orlando, in Arch. pen., 3, 2019: « Nessuno dubita che il fine ultimo della riforma dell’art. 581 c.p.p. sia quello di inibire ricorsi pretestuosi, aventi fini dilatori che mal si conciliano con regole e canoni che governano il nostro sistema delle impugnazioni penali; 26 e perciò, non può che condividersi la scelta di non attribuire alcun valore alla impugnazione quando sia l’impugnante stesso a non sapere di cosa intenda lamentarsi. Al cospetto di tale patologica ipotesi, quindi, l’atto di gravame va considerato come una manifestazione fatua, determinata dal solo intento dilatorio. Ciò posto, è altrettanto vero che l’inammissibilità costituisce da sempre l’espediente più efficace per perseguire comunque lo scopo, fissato dal legislatore, di deflazionare il carico delle Corti, sia di merito che di legittimità. Il tutto, valorizzando da un lato l’efficienza, della speditezza del sistema e, dall’altro, il ruolo fondamentale che riveste l’impugnazione, allo scopo di restituire un contenuto effettivo a tale strumento per la realizzazione concreta di un processo davvero “giusto”.».

[4] La sentenza Cass., Sez. V, 24 giugno 2019, ric. Hariri, ricorda come « prima ancora della modifica dell’art. 581 cpp., introdotta con legge n. 55 del 23 giugno 2017, (…) l’appello, al pari del ricorso per cassazione, era ritenuto inammissibile per difetto di specificità dei motivi, quando non risultassero esplicitamente enunciati e argomentati dal ricorrente rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata. Si è precisato, infatti, che, in realtà, la mancanza di specificità dei motivi rende gli stessi meramente apparenti, in quanto omettono di assolvere alla funzione tipica di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto del ricorso. Con il predetto approdo, le Sezioni Unite avevano individuato, ai fini della specificità dei motivi, accanto alla c.d. determinatezza intrinseca, appuntata sulla necessaria specifica enunciazione testuale dei motivi, l’ulteriore profilo della determinatezza estrinseca, intesa come relazione critica tra le ragioni della decisione e il fondamento razionale delle correlate censure, cosicché, ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione, si richiedeva l’indicazione specifica delle ragioni di fatto e di diritto su cui si fondano le censure, per delimitare con precisazione l’ambito del gravame e evitare impugnazioni generiche o meramente dilatorie.».

[5] Allo stesso modo, Gialuz, Cabiale, Della Torre, Riforma Orlando: le modifiche attinenti al processo penale, tra codificazione della giurisprudenza, riforme attese da tempo e confuse innovazioni, in Dir. pen. cont., 3, 2017: «Se confrontato con il testo previgente, l’art. 581 c.p.p. contiene anzitutto un’espressa previsione di inammissibilità: posto che l’inosservanza della norma in esame era già ugualmente sanzionata dall’art. 591 c.p.p., si può pensare che la nuova formulazione abbia soprattutto un valore pedagogico volto a imprimere maggiore rigore nel controllo sul rispetto dei requisiti minimi dell’atto di impugnazione.».

[6] Gerardi, L’inammissibilità delle impugnazioni. Evoluzione o involuzione?, in Arch. pen., 2019, 1.

[7] Per la giurisprudenza, si vedano Cass., Sez. Un. n. 6903  27 maggio 2016, ric. Aiello, Rv. 26896601 con nota di Centorame, Ricorso cumulativo parzialmente inammissibile e prescrizione del reato: per le sezioni unite prevale l’autonomia dei singoli capi impugnati, in Dir. pen cont., 3, 2017, pp. 7 e ss. e Cass., Sez. Un., 17 ottobre 2006, ric. Michaeler, Rv. 235699 che hanno espressamente richiamato i principi espressi da Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2000, ric. Tuzzolino, Rv. 216239; per la dottrina, si vedano Tonini, Manuale di procedura penale, op. cit., p. 924, Bricchetti, Sentenza e atto di impugnazione (contenuto e motivi), in Dir. pen. cont., 6, 2018.

[8] Parte della dottrina, tuttavia, sostiene come tale norma sia in profonda crisi, “bistrattata” se non del tutto abrogata: in tal senso, Caponi, Overruling in materia processuale e garanzie costituzionali, in margine a Cass., Sez. Un., 9 settembre 2010, in www.consiglionazionaleforense.it.

[9] Acerboni, Una proposta concreta: abolire ‘ovvero’ dal linguaggio normativo, in www.scritturaprofessionale.it; Vanvolsem, Uso di ovvero con valore disgiuntivo, in www.accademiadellacrusca.it:  «L’ovvero serve a distinguere le due fondamentali matrici del delitto colposo: la negligenza e l’inosservanza di una legge; gli o individuano, all’interno della definizione, alternative secondarie («negligenza o imprudenza o imperizia»), oppure semplici equivalenze terminologiche («colposo, o contro l’intenzione»)”. In altre parole, nei casi di cooccorenza di o e ovvero, è il termine più elevato che sembra avere maggiore importanza, e che, di conseguenza, fa da perno per strutturare il testo. (…) Non è impensabile che, in certi casi difficili, quest’ambiguità possa anche dar luogo a lunghe cavillazioni giuridiche.».

[10] Cass., Sez. V, 20 luglio 2018, Rv. 273778

[11] Del resto, questa concezione non è estranea all’ordinamento: l’art. 342 c.p.c., nel disciplinare la forma dell’appello – mezzo d’impugnazione parzialmente devolutivo – richiama (anche qui a pena di inammissibilità) le “parti del provvedimento che si intendono appellare”, nonché le “modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado”. Come chiarito da Cass. Lav., 3 aprile 2017, n. 8604, ric. Pro.Mo.Art. S.r.l., «il giudizio di appello, pur limitato all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati, sicché non viola il principio del “tantum devolutum quantum appellatum” il giudice di secondo grado che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali, però, appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi e, come tali, comprese nel “thema decidendum” del giudizio.».

[12] In tal senso, Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2017, p. 925-926; Cass, Sez. V, 20 luglio 2018, Rv. 273778 cit.: «Il requisito della specificità dei motivi di appello, richiesto dall’art. 581 come sostituito dalla l. 103 del 2017, è soddisfatto se l’atto individua il punto che intende devolvere alla cognizione del giudice di appello, enucleandolo con specifico riferimento alla motivazione della sentenza impugnata e precisando tanto i motivi di dissenso della decisione appellata che l’oggetto della diversa deliberazione sollecitata presso il giudice del gravame.».

[13] Sylos Labini, La riforma Orlando e la specificità dei motivi di appello: prime riflessioni, in Giur. Pen., 2, 2018.

[14] Così Cass., Sez. VI, 21 dicembre 2000, ric. Rappo, Rv. 219087; Sez. II, 29 aprile 2014, ric. Cennamo, Rv. 260851; Sez. VI, 30 ottobre 2008 – 19 dicembre 2008, n. 47414, ric. Arruzzoli, Rv. 242129.

[15]  Cass., Sez. III, 16 aprile 2015, ric. Falasca Zamponi, Rv. 264185.

[16] Cass., Sez. VI, 18 dicembre 2012, ric. Lombardo, Rv. 254204; Sez. VI, 18 novembre 2015, ric. D’Ambrosio, Rv. 265883; da ultimo, Sez. Un. 27 ottobre 2016, ric. Galtelli, Rv. 268882.

[17] Cass., Sez. IV, 1 aprile 2004, ric. Distante, Rv. 228586; Sez. VI, 12 luglio 2013, ric. Tartaglione, Rv. 257434; Sez. VI, 3 aprile 2013, ric. Mazzucchetti, Rv. 256303.

[18] Alla luce della Riforma Orlando e della giurisprudenza più recente, i dubbi sorgono con riferimento alla natura di giudizio di controllo o di nuovo giudizio dell’appello. Come sostiene Spangher, La riforma dell’appello: le criticità non mancano, in Giarda, Giunta, Varraso (a cura di), Dai decreti attuativi della legge “Orlando” alle novelle di fine legislatura, Milano, 2018, p. 221-222, «è difficile ipotizzare l’esito di questo dibattito nelle future scelte legislative e/o giurisprudenziali. (…) L’accentuazione della specificità dei motivi rischierebbe di comprimere l’esigenza di accertamento del merito confinando l’appello in un preventivo giudizio di ammissibilità.».

[19] Cass., Sez. I, 14 gennaio 1999, ric. Pucci, Rv. 213254.

[20] In tal senso, Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2000, ric. Tuzzolino, Rv. 216239.

[21] Tonini, Manuale di procedura penale, op. cit., p. 966: «(…) tra ricorso per cassazione e giudizio d’appello esiste una profonda differenza. Il giudice d’appello non è vincolato strettamente al motivo proposto da una parte e può decidere liberamente su tutte le questioni ipotizzabili in relazione al punto che è stato impugnato. Viceversa, la cognizione della corte di cassazione è limitata ai motivi addotti dalle parti: il giudice di legittimità può soltanto accoglierli o rigettarli, salve le ricordate eccezioni in merito alle questioni rilevabili d’ufficio o non deducibili in appello.

In conclusione, il ricorso per cassazione è definibile come una azione di annullamento della sentenza impugnata: se sono ritenuti validi i motivi dedotti, la corte si limita ad annullare la sentenza impugnata con o senza rinvio al giudice che l’ha emessa.».

[22] Sul punto, si vedano le Linee Guida sulla redazione dei capi di imputazione e della motivazione della sentenza elaborate dalla Scuola Superiore della Magistratura, secondo le quali «alla comprensione del contenuto delle sentenze contribuiscono anche criteri uniformi di redazione ed impostazione, la numerazione delle pagine, l’articolazione in paragrafi al fine di sottolineare l’essenzialità di ciascun passaggio, di consentire citazioni e richiami più precisi, di delineare il modello rispetto al quale le parti esercitano il rispettivo diritto d’impugnazione con conseguente perimetrazione dei poteri di cognizione del giudice dell’impugnazione.».

[23] E’ (anche) al lettore comune che la sentenza si rivolge; non a caso, essa deve essere pronunciata “in nome del popolo italiano”. In tal senso, Triggiani, “In nome del popolo italiano”? Spunti di riflessione sul linguaggio della sentenza penale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, ed ancora, Dell’Anna, In nome del popolo italiano. Linguaggio giuridico e lingua della sentenza in Italia, Roma, 2013, pp. 36 e ss..

[24] Oltre alle già citate Linee Guida, Bellucci, La redazione delle sentenze: una responsabilità linguistica elevata, in Dir. e form., 2005, V, n. 3, p.453

[25] Bricchetti, Sentenza e atto di impugnazione (contenuto e motivi), cit., p. 216: «Anche l’uniformità dei criteri grafici di redazione contribuisce alla comprensione del contenuto degli atti. La necessità, in uno schema funzionale di sentenza, di criteri uniformi di redazione ed impostazione è strettamente collegata alla comprensione del contenuto della stessa, perché facilita l’individuazione dei punti che interessano ed evita dispersioni di tempo, ed è postulata dall’informatizzazione del processo e dei registri. La strada della uniformità editoriale e stilistica è stata intrapresa dalla Corte di Cassazione e a criteri uniformi di redazione grafica e di impostazione strutturale dell’atto dovranno inevitabilmente adeguarsi anche i giudici del merito. L’esperienza quotidiana presenta, infatti, casi non infrequenti di testi privi di un minimo decoro nella presentazione, redatti senza l’osservanza delle regole di videoscrittura, senza la numerazione delle pagine, la chiara individuazione e distinzione, nei processi cumulativi, dei capi e delle posizioni degli imputati, la suddivisione in paragrafi (dove ospitare i vari punti della decisione) e sotto-paragrafi (per collocarvi le questioni da trattare per deliberare sul punto).».

[26] Cass., Sez. V, 15 febbraio 2013, ric. Sammarco, Rv. 255568

[27] Cass., Sez. II, 29 gennaio 2014, ric. Lavorato, Rv. 259425

Guglielmo Sacco

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