-
Introduzione.
Attraverso il presente lavoro si è intende ripercorrere le tappe storico-evolutive che hanno condotto all’elaborazione dell’odierno modello concessorio, valorizzando, in particolar modo, la continua tensione dialettica tra la concezione contrattuale e provvedimentale della concessione.
Ci si soffermerà sui diversi modelli concessori nella duplice ricostruzione strutturale della c.d. concessione-contratto e del c.d. accordo procedimentale-concessorio, oggi ritenuta dai più superata in favore della permanente natura provvedimentale.
Successivamente, si giungerà a ripercorrere i tratti del principio di libera amministrazione, nella sua accezione interna e sovranazionale, pervenendo al vero focus su cui si è incentrata la seconda parte del presente lavoro, ovvero sul rischio/equilibrio economico-finanziario del contratto di concessione e sulle sue ricadute pratiche.
Nel quadro delle definizioni normative rese dal più recente intervento operato grazie al d.lgs. 50/2016 e dalla più consolidata giurisprudenza in materia, premessa l’accezione oggettivo-sostanziale di servizio pubblico anche alla luce della disciplina comunitaria in materia di servizi di interesse economico generale, si analizzeranno le distinzioni strutturali e funzionali rispetto ai corrispondenti contratti pubblici di appalto di lavori e di servizi pubblici. Segnatamente, sulla base delle coordinate ermeneutiche tracciate si opereranno le opportune distinzioni tra dette categorie giuridiche che, sebbene appartenenti al medesimo genus, tuttavia sono profondamente diverse tra loro.
Nella specie, si anticipa già in questa sede, che il vero discrimen risiederebbe, rispettivamente, nella netta separazione e nella stretta correlazione tra la fase pubblicistica di aggiudicazione e quella privatistica di esecuzione del contratto.
Tutto ciò premesso, ci si soffermerà sui concetti normativi di valore stimato, di durata delle concessioni e sui contratti misti.
Volume consigliato
Manuale dell’illecito amministrativo
La legge 24 novembre 1981, n. 689 è ancora oggi, dopo 40 anni, il pilastro fondativo dell’intero sistema sanzionatorio amministrativo. Ogni tentativo di superamento di questo sintetico ed efficace impianto normativo è naufragato, così come ogni rimaneggiamento estemporaneo ha fatto peggio del problema che si intendeva correggere. Il modello di riferimento per la punizione “extra penale” resta quello della Legge 689/1981. Si può, dunque, affermare che l’illecito amministrativo è un’autonoma figura giuridica, perfettamente connaturata all’esercizio del potere amministrativo, esercitato con regole proprie, arricchite da feconde contaminazioni provenienti dalle altre norme amministrative a struttura procedimentale. In omaggio a questa unitarietà di struttura e funzione, è parso cosa utile approntare un testo, per gli operatori pratici, che abbracciasse tutti gli aspetti della materia: dalle nozioni basilari, all’analisi delle fasi dell’accertamento e dei procedimenti di irrogazione delle sanzioni pecuniarie e accessorie, fino al contenzioso e al processo. Questa terza edizione dell’opera, che esce appunto in concomitanza con il quarantesimo compleanno della legge 689, è stata interamente revisionata, aggiornata con le novità normative e giurisprudenziali, nonché arricchita con nuovi commenti e analisi, in modo da far cogliere appieno ai lettori la dinamica evolutiva degli istituti che disciplinano forme e modi della punizione amministrativa. Giuseppe NapolitanoAvvocato, Dirigente comunale, è Dottore di ricerca in Diritto amministrativo e specializzato nella stessa materia nonché in Scienze dell’amministrazione. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, collabora con svariate agenzie per la formazione in ambito universitario e tecnico-professionale.
Giuseppe Napolitano | 2021 Maggioli Editore
65.00 € 52.00 €
-
I contratti di concessione: ambito applicativo.
La direttiva 2014/23/UE detta la prima regolamentazione organica dei contratti di concessione[1], unanimemente riconosciuta per il perseguimento di una certezza delle regole e la sua strumentalità ad una maggiore attrattività finanziaria degli investimenti[2] in un’ottica di massimo coinvolgimento dei capitali privati.
Essa rappresenta la prima iniziativa dell’Unione tesa a disciplina una species di partenariato pubblico-privato, atteso che negli anni precedenti le Istituzioni europee si erano concentrate in via prevalente sulla definizione dei caratteri degli appalti, recependo un decennio di giurisprudenza e dibattiti europei e nazionali[3].
Gli effetti di una carenza di regolazione compiuta erano acuiti dal fatto che le concessioni rappresentano una figura giuridica in continua evoluzione ed oggi sono un modello che si è talmente trasformato da apparire ormai molto lontano dalle “concessioni amministrative” ordinariamente inquadrate dalla dottrina tradizionale[4].
È dato acquisito ormai, tanto a livello interno che eurounitario, che “i contratti di concessione rappresentano importanti strumenti nello sviluppo strutturale a lungo termine di infrastrutture e servizi strategici in quanto concorrono al miglioramento della concorrenza in seno al mercato interno, consentendo di beneficiare delle competenze del settore privato e contribuiscono a conseguire efficienza e innovazione”, garantendo al contempo “la massima efficienza nell’uso dei fondi pubblici”[5].
A livello definitorio, le concessioni sono contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto, in virtù dei quali una o più amministrazioni aggiudicatrici o uno o più enti aggiudicatori affidano l’esecuzione dei lavori e dei servizi o dei soli servizi ad uno o più operatori economici, ove il corrispettivo consiste unicamente nel diritto di gestire i lavori oggetto del contratto o in tale diritto accompagnato da un prezzo[6].
Specificamente, per concessione di lavori e di servizi pubblici si intende, rispettivamente, “il contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano l’esecuzione di lavori ovvero la progettazione esecutiva e l’esecuzione, ovvero la progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e l’esecuzione di lavori di uno o più operatori economici riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire le opere oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione delle opere”[7]ed “il contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori riconoscendo a titolo corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione di servizi”[8].
Il dato innovativo si rinviene, da un lato, nel superamento della dicotomia tra l’affidamento della concessione di lavori, precedentemente disciplinata dalla direttiva 2004/18/CE, e di quella di servizi, assoggettata ai soli principi espressi dal Trattato, dall’altro, nella puntualizzazione legislativa del contenuto necessario di un contratto di concessione, ovvero, come si osserverà, nel trasferimento al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei lavori o dei servizi.
L’ultima fase evolutiva del modello concessorio trae origine dall’entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici (dapprima il d.lgs. 163/2006 e successivamente il d.lgs. 50/2016).
A riguardo, le norme codicistiche sembrano, prima facie, aver riportato in auge l’accantonata concezione privatistica della concessione. Infatti, il Legislatore ha expressis verbis qualificato la concessione di lavori e di servizi pubblici come “contratti pubblici”, coerentemente all’accezione datale dal diritto comunitario (Direttive 18/2004/CE e 24/2014/UE)[9], riconducendo le concessioni pubbliche all’archetipo madre delle comuni figure contrattuali e seppellendo parte delle suggestioni interpretative che avevano portato a indugiare su provvedimento e contratto nelle concessioni amministrative[10].
Tradizionalmente, infatti, si è a lungo dibattuto in dottrina circa la natura giuridica della concessione.
Da un lato, si stagliavano i sostenitori dell’impostazione pubblicistica, secondo cui la concessione rileva come atto amministrativo unilaterale (provvedimento amministrativo); dall’altro, i sostenitori dell’impostazione privatistica per cui la concessione si qualifica come contratto[11].
A metà strada tra le due impostazioni si colloca la teoria della concessione-contratto[12], che qualifica la concessione come fattispecie complessa costituita da due atti distinti ma tra loro connessi: uno pubblicistico, il provvedimento amministrativo di conferimento della concessione, e uno privatistico, l’accordo tra amministrazione e privato destinato a regolare diritti e obblighi delle parti.
Tale impostazione è stata superata da parte della letteratura successiva che, evidenziando i profili di differenziazione rispetto al contratto di diritto privato, l’ha ricondotta alla figura del “contratto ad oggetto pubblico” nella forma di “contratti accessivi a provvedimenti” o di “convenzioni sostitutive”[13].
Invero, tale teoria risente del fatto che nell’ordinamento giuridico italiano la concessione di lavori è stata a lungo assunta in dottrina e giurisprudenza come uno “strumento di traslazione dei pubblici poteri”, provvedimento amministrativo unilaterale escluso da qualsiasi confronto concorrenziale. Attraverso tale strumento, la pubblica amministrazione poteva trasferire ad altri un proprio diritto o potere, ovvero costituire un nuovo diritto o potere a vantaggio di altri sulla base di uno proprio, che in tal modo veniva limitato[14].
Il processo di riforma della disciplina dei lavori pubblici ha inizio, a livello interno, con l’emanazione della legge quadro sui lavori pubblici, legge n. 109/1994.
Procede con legge 18 novembre 1998, n. 415, c.d. Merloni-ter, e con il successivo regolamento di attuazione, disposizioni normative emanate con l’obiettivo di stimolare il coinvolgimento di capitali privati nella realizzazione di opere pubbliche; la legge Merloni-quater nel 2002; il Codice dei contratti pubblici nel 2006 e le successive modifiche e integrazioni allo stesso; il Codice Appalti 2016 (d.lgs. 18 Aprile 2016, n. 50) in attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.
Quest’ultimo ha sostituito il precedente Codice emanato con d.lgs. 163/2006, integrato dal relativo regolamento di attuazione dal Codice del processo amministrativo.
In questo contesto, la tutela giurisdizionale si pone come indefettibile garanzia dell’intero processo di selezione del contraente della pubblica amministrazione e di formalizzazione negoziale del rapporto.
Ciò premesso, è bene rilevare che concessioni sono attualmente disciplinate, oltre che dallo specifico corpus normativo contenuto nella parte III del nuovo Codice, anche attraverso il richiamo alle norme della Parte I e della Parte II.
Il rinnovato Codice dei contratti pubblici prevede, infatti, per l’affidamento di entrambe le tipologie concessorie in questione specifiche procedure selettive pubblicistiche[15] riportando simmetria giuridica rispetto a quanto già precedentemente previsto in materia di contratti pubblici di appalto di lavori e servizi pubblici.
Segnatamente, l’art. 164 stabilisce che alle procedure di aggiudicazione dei contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, anche le disposizioni del Codice relative ai principi generali, alle modalità di affidamento, alle informazioni da inserire nei bandi di concessioni, agli avvisi di aggiudicazione delle concessioni, alla disponibilità elettronica dei documenti di gara, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai motivi di esclusione, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione, alla comunicazione ai candidati e agli offerenti, alla stipula del contratto, alle modalità di esecuzione e al project bond.
Sul punto, l’art. 30 del previgente Codice (D.lgs n. 163 del 2006) riteneva applicabili alle concessioni di servizi i soli principi desumibili dal Trattato e dalla normativa generale in materia di contratti pubblici, in particolare, i principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità[16].
Tali indicazioni apparentemente univoche avevano determinato ulteriori criticità sotto il profilo della identificazione concreta dei principi realmente riversabili ai rapporti concessori, poi tradottesi in un contenzioso particolarmente acceso[17].
Lo stesso art. 164 d.lgs. cit. definisce l’oggetto e l’ambito di applicazione della nuova disciplina nazionale in tema di concessioni, statuendo che le disposizioni della Parte III definiscono le norme applicabili alle procedure di aggiudicazione dei contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi indette dalle amministrazioni aggiudicatrici, nonché dagli enti aggiudicatori qualora i lavori o i servizi siano destinati ad una delle attività di cui all’allegato II (il quale reca l’individuazione dei cc.dd. “settori speciali”).
Il medesimo art. 164 chiarisce che le disposizioni di cui alla Parte III del nuovo “Codice” non si applicano “ai provvedimenti, comunque denominati, con cui le amministrazioni aggiudicatrici, a richiesta di un operatore economico, autorizzano, stabilendone le modalità e le condizioni, l’esercizio di un’attività economica che può svolgersi anche mediante l’utilizzo di impianti o altri beni immobili pubblici” (si pensi alle concessioni di beni del demanio marittimo)[18].
Di particolare rilevanza è la previsione dettata dal comma 3, secondo cui i servizi non economici di interesse generale non rientrano nell’ambito di applicazione della Parte III del nuovo “Codice”. Si tratta, in linea di massima, dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica di cui all’art. 113 bis del D.Lgs. n. 267 del 2000 – TUEL.
I commi 4 e 5 disciplinano poi l’affidamento dei lavori pubblici da parte dei concessionari, distinguendo il caso in cui essi siano qualificabili come amministrazioni aggiudicatrici dal caso in cui non lo siano.
Nella prima ipotesi, per l’affidamento di tali appalti “a valle” della concessione dovranno essere applicate in toto le disposizioni del nuovo “Codice”, mentre nel secondo caso troveranno applicazione unicamente le disposizioni di cui alla Parte III.
Elemento precipuo del rapporto concessorio, quale discrimen tra la concessione rispetto al contratto di appalto, diviene dunque il trasferimento del rischio operativo, id est l’assunzione del rischio, il fattore connesso all’incertezza del ritorno economico dell’attività di gestione tanto nelle concessioni di lavori che in quelle di servizi.
-
Il principio di libera amministrazione. Profili eurounitari e nazionali.
Nella sua accezione eurounitaria il principio in questione non risulta limitato alle scelte dell’amministrazione in ordine all’individuazione e all’organizzazione della procedura di gara ma – più in generale – alla scelta fra il modello dell’autoproduzione e quello dell’esternalizzazione.
Il principio in questione sembra rappresentare la traduzione normativa del divieto di riguardare al modello dell’autoproduzione – nonché dell’in house providing, che ne costituisce la traduzione più nota – quale modello sussidiario rispetto a quello della messa a gara.
In tal senso, le direttive UE 2014/23 e UE 2014/25 presentano un profilo di grande rilevanza non solo perché codificano le condizioni affinché si possa legittimamente far ricorso all’autoproduzione, sottraendo tale ambito all’applicazione delle regole dell’evidenza pubblica, ma anche perché, a supporto di tale orientamento, introducono il principio di «libera amministrazione delle autorità pubbliche».
L’art. 2 della “Direttiva concessioni” del 2014 definisce il principio della libera amministrazione delle autorità pubbliche secondo modalità particolarmente ampie.
Secondo detta norma «le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi (…)».
A corollario, è, inoltre, inequivocabilmente espresso l’assunto secondo cui le pp.aa. «possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli a operatori economici esterni» da leggersi anche alla luce dei considerata che riconoscono e riaffermano «il diritto degli Stati membri e delle autorità pubbliche di decidere le modalità di gestione ritenute più appropriate per l’esecuzione di lavori e la fornitura di servizi. In particolare, la presente direttiva non dovrebbe in alcun modo incidere sulla libertà degli Stati membri e delle autorità pubbliche di eseguire lavori o fornire servizi direttamente al pubblico o di esternalizzare tale fornitura delegandola a terzi (…)»[19].
Non a caso, anche la c.d. “Direttiva appalti” sembra sottendere il medesimo principio laddove stabilisce (al considerando 5) che “nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.
Orbene, i principi e le disposizioni surrichiamati palesano che per il diritto eurounitario le forme dell’autoproduzione e dell’internalizzazione non costituiscono mere eccezioni al principio liberoconcorrenziale della messa a gara, bensì forme paradigmatiche ed equiordinate di attribuzione degli appalti e delle concessioni.
A ben guardare, la prima incoercibile opzione che si profila per l’amministrazione pubblica chiamata ad affidare un appalto o una concessione è quella alternativa fra l’insourcing e l’outsourcing, sicché solo se tale libera scelta si risolve in favore del secondo modulo risulterà necessario assicurare il pieno e coerente rispetto dei principi della libera concorrenza.
Cionondimeno, nel dibattito interno i termini della questione si sono sviluppati in maniera differente[20].
A conferma, nel declinare il principio di libera organizzazione nell’ordinamento interno, il Legislatore del 2016 ne ha esteso la portata al di là di quanto apparentemente consentito dal diritto eurounitario e dalla presupposta legge di delega.
Segnatamente, l’art. 166, rubricato “Principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche” pare limitare la portata applicativa di tale principio alla scelta ed organizzazione della procedura per la scelta del concessionario, nonché alla scelta del modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi[21].
Dunque, il richiamo espresso alla “procedura per la scelta del concessionario” sembra presupporre un orientamento normativo contrario a forme di affidamento in regime di delegazione interorganica, avallando il modello unico della messa a gara.
Specularmente, la stessa più recente disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale (SIEG) vede il Legislatore delegato mostrare un atteggiamento analogo.
Nello specifico, lo schema di decreto legislativo attuativo della delega di cui all’art. 19 della L. n. 124 del 2015 stabilisce a sua volta che il ricorso all’in house providing nel settore dei SPL di rilevanza economica è possibile esclusivamente al ricorrere di stringenti condizioni, tra i quali: i) la specifica motivazione in ordine alla scelta del modello; ii) la puntuale indicazione delle ragioni di mancato ricorso al mercato e, in particolare, del fatto che tale scelta non sia comparativamente più svantaggiosa per i cittadini”; iii) la precisa indicazione dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche.
Trattasi di una scelta di politica normativa che pare non garantire effettiva attuazione al superiore principio di libera amministrazione, manifestando anche nel settore delle concessioni il pregiudizio verso le forme dell’affidamento diretto, quale leit motiv che caratterizza da circa un decennio l’atteggiamento del Legislatore nazionale.
-
Rischio ed equilibrio economico-finanziario.
Come anticipato, il tratto fondamentale dell’istituto della concessione – sia essa di lavori o di servizi – è dato dall’espresso trasferimento in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei lavori o dei servizi.
Il rischio operativo può comprendere il rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta, ovvero entrambi[22].
Per rischio sul lato della domanda si intende il rischio associato alla domanda effettiva di lavori o servizi che sono oggetto del contratto. Per rischio sul lato dell’offerta si intende, invece, il rischio associato all’offerta dei lavori o servizi che sono oggetto del contratto, in particolare il rischio che la fornitura di servizi non corrisponda alla domanda.
In ciò si coglie che non è stata data continuità agli indirizzi Eurostat 2004 in ordine alla tripartizione tra rischio di costruzione, di domanda e di disponibilità, preferendosi distinguere semplicemente tra rischio di domanda e di offerta[23].
Il primo è connesso all’eventualità che la fruizione del servizio possa subire un calo per l’affacciarsi sul mercato di un’offerta competitiva di altri operatori, oltreché per fattori esogeni la contrazione dei consumi generata da una crisi economica; il secondo emerge nei contratti in cui i privati vengono “remunerati esclusivamente dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore […] qualora il recupero degli investimenti effettuati e dei costi sostenuti dall’operatore per eseguire il lavoro o fornire il servizio dipenda […] dalla loro fornitura”; e ancora “per il rischio dal lato dell’offerta si intende il rischio associato all’offerta di lavori e servizi che sono oggetto del contratto, in particolare che la fornitura non corrisponda alla domanda”[24].
Come è stato osservato, si deve ritenere che i rischi dell’offerta riguardino essenzialmente quelle componenti che sono al di fuori del controllo dell’operatore privato, come l’andamento dei costi (anche finanziari), che dipendono dalle oscillazioni del mercato e come tali sono estranei alla volontà e alla capacità delle parti[25].
Il riferimento sembrerebbe dunque essere alle concessioni “fredde”, nelle quali l’amministrazione paga un canone periodico a fronte della realizzazione di una struttura e la gestione di un servizio, oppure solo per la gestione di un servizio. Il rischio in questione, quindi, verrebbe sostanzialmente a coincidere con quello di disponibilità.
Tale tesi, tuttavia non è del tutto pacifica. È infatti dubbio che possa aver rilievo, anche nell’ambito del rischio dell’offerta, il c.d. rischio di disponibilità, che pur era stato preso in considerazione in una importante decisione Eurostat del 2004, oltre che da una determinazione della nostra AVCP del 2010, come rischio tipico delle concessioni associate (ai servizi e) alle opere c.d. fredde. Infatti, poiché il rischio di disponibilità risulterebbe legato «alla capacità da parte del concessionario di erogare le prestazioni contrattuali pattuite, sia per volume che per standard di qualità», si tratterebbe di rischio dipendente dalla performance dello stesso concessionario, la cui rilevanza sembrerebbe esclusa dalla Direttiva”[26].
Del resto, il terreno elettivo dell’istituto è costituito principalmente dalle opere “calde” dotate di un’intrinseca capacità di generare reddito attraverso ricavi di utenza, ovvero, al più, dalle opere “tiepide”, in cui i ricavi di utenza non sono sufficienti a ripagare interamente le risorse impiegate, rendendosi necessario, per consentirne la fattibilità finanziaria, un contributo pubblico[27] non pare che la direttiva porti ad escludere l’applicazione della concessione ai servizi e alle opere fredde.
Per altro verso, la direttiva, sotto il profilo “quantitativo” del rischio non brilla per chiarezza.
Da un lato, afferma che il rischio operativo consiste nella “possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati e i costi sostenuti”[28] aggiungendo che “la parte del rischio trasferita al concessionario comporta una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile”[29]. D’altro lato, ammette che una parte del rischio può rimanere a carico dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore, stabilendo che “il fatto che il rischio sia limitato sin dall’origine non dovrebbe escludere che il contratto si configuri come concessione”, risultando espressamente esclusi soltanto i casi in cui il rischio sia eliminato del tutto[30].
Pare, sotto questo angolo prospettico, che la direttiva abbia recepito alcuni indirizzi interpretativi provenienti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui l’elemento distintivo essenziale della concessione è dato dal trasferimento del rischio sul concessionario. La CGUE non ha tuttavia parallelamente affermato che il rischio in esame dovesse essere pieno ed illimitato, giustificando così una certa prudenza del legislatore europeo in sede di commisurazione dello stesso[31].
Al netto di tali considerazioni, la direttiva rifugge un possibile equivoco, stabilendo che il rischio operativo non può coincidere con le conseguenze derivanti dalla cattiva gestione, inadempimenti o cause di forza maggiore, evenienze peraltro tutte comuni anche ai contratti di appalto[32].
Si tratterebbe di una clausola di salvezza per il concessionario privato in ordine all’assunzione del rischio operativo, dovendo esulare dal rischio operativo a carico del concessionario quello generato dal rischio finanziario sistemico, a fronte del quale, per entità e forza d’urto, nulla può l’operatore privato[33].
Sotto un profilo più squisitamente giuridico, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europa, la ricorrenza del riferito trasferimento del rischio operativo in capo al concessionario è stato storicamente individuato quale l’elemento distintivo che consente di identificare l’affidamento de quo quale una concessione e non invece un appalto[34].
Non è poi indispensabile che al concessionario sia trasferito “integralmente” il rischio operativo – sia esso sul lato domanda o offerta – ma è comunque necessario che la parte del rischio trasferita comporti una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato, tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile[35].
Viceversa, la limitazione del rischio non esclude che il contratto si configuri come concessione, come avviene, per esempio, nei settori con tariffe regolamentate (come quello autostradale) ovvero nel caso in cui il rischio operativo sia limitato mediante accordi di natura contrattuale che prevedano una compensazione parziale, inclusa una compensazione in caso di cessazione anticipata della concessione per motivi imputabili all’amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore ovvero per cause di forza maggiore[36].
Il non avvenuto trasferimento al prestatore del rischio legato alla prestazione dei servizi indica che l’operazione in parola rappresenta un appalto pubblico di servizi e non una concessione di servizi.
L’articolo 165 del Codice qualifica, poi, i contratti di concessione come i contratti in cui la maggior parte dei ricavi di gestione del concessionario proviene dalla vendita dei servizi resi al mercato. Detti contratti comportano il trasferimento al concessionario del rischio operativo riferito alla possibilità che, in condizioni operative normali, le variazioni del mercato incidano sull’equilibrio del piano economico finanziario[37], quale presupposto per la corretta allocazione dei rischi.
Dalle espressioni normative utilizzate s’inferisce come l’assunzione del rischio costruisca il centro nodale del rapporto concessorio, tanto che “la maggior parte dei ricavi di gestione del concessionario proviene dalla vendita dei servizi resi al mercato”.
Siffatto parametro comporta che l’equilibrio economico-finanziario del rapporto debba attingere ad utilità che derivino in modo prevalente e certo dalla libera intrapresa del concessionario[38] in questo confermando il tradizionale criterio distintivo rispetto ai contratti di appalto[39].
Con riferimento alle variazioni relative ai costi e ai ricavi oggetto della concessione, l’art. 165 esprime letteralmente che deve trattarsi di “variazioni che devono essere, in ogni caso, in grado di incidere significativamente sul valore attuale netto dell’insieme degli investimenti, dei costi e dei ricavi del concessionario”. Ne consegue che la posizione del concessionario è di esposizione effettiva alle fluttuazioni del mercato, secondo l’integralità delle dinamiche domanda-offerta, entro un orizzonte tendenziale in cui sia escluso che le perdite subite dal concessionario vengano poste a carico degli utenti[40].
Tuttavia, in quest’ambito, il legislatore ha provveduto a circoscrivere il rischio entro dei limiti di proporzionalità, ritenendo che garantire una congrua percentuale di esposizione vada a beneficio dell’interesse generale sotteso al rapporto concessorio, altrimenti insidiato da una indiscriminata esposizione alle possibili variabili operative[41].
Il secondo comma dell’art. 165 citato precisa che “L’equilibrio economico finanziario definito all’articolo 3, comma 1, lettera f), rappresenta il presupposto per la corretta allocazione dei rischi di cui al precedente comma 1”.
Pur nella necessità di non mutare il principio-cardine secondo cui nei rapporti concessori “il rischio di gestione eccede la normale alea di qualsiasi contratto a prestazioni corrispettive”[42] il legislatore comprende l’opportunità di ridisegnare l’equilibrio proprio del negozio concessorio, valorizzando l’interesse pubblico all’opera o alla prestazione, che sarebbe frustrato dalla qualificazione dell’istituto come contratto del tutto aleatorio, in cui la sopportazione del rischio per l’operatore economico finisce per recedere la realizzazione della progettualità.
Infine, il perseguimento dell’equilibrio anche nell’attribuzione del rischio viene codificato all’art. 165, secondo comma, nello stabilire che “ai soli fini del raggiungimento del predetto equilibrio, in sede di gara l’amministrazione aggiudicatrice può stabilire anche un prezzo consistente in un contributo pubblico ovvero nella cessione di beni immobili”, prevedendo altresì che “in ogni caso, l’eventuale riconoscimento del prezzo, sommato al valore di eventuali garanzie pubbliche o di ulteriori meccanismi di finanziamento a carico della pubblica amministrazione, non può essere superiore al trenta per cento del costo dell’investimento complessivo, comprensivo di eventuali oneri finanziari”.
-
Valore stimato e durata delle concessioni.
Il concetto di valore stimato della concessione è definito dall’art. 167 del D. Lgs. n. 50/2016, a mente del quale: a) è costituito dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto (in termini di corrispettivo per i servizi o lavori oggetto della concessione), al netto dell’IVA, stimato dall’amministrazione aggiudicatrice; b) è calcolato al momento della pubblicazione del bando di gara o di avvio della procedura di affidamento. Conformemente, nella più recente giurisprudenza amministrativa è stata avvalorata l’essenzialità e l’obbligatorietà dell’indicazione nel bando di gara del valore della concessione, in quanto dato utile a “garantire al partecipante alla procedura la possibilità di formulare la propria offerta cognita causa, ovvero nella più completa conoscenza dei dati economici del servizio da svolgere”[43].
Specificamente, l’art.167 del Codice Appalti fornisce i criteri di riferimento per la determinazione del valore della concessione ai fini delle “soglie comunitarie” previste dall’art. 35, d.lgs. citato.
Tale valore si compone, come premesso, del fatturato totale del concessionario, generato per tutta la durata del contratto, al netto dell’IVA, stimato dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie a tali lavori e servizi.
In tal senso si sono espressi i Giudici amministrativi nell’esaminare il caso di un appellante che riteneva legittima la determinazione del valore della concessione ancorandolo al parametro del canone concessorio e non al fatturato c.d. “ristorno” e cioè al costo della concessione, poiché trattasi di un elemento del tutto eventuale, affermando che esso deve, invece, essere calcolato sulla base del fatturato stimabile da parte del concessionario, nel caso de quo generato dal consumo dei prodotti da parte degli utenti del servizio di distribuzione automatica[44].
La scelta del metodo di calcolo del valore stimato delle concessioni deve rientrare nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 50/2016, nella considerazione dei punti fondamentali di seguito:
- il valore stimato della concessione deve essere calcolato con un metodo oggettivo, specificato nei documenti della concessione, al momento dell’invio del bando di concessione o, quando non sia previsto un bando, al momento in cui l’amministrazione aggiudicatrice o ente aggiudicatore avvia la procedura di aggiudicazione della concessione;
- se il valore della concessione, al momento dell’aggiudicazione, è superiore di più del 20% rispetto al valore stimato, la stima rilevante è costituita dal valore della concessione al momento dell’aggiudicazione;
- una concessione non può essere frazionata, salva la sussistenza di ragioni oggettive valide, valutate al momento della predisposizione del bando dall’amministrazione aggiudicatrice.
Dunque, è alla luce di tali criteri di determinazione, contenuti nel citato art. 167, d.lgs. n. 50/2016, che è possibile individuare, oggettivamente, il valore prestazionale della concessione e, al contempo, di circoscrivere l’eventuale ambito del contendere davanti al Giudice del Merito.
Accanto a detta puntuale prefissazione del valore della concessione, altro dato rilevante riguarda una parallela limitazione temporale della durata delle concessioni.
Ai sensi dell’art. 168, primo comma, “la durata delle concessioni è limitata ed è determinata nel bando di gara dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore in funzione dei lavori o servizi richiesti al concessionario. La stessa è commisurata al valore della concessione, nonché alla complessità organizzativa dell’oggetto della stessa” e “la durata massima della concessione non può essere superiore al periodo di tempo necessario al recupero degli investimenti da parte del concessionario individuato sulla base di criteri di ragionevolezza, insieme ad una remunerazione del capitale investito, tenuto conto degli investimenti necessari per conseguire gli obiettivi contrattuali specifici come risultante dal piano economico-finanziario”[45].
È palese come la durata del contratto di concessione pone l’attenzione sulla compatibilità della stessa con principi comunitari della tutela della concorrenza e della libera circolazione dei servizi, in quanto una durata eccessiva o non in linea con i parametri valutativi di cui sopra, potrebbe risultare contrastante con le direttive comunitarie[46].
Nonostante tale previsione tenda ad arginare le restrizioni nell’accesso al mercato[47], al primo comma, lett. a, dell’art. 175, in materia di modifica delle concessioni si statuisce: “Le concessioni possono essere modificate senza una nuova procedura di aggiudicazione nei seguenti casi: a) se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state espressamente previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili che fissino la portata, la natura delle eventuali modifiche, nonché le condizioni alle quali possono essere impiegate. Tali clausole non possono apportare modifiche che alterino la natura generale della concessione. In ogni caso le medesime clausole non possono prevedere la proroga della durata della concessione”.
È plastico il significato che il ricorso alla locuzione “in ogni caso” dovrebbe assumere, ponendo al riparo da indebite letture estensive.
-
Gli elementi distintivi tra appalto e concessione. I contratti misti.
La letteratura e la giurisprudenza si sono per lungo tempo confrontate al fine di chiarire la distinzione tra appalto e concessione, tanto in ordine ai lavori che ai servizi.
L’elemento discretivo tra appalti pubblici di servizi e concessione di servizi pubblici era stato individuato dalla Corte di Giustizia nel c.d. “rischio di gestione”, affermandosi che solo nella concessione, e non anche nell’appalto di servizi pubblici, il rischio di gestione graverebbe sull’aggiudicatario.
Come ampiamente osservato, infatti, a differenza dell’appalto pubblico di servizi con cui l’impresa si assume l’obbligo verso la pubblica amministrazione dietro remunerazione, ma non assume alcuna responsabilità verso gli utenti finali, ex adverso, mediante la stipula del contratto di concessione di servizi pubblici l’impresa s’impegna ad erogare le prestazioni al pubblico con connesso rischio di gestione economica per tutta la durata del rapporto di concessione.
La dottrina giuspubblicistica tradizionale distingueva l’appalto di servizi dalla concessione di servizi ricorrendo a una pluralità di criteri distintivi. Tra i più rimarchevoli, la natura unilaterale del titolo concessorio di affidamento del servizio pubblico rispetto alla natura negoziale dell’appalto; la connotazione surrogatoria dell’attività del concessionario di pubblico servizio, chiamato a realizzare i compiti istituzionali dell’ente pubblico concedente, rispetto all’appaltatore che realizza attività di mera rilevanza economica nell’interesse del committente pubblico; il trasferimento di potestà pubbliche al concessionario, rispetto all’appaltatore che esercita solo prerogative proprie di qualsiasi soggetto economico.
La dottrina più recente, invece, ha posto l’accento sulla differenza di oggetto tra i due istituti: nell’appalto di servizi l’oggetto si sostanzia in prestazioni rese a favore della pubblica amministrazione; nella concessione di servizi si traduce in un rapporto necessariamente trilaterale tra pubblica amministrazione, concessionario e utenti del servizio, su cui grava il costo del servizio.
E ancora, diverso è il destinatario della prestazione: nell’appalto è la sola pubblica amministrazione, nel contratto di concessione è la collettività degli utenti; nonché la remunerazione, che nella concessione deriva in via principale dalla prestazione del servizio verso il pubblico.
Sulla tematica, la giurisprudenza nazionale è intervenuta con l’obiettivo di scongiurare la reiterazione di tentativi di elusione delle regole della concorrenza rispetto ai contratti di concessione o di affidamento di servizi pubblici[48], chiarendo che le concessioni di servizi si distinguono dagli appalti di servizi per il “fenomeno di traslazione dell’alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato” e non già per il carattere provvedimentale dell’attività, né quale vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato, né per la natura autoritativa o provvedimentale rispetto alla natura contrattuale dell’appalto.
È sostanzialmente la modalità di remunerazione il tratto distintivo della concessione dall’appalto di servizi[49].
Si è, inoltre, sostenuto che nella concessione di pubblici servizi l’amministrazione non gestisce direttamente le operazioni tramite contratti di appalto, ma si “spoglia della gestione commettendola ad un altro soggetto”; tale iato giustificherebbe il permanere in capo all’amministrazione di margini di discrezionalità nella regolazione del rapporto rispetto alla normativa in tema di appalto di servizi[50].
Quanto alla differenza tra concessione di lavori e concessione di servizi essa si rinviene nel trasferimento del rischio di gestione del servizio.
Orbene, laddove l’affidamento preveda l’esecuzione di lavori congiuntamente alla gestione di un servizio, la giurisprudenza ha cercato di chiarire i contorni sostenendo che debba svolgersi una evidenziazione del nesso di strumentalità che lega la gestione del servizio e l’esecuzione di lavori.
Ne discende che solo ove la gestione del servizio sia strumentale alla costruzione dell’opera, poiché consente il reperimento dei mezzi finanziari necessari, è configurabile una concessione di lavori pubblici. Al contrario, laddove l’espletamento dei lavori è strumentale, in termini di manutenzione, alla gestione di un servizio pubblico il cui funzionamento è già assicurato da un’opera esistente, si tratterà di una concessione di servizi[51].
Il Codice Appalti 2016, inoltre, prevede una precisa disciplina sui contratti misti di concessioni all’art. 169.
Detta norma prevede che le concessioni aventi per oggetto sia lavori che servizi sono aggiudicate secondo le disposizioni applicabili al tipo di concessione che caratterizza l’oggetto principale del contratto.
Laddove si tratti di concessioni miste che consistono in parte in servizi sociali, e altri servizi specifici elencati nell’allegato IX, l’oggetto principale è determinato in base al valore stimato più elevato tra quelli dei rispettivi servizi.
Se le diverse parti di un determinato contratto sono oggettivamente separabili, gli enti aggiudicatori possono scegliere di aggiudicare concessioni distinte per le parti distinte o di aggiudicare un’unica concessione.
Nel caso di contratti aventi ad oggetto sia elementi disciplinati dal codice che altri elementi, le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori possono scegliere di aggiudicare concessioni distinte per le parti distinte o di aggiudicare una concessione unica. Dunque, se le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori scelgono di aggiudicare concessioni separate, la decisione che determina quale regime giuridico si applica a ciascuno di tali concessioni distinte è adottata in base alle caratteristiche della parte distinta. Se le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori scelgono invece di aggiudicare una concessione unica, il codice si applica alla concessione mista che ne deriva, a prescindere dal valore delle parti cui si applicherebbe un diverso regime giuridico e dal regime giuridico cui tali parti sarebbero state altrimenti soggette.
Chiaramente, la scelta tra l’aggiudicazione di un’unica concessione o di più concessioni distinte non può essere compiuta con lo scopo di eludere l’applicazione del codice.
E ancora, se le diverse parti di un determinato contratto sono oggettivamente inseparabili, il regime giuridico applicabile è determinato in base all’oggetto principale del contratto in questione (principio di prevalenza).
Nel caso, differente, di contratti misti che contengono sia elementi di concessioni nonché di appalti nei settori ordinari o speciali il contratto misto è aggiudicato in conformità con le disposizioni che disciplinano gli appalti nei settori ordinari o nei settori speciali. Tuttavia, nel caso in cui il contratto misto concerna elementi sia di una concessione di servizi che di un contratto di forniture, l’oggetto principale è determinato in base al valore stimato più elevato tra quelli dei rispettivi servizi o forniture.
E ancora, nel caso di concessioni per cui è oggettivamente impossibile stabilire a quale attività siano principalmente destinate, la concessione è aggiudicata secondo le disposizioni che disciplinano le concessioni aggiudicate dalle amministrazioni aggiudicatrici, se una delle attività cui è destinata la concessione è soggetta alle disposizioni applicabili alle concessioni aggiudicate dalle amministrazioni aggiudicatrici e l’altra attività è soggetta alle disposizioni relative alle concessioni aggiudicate dagli enti aggiudicatori.
La concessione è invece aggiudicata secondo le disposizioni che disciplinano gli appalti nei settori ordinari se una delle attività è disciplinata dalle disposizioni relative all’aggiudicazione delle concessioni e l’altra dalle disposizioni relative all’aggiudicazione degli appalti nei settori ordinari. All’opposto, la concessione è aggiudicata secondo le disposizioni che disciplinano le concessioni se una delle attività cui è destinata la concessione è disciplinata dalle disposizioni relative all’aggiudicazione delle concessioni e l’altra non è soggetta né alla disciplina delle concessioni né a quella relativa all’aggiudicazione degli appalti nei settori ordinari o speciali.
Quanto ai servizi pubblici locali correlati allo sviluppo e alla promozione delle comunità locali, parte della dottrina ha osservato che l’art. 112 TUEL fa riferimento all’attività oltre che al bene.
Di conseguenza, può essere considerato servizio ogni attività in grado di garantire una maggiore fruibilità del bene anche se si tratti di bene che soggiace al regime demaniale. In tal senso risulta difficile definire a priori i servizi pubblici53.
In ultima istanza, in tema di riparto di giurisdizione, la Consulta[52], pur avendo riscritto l’art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, che devolveva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “tutte le controversie in materia di pubblici servizi”, non ha fatto chiarezza. Originariamente, la disciplina concernente il riparto di giurisdizione nei servizi pubblici era contenuta nell’art. 5 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, poi sostituito dall’art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, a sua volta modificato dall’art. 7, comma 1, lett. a) l. 205/2000, a seguito di dichiarazione di incostituzionalità della Corte Costituzionale, sentenza 17 luglio 2000, n. 262.
Nella pronuncia de qua, la Corte Costituzionale ha avuto ad affermare che la cognizione del giudice amministrativo dovesse estendersi alle più attuali forme gestionali dei servizi pubblici, derivanti dall’attuazione o comunque dell’influenza del diritto comunitario.
La tutela cautelare c.d. “innominata”, operata dalla l. n. 205/2000, avrebbe consentito al giudice amministrativo di assicurare in modo pieno e adeguato la tutela in via d’urgenza anche dei diritti soggettivi, senza l’esigenza di un intervento suppletivo del giudice ordinario, o dell’applicazione analogica di norme processual-civilistiche da parte dello stesso Giudice amministrativo.
Si è così sostenuto che la sentenza della Corte Costituzionale appare in linea di controtendenza, proponendo di fondare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sul rapporto autorità-libertà, anziché sulla contrattualizzazione dei rapporti tra pubblica amministrazione e privati.
-
Conclusioni.
Dall’analisi tassonomica delle superiori considerazioni possono trarsi le seguenti conclusioni.
In termini del tutto generali è possibile affermare che la codificazione della traslazione in capo al concessionario del rischio operativo quale condizione per poter qualificare l’affidamento quale concessione costituisce una positivizzazione di principi già delineati a livello comunitario dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea.
Come ampiamente illustrato, quest’ultima ha provveduto ad elaborare una distinzione tra i tratti distintivi dell’appalto rispetto alla concessione, nonché, sotto un profilo finanziario-contabile da Eurostat, ha dettato regole omogenee per la classificazione in bilancio dei debiti contratti dagli affidatari di commesse pubbliche, asserendo che si tratta di partenariato pubblico privato esclusivamente nel caso in cui sussista un effettiva traslazione del rischio operativo in capo al soggetto privato.
Cionondimeno, non può obliterarsi che nell’ampio concetto di partenariato pubblico privato la concessione costiutisce una species a carattere contrattuale, da distinguersi da PPP istituzionalizzato esemplificato dalle società miste deputate all’esecuzione di servizi di interesse economico generale.
Nell’ottica sovranazionale, dunque, la concessione è piegata alle esigenze del mercato: non solo il concessionario è scelto a mezzo di procedure ad evidenza pubblica, ma quest’ultimo è un partner privato che si confronta con il mercato, che sottostà alle regole concorrenziali e che deve giocoforza mirare a contenere i costi e massimizzare l’efficienza.
Volume consigliato
Manuale dell’illecito amministrativo
La legge 24 novembre 1981, n. 689 è ancora oggi, dopo 40 anni, il pilastro fondativo dell’intero sistema sanzionatorio amministrativo. Ogni tentativo di superamento di questo sintetico ed efficace impianto normativo è naufragato, così come ogni rimaneggiamento estemporaneo ha fatto peggio del problema che si intendeva correggere. Il modello di riferimento per la punizione “extra penale” resta quello della Legge 689/1981. Si può, dunque, affermare che l’illecito amministrativo è un’autonoma figura giuridica, perfettamente connaturata all’esercizio del potere amministrativo, esercitato con regole proprie, arricchite da feconde contaminazioni provenienti dalle altre norme amministrative a struttura procedimentale. In omaggio a questa unitarietà di struttura e funzione, è parso cosa utile approntare un testo, per gli operatori pratici, che abbracciasse tutti gli aspetti della materia: dalle nozioni basilari, all’analisi delle fasi dell’accertamento e dei procedimenti di irrogazione delle sanzioni pecuniarie e accessorie, fino al contenzioso e al processo. Questa terza edizione dell’opera, che esce appunto in concomitanza con il quarantesimo compleanno della legge 689, è stata interamente revisionata, aggiornata con le novità normative e giurisprudenziali, nonché arricchita con nuovi commenti e analisi, in modo da far cogliere appieno ai lettori la dinamica evolutiva degli istituti che disciplinano forme e modi della punizione amministrativa. Giuseppe NapolitanoAvvocato, Dirigente comunale, è Dottore di ricerca in Diritto amministrativo e specializzato nella stessa materia nonché in Scienze dell’amministrazione. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, collabora con svariate agenzie per la formazione in ambito universitario e tecnico-professionale.
Giuseppe Napolitano | 2021 Maggioli Editore
65.00 € 52.00 €
Note
[1] Per approfondimenti vd. CASAVOLA H. C., Le nuove direttive sugli appalti pubblici e le concessioni. Le regole e gli obiettivi strategici per le politiche UE 2020, in Giorn. dir. amm., XII, 2014, p. 1135; v. anche MACCHIA M., Il nuovo codice dei contratti pubblici. I contratti di concessione, Giorn. dir. amm., IV, 2016, p. 436; RICCHI M., La nuova Direttiva comunitaria sulle concessioni e l’impatto sul Codice dei contratti pubblici, in Urb. e app., VII, 2014, p.741.
[2] In base all’art. 8, la direttiva si applica ai contratti di valore pari o superiore ai cinque milioni e duecentoventicinquemila euro. Tale valore è costituito dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto, al netto dell’IVA, stimato dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie a tali lavori e servizi.
[3] CHITI M.P., Il Partenariato Pubblico Privato e Project Finance, Maggioli Editore, Milano, 2020, p. 38, definisce la concessione “sicuro istituto giuridico di Partenariato”.
[4] Benvenuti scrive di un istituto che ha subito adattamenti ed è talmente intrecciato con disposizioni speciali che “tranne la sua natura e il suo diverso modo di operare in taluni momenti” (ad es. la revoca o la decadenza in luogo della risoluzione) esso non si comporta, in pratica, diversamente dall’appalto; BENVENUTI F., Disegno dell’Amministrazione Italiana, Cedam, Padova, 1996, p. 343. Ma un simile approdo interpretativo era già intuibile nelle considerazioni coeve degli autori del tempo – cfr. PERICU G., ROMANO A., SPAGNUOLO VIGORITA V., La concessione di pubblico servizio, Giuffrè, Milano, 1995 – come viene oramai riconosciuto dalla dottrina dominante (in proposito, si veda RIZZO G., La concessioni di servizi, Giappichelli, Torino, 2012, p. 56).
[5] Cfr, art. 3, dir. 2014/23/UE.
[6] 136 Cfr. art. 5, par. 1, lett. a) e b), dir. 2014/23/UE.
[7] Art. 3, lett. uu), d.lgs. 50/2016.
[8] Art. 3, lett. vv), d.lgs. 50/2016.
[9] GALLI R., Nuovo Corso di diritto amministrativo, Cedam, Padova, 2019, pag. 988.
[10] Sul punto si veda F. GULLO, Provvedimento e contratto nelle concessioni amministrative, Padova, 1965, nonché V. FERRARO, La concessione e il diritto europeo: il complesso equilibrio tra la tutela della concorrenza e la specialità del regime dei contratti della Pubblica Amministrazione, in Riv. Trim. Dir. Pubb. Com. 2016, pp. 259 e ss.
[11] Tra i tanti, G. PERICU, Il rapporto di concessione di pubblico servizio, in La concessione di pubblico servizio G. PERICU, A. ROMANO e SPAGNOULO VIGORITA( a cura di), Giuffrè, Milano, 1995; C. FRANCHINI, I contratti con la pubblica amministrazione, in P. RESCIGNO – E. GABRIELLI (diretto da), Trattato dei contratti, Utet, Torino, 2007; N. BONTEMPO, L’istituto della concessione nell’ambito dei sistemi di esecuzione di opere pubbliche, in Riv. Trim. Appalti, 1995, pp. 267 ss.; F. PELLIZZER, Le concessioni di opera pubblica. Caratteri e principi di regime giuridico, Cedam, Padova, 1990.
[12] Che trova fondamento in una nota pronuncia della Corte di Cassazione 12 gennaio 1910.
[13] M. S. GIANNINI, Diritto pubblico dell’economia, Il mulino, Bologna, 1995; F. TRIMARCHI, Profili organizzativi della concessione di pubblici servizi, Giuffrè, Milano, 1967.
[14] Sull’evoluzione della nozione di concessione di lavori pubblici nell’ordinamento interno, tra gli altri, G. PASQUINI, Pubblico e privato per le infrastrutture di pubblica utilità: temi e prospettive, in M. CABIDDU (a cura di), Modernizzazione del paese. Politiche, opere, servizi pubblici, Franco Angeli, Milano, 2005.
[15] Artt. 170-173 d.lgs. 50/2016.
[16] La stessa Adunanza Plenaria aveva chiaramente precisato che “non sono applicabili alla concessione di servizi tutte le norme del codice degli appalti” ed “infatti, a norma dell’art. 30, la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità” (Cons. Stato, Ad. Plen., 6 agosto 2013, n. 19).
[17] Vd. L. BERIONNI, L’applicabilità delle norme del Codice dei contratti pubblici alle concessioni di servizi, in Foro Amm. 2014, n. 7/8, pp. 1913 ss.
[18] Con riguardo, invece alla disciplina delle procedure di aggiudicazione e di affidamento delle concessioni, il comma 2 dell’art. 164 opera un rinvio alla generale disciplina di cui alle Parti I e II (sia pure attraverso l’introduzione di una clausola di compatibilità dai contorni applicativi non del tutto definiti). In base al comma 2, “alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II, del presente codice, relativamente ai principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione”.
[19] Direttive UE nn. 23 e 24, considerando § 5.
[20] Ex multis, cfr. C. Volpe, Le nuove direttive sui contratti pubblici e l’in house providing: problemi vecchi e nuovi, in www.giustizia-amministrativa.it.
[21] Ai sensi dell’art. 166, “le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori sono liberi di organizzare la procedura per la scelta del concessionario, fatto salvo il rispetto delle norme di cui alla presente Parte. Essi sono liberi di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza ed accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici”.
[22] Cfr. art. 5, n. 1), dir. 2014/23/UE.
[23] Tra i principi espressi da Eurostat nella celebre Decisione del 2004 veniva stabilito che il debito eventualmente contratto (funzionalizzato alla realizzazione dei lavori affidati) da parte dell’affidatario del contratto pubblico poteva essere posto quale passività di bilancio del soggetto privato anziché da parte della pubblica amministrazione affidante, a condizione che sussistessero le anzi citate circostanze fattuali di esternalizzazione dei rischi. In altri termini, attraverso tali raccomandazioni contabili, l’istituto di statistica europeo evidenziava che per poter verificare che l’affidamento posto in essere dall’amministrazione si concreti in una vera a propria traslazione in capo a terzi di responsabilità finanziarie e contabili circa la restituzione delle somme erogate a titolo di finanziamento nei confronti dell’affidatario di un contratto pubblico, è necessario che l’affidatario sia esposto da un punto di vista strettamente contrattuale nei riguardi dell’ente affidante alternativamente o al rischio delle fluttuazioni del mercato (domanda di prestazioni) ovvero al rischio di poter offrire la disponibilità piena ed esatta delle prestazioni ad esso affidate tramite gara ad evidenza pubblica.
[24] V. i considerando 18, 19 e 20, dir. 2014/23/UE.
[25] Cfr. G. GRECO, La direttiva in materia di “concessioni”.
[26] Cfr. ancora G. GRECO, op. ult. cit.
[27] Si pensi, a titolo esemplificativo, agli impianti sportivi e, per i servizi, a quelli di trasporto pubblico locale.
[28] Considerando 18, dir. 2014/23/UE.
[29]Art. 5, punto 1), par. 2.
[30] Considerando 18 e 19, dir. 2014/23/UE.
[31] A fortiori, si è ritenuto sufficiente anche la traslazione di un rischio ridotto. V. in particolare Corte Giustizia UE, n. 274/2011, cit., secondo la quale “invero, è normale che alcuni settori di attività, in particolare quelli riguardanti attività di pubblica utilità […] siano disciplinati da normative che possono avere per effetto di limitare i rischi economici che si corrono. In particolare, le amministrazioni aggiudicatrici devono conservare la possibilità, agendo in buona fede, di assicurare la prestazione dei servizi attraverso una concessione, qualora esse reputino che si tratti del modo migliore per assicurare il servizio pubblico in oggetto, e ciò anche qualora il rischio legato alla gestione sia molto ridotto”.
[32] Il considerando 20 della Direttiva chiarisce che “Il rischio operativo dovrebbe essere inteso come rischio di esposizione alle fluttuazioni del mercato, che possono derivare da un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta ovvero contestualmente da un rischio sul lato della domanda e sul lato dell’offerta. Per rischio sul lato della domanda si intende il rischio associato alla domanda effettiva di lavori o servizi che sono oggetto del contratto. Per rischio sul lato dell’offerta si intende il rischio associato all’offerta dei lavori o servizi che sono oggetto del contratto, in particolare il rischio che la fornitura di servizi non corrisponda alla domanda. Ai fini della valutazione del rischio operativo, dovrebbe essere preso in considerazione in maniera coerente ed uniforme il valore attuale netto dell’insieme degli investimenti, dei costi e dei ricavi del concessionario”.
[33] Sul punto v. M. RICCHI, op. cit.
[34] A tal proposito la Corte ha più volte rilevato che: “si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest’ultimo assume il rischio legato alla gestione dei servizi in questione (sentenza 18 luglio 2007, C‑382/05, Commissione/Italia, Racc. pag. I‑6657, punto 34, e giurisprudenza ivi citata)” (Corte di Giustizia delle C.E., sezione III, 13 ottobre 2008, C-437/07).
[35] Come chiarito nel 18°considerando, la caratteristica principale di una concessione implica sempre il trasferimento al concessionario di un rischio operativo di natura economica che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati e i costi sostenuti in condizioni operative normali, anche se una parte del rischio resta a carico dell’amministrazione aggiudicatrice. Non si sarebbe quindi di fronte ad una concessione ma ad un semplice appalto nel caso in cui l’operatore economico fosse sollevato da qualsiasi perdita potenziale mediante la garanzia di un introito minimo assicurato dall’amministrazione aggiudicatrice pari o superiore agli investimenti effettuati e ai costi sostenuti in relazione all’esecuzione del contratto.
[36] Cfr. 19° considerando.
[37] Ai sensi dell’art. 3 lett. fff) si definisce «equilibrio economico e finanziario», la contemporanea presenza delle condizioni di convenienza economico e sostenibilità finanziaria. Per convenienza economica si intende la capacità del progetto di creare valore nell’arco della durata del contratto e di generare un livello di redditività adeguato per il capitale investito; per sostenibilità finanziaria si intende la capacità del progetto di generare flussi di cassa sufficienti a garantire il rimborso del finanziamento.
[38] “Quando un operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull’utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha concessione, ragione per cui può affermarsi che è la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione dall’appalto di servizi” (Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2014, n. 2624).
[39] Per cui si è affermato che “il concetto di rischio è il centro della ricostruzione del tratto distintivo fra appalti e concessioni”: G. MONTEDORO, La disciplina delle concessioni nella nuova direttiva-quadro in attesa della disciplina compiuta del parteneriato pubblico privato, in Nuovo diritto degli appalti pubblici dopo la direttiva n. 18 del 2004, a cura di M.A. SANDULLI e R. GAROFOLI, Milano, 2005, p. 134.
[40] G. RONDONI, Affidamento in concessione e “rischio operativo”.
[41] R. DE NICTOLIS, Il nuovo Codice dei contratti pubblici, in Urbanistica e Appalti, n. 5/2016, p. 43.
[42] R. CARANTA, Concessione di opere e servizi, in Encicl. Dir., Aggiornamento, vol. V, Milano, 2001, p. 249.
[43] Ex multis, Tar Toscana sez. II – sentenza 1° febbraio 2017 n. 173; Cons. Stato, sez. V, sentenza 20 febbraio 2017 n. 748; sez. III, 18 ottobre 2016, n. 4343.
[44] Cons. Stato, sez. III, 18 ottobre 2016 n. 4343.
[45] Cionondimeno, rispetto alle precedenti bozze, dal secondo comma dell’art. 168 è stato espunto un riferimento che attribuiva connotazione oggettiva al concetto di limitatezza temporale, mutuato dall’art. 18 della direttiva, indicante una durata inferiore ai 5 anni.
[46] Cfr. A. DI GIOVANNI, I servizi di interesse generale tra poteri di autorganizzazione e concessione di servizi, ed. 2018 p.137 ss.; in Collana “Nuovi problemi di amministrazione pubblica”, diretta da F. G. SCOCA.
[47] Ex multis, la sentenza TAR l’Aquila del 25 Novembre 2019 n. 598, nel caso di una società in disaccordo con l’ente comunale per questioni relative alla proroga del contratto di concessione tra l’ente e la società stessa, ribadisce che ai sensi dell’art.168 comma 2 del d.lgs. 50/2016, la “proroga delle concessioni per il periodo di tempo necessario al recupero degli investimenti da parte del concessionario, trova applicazione solo per le concessioni ultraquinquennali e quindi non può trovare applicazione nel caso di specie, posto che l’originario contratto di concessione aveva durata quadriennale”.
[48] Cons. St., sez. V, 30 aprile 2002, n. 2294; Tar Puglia-Bari, sez. II, 22 aprile 1998, n. 37, in Tar, 1998, I, p. 2753 ss; Tar Puglia, sez. I, 20 marzo 2000, n. 1067, in Tar, 2000, I, pp. 2790 ss; Tar Emilia-Romagna, Bologna, sez. II, 16 luglio 1998, n. 281, in Tar, I, pp. 3735 ss., Tar Lombardia, Milano, sez. III, 4 agosto 2004, n. 3242.
[49] Secondo il Consiglio di Stato, un “servizio pubblico si rivela quale appalto di servizi, quando il suo onere sia interamente a carico dell’amministrazione, mentre se il servizio venga reso non a favore dell’amministrazione ma di una collettività indifferenziata di utenti, e venga almeno in parte pagato dagli utenti all’operatore del servizio, allora si è in ambito concessorio”.
[50] Cons. St., sez. V, 7 febbraio 2003, n. 645.
[51] Cons. St., sez. V, 14 aprile 2008, n. 1600.
[52] Corte costituzionale 6 luglio 2004, n. 204.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento