I contratti di impresa asimmetrici: il terzo contratto

Nella dottrina civilistica moderna è correntemente invalsa l’espressione “terzo contratto[1] per identificare un modello – e non un tipo – contrattuale basato su una relazione negoziale tra due imprenditori connotata da asimmetria di natura economica: si tratta cioè di un rapporto contrattuale business to business (B2B) tra un imprenditore forte ed un imprenditore debole, con la specificazione che la debolezza che connota quest’ultimo vada intesa non in senso contrattuale bensì in senso economico e che giustifica una normativa di protezione rinvenibile prevalentemente nella legge 18 giugno 1998, n. 192 in tema di subfornitura.

Ebbene, prima di esaminare la predetta disciplina e al fine di poter meglio cogliere ed apprezzare i tratti distintivi della categoria in esame, occorre muovere dalla espressione stessa di terzo contratto, che sottintende necessariamente quella di “primo” e “secondo” contratto.

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Il “primo contratto”: indifferenza degli status soggettivi

In particolare, la locuzione “primo contratto” si riferisce ai c.d contratti di diritto comune, regolati in base alla disciplina tradizionale di cui al codice civile, il quale, essendo improntato al principio di indifferenza degli status soggettivi dei contraenti, li posiziona su un piano di assoluta parità ed eguaglianza.

In altri termini, il “primo contratto” è il contratto inter pares, tra parti eguali, dotate di forza negoziale equivalente ed informate in egual misura, in cui l’autonomia privata è esaltata al massimo, con conseguente attribuzione del potere di definire liberamente l’equilibrio economico-giuridico dell’assetto negoziale alle parti stesse, le quali sono state evocativamente qualificate dalla giurisprudenza di legittimità come, “salvo particolari esigenze di tutela, i migliori giudici dei loro interessi”.[2]

 

Il “secondo contratto” ed il “terzo contratto”: rilevanza delle qualifiche soggettive e asimmetria informativa ed economica

L’ordinamento nazionale, fortemente influenzato dal diritto europeo, ha affiancato al tradizionale modello del contratto tra eguali, nuovi modelli contrattuali “tra diseguali” che, lungi dal mostrarsi insensibili alle qualifiche soggettive dei paciscenti, sono animati dalla opposta esigenza di valorizzarle, prendendo in considerazione le parti nella loro asimmetria, tanto informativa quanto economica.

Più nello specifico, il “secondo contratto”, posto in essere tra professionista e consumatore (business to consumer, B2C), è un contratto asimmetrico che appresta una disciplina di tutela nei confronti del consumatore, il quale viene infatti considerato la parte debole della relazione negoziale, alla luce della posizione di debolezza contrattuale che lo connota e che deriva dalla condizione di asimmetria di tipo informativo rispetto al contraente professionista, il quale invece contratta in un settore in cui svolge la propria attività in via professionale. Si tratta di una “debolezza presunta”, che prescinde da un accertamento in concreto della sussistenza di un effettivo squilibrio nel momento di stipulazione del singolo atto di consumo.[3]

La disciplina contenuta nel d.lgs. 206/2005 (Codice del consumo) è quindi orientata nel senso di apprestare al consumatore, alla luce del deficit informativo in cui fisiologicamente incorre, una tutela più pregnante, esemplificativamente rappresentata dai puntuali obblighi di informazioni posti a carico del professionista nonché dalla nullità testuale di protezione necessariamente parziale delle clausole vessatorie prevista dall’art. 36 d.lgs. 206/2005. [4]

Il “terzo contratto”

Volgendo alla tematica che qui occupa, l’espressione “terzo contratto”, come anticipato, allude ad un rapporto negoziale che, come il “secondo contratto”, dà origine ad una negoziazione asimmetrica, ma, diversamente da esso, è posto in essere tra due imprenditori, con il logico corollario che, in questo caso, la debolezza che connota l’imprenditore debole non è di tipo informativo, bensì di tipo economico.

In altri termini, in ipotesi di terzo contratto, la disparità dei paciscenti non nasce da un strutturale deficit informativo bensì dalla situazione di dipendenza economica in cui viene a trovarsi un professionista rispetta all’altro.[5]

Giova altresì mettere in evidenza una divergenza strutturale tra i contratti del secondo e del terzo tipo: mentre i primi sono contratti che per lo più esauriscono i loro effetti in un singolo ed isolato scambio, e quindi contratti ad esecuzione istantanea, i secondi, al contrario, sono fisiologicamente deputati a creare tra gli imprenditori contraenti una relazione destinata a perdurare nel tempo; ancora, mentre in relazione ai primi la debolezza del consumer preesiste alla contrattazione, nei secondi la debolezza del professionista astrattamente non sussiste prima della relazione negoziale, ma segue e nasce in seguito al contratto, nel corso della sua esecuzione.

La base legale fondamentale di riferimento del terzo contratto: la l. n. 192/1998

Ebbene, quanto alla normativa di riferimento, il terzo contratto non rinviene la sua base legale in una unica e specifica disciplina positiva,  essendo al contrario contemplato in una pluralità di leggi, anche se in modo implicito, come nel d.lgs. 9 ottobre 2012 n. 231 in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali o nella legge 6 maggio 2004, n. 129 sull’affiliazione commerciale (comunemente nota come contratto di franchsing).

Senonché, la base normativa fondamentale che costituisce il punto nevralgico e di riferimento della categoria dottrinaria in esame va rinvenuta senza dubbio nella legge 19 giugno 1998, n. 192, recante la disciplina in materia di subfornitura, che a ben vedere non costituisce un tipo contrattuale bensì uno schema generale di regolazione delle relazioni inter-imprenditoriali.[6]

Più nello specifico, dall’art. 1 della L. 192/1998, che fornisce la definizione della subfornitura, si evincono due schemi contrattuali, e cioè la c.d. subfornitura di prodotto o di servizio e la c.d. subfornitura di lavorazione[7]: l’imprenditore subfornitore, con la prima, “si impegna a effettuare per conto di una impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima”; con la seconda, invece, “si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso”.

Tipologie di subfornitura

Le due species di subfornitura, che sono accomunate dalla circostanza che l’esecuzione delle lavorazioni e delle forniture avviene “in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente”, sono sintomatiche dunque della  dipendenza tecnologico/organizzativa, e quindi economica, del subfornitore, imprenditore debole, rispetto al committente, imprenditore forte.

In altri termini, il modus operandi sotteso a questo modello generale di contrattazione asimmetrica è rappresentato dalla integrazione dell’attività dell’imprenditore debole, i.e. del subfornitore, nell’attività dell’imprenditore forte, ossia del committente: in particolare, il primo si inserisce nel ciclo economico/produttivo del secondo (costruendo beni, fornendo prodotti, erogando servizi), attraverso la stipula di diversi tipi contrattuali, quali il contratto d’opera in relazione alla subfornitura di lavorazione o il contratto di compravendita in relazione alla subfornitura di lavorazione, contratti, questi, di distribuzione interna, posto che i prodotti, i servizi e le lavorazioni sono destinati a collocarsi all’interno del ciclo produttivo dell’imprenditore committente.

Asimmetria economica del terzo contratto: divieto di dipendenza economica

Quanto al regime giuridico del terzo contratto, che si ricava in maniera predominante dalla L. 192/1998, risulta centrale il divieto posto dall’art. 9 di abuso di dipendenza economica.

È doveroso sottolineare come la disposizione in parola non vieti la situazione di dipendenza economica ex se, definita dal legislatore come “la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi” ed individua i criteri”, bensì l’abuso della stessa.

Ebbene, con riferimento al concetto di abuso[8], il legislatore non ha provveduto a fornire una definizione ma ha optato per una sua esemplificazione, ravvisandolo nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di acquistare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie e nella arbitraria interruzione delle relazioni commerciali in essere (co. 2, art. 9 L. 192/1998).

In definitiva, dalla disposizione in commento, emerge testualmente come il sintomo di dipendenza economica dell’imprenditore debole sia costituito dalla impossibilità, a fronte della estrema specializzazione in determinate forniture o specifiche lavorazioni in favore dell’imprenditore forte,  di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”, con conseguente perpetrazione di quella che è stata definita “estorsione contrattuale”[9] da parte del committente.

 

Le altri basi legali di riferimento del terzo contratto

Si è già osservato come la teorica del terzo contratto rinviene la sua base legale principalmente nell’art. 9 L. 192/1998, il quale è espressamente richiamato anche in altre leggi di settore, quali la legge 2 maggio 2017, n. 81 recante Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato[10] ed il decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 recante Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività.[11]

Peraltro, come anticipato, ulteriori – seppur non espressi – referenti legislativi in tema di “terzo contratto” vanno rintracciati altresì nel d.lgs. 9 ottobre 2012 n. 231 in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali[12] e nella la legge 6 maggio 2004, n. 129 sull’affiliazione commerciale (comunemente nota come contratto di franchsing), accomunati dalla medesima esigenza di protezione che il terzo contratto è volto a garantire, ossia la tutela dell’imprenditore debole.

 

Tutela privata del terzo contratto

Il rimedio predisposto dalla L. 192/1998 al fine di sanzionare l’abuso di dipendenza economica consiste, ai sensi dell’art. 9, co. 3, nella nullità del patto con cui esso si realizza.

Si tratta dunque di una nullità testuale di protezione, di cui peraltro non è specificato il relativo regime giuridico applicabile.

A fronte del silenzio legislativo serbato sul punto, in dottrina si contrappongono coloro che, per ragioni di unitarietà dell’ordinamento, suggeriscono l’applicazione regime giuridico del rammentato art. 36 d.lgs. 206/2005 (nullità delle clausole vessatorie) e coloro che, al contrario, evidenziando la diversa la ratio di protezione che anima il terzo contratto ed il contratto B2C, ne escludono l’applicabilità, invocando il regime giuridico proprio della annullabilità.[13]

Autorevole dottrina[14] aggiunge inoltre che, laddove l’abuso consista nella arbitraria interruzione delle relazioni commerciali posta in essere mediante l’esercizio del diritto di recesso, l’altra parte può, al fine di privare di efficacia il rifiuto arbitrario altrui, opporre l’exceptio doli generalis.

 

Tutela pubblica del terzo contratto

Infine, stante la stretta correlazione che esiste in relazione ai contratti di impresa asimmetrici tra public e private enforcement, l’art. 9, co. 3-bis L. 192/1998 affida la tutela pubblica del contratto di subfornitura all’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, prescrivendo che l’AGCM può, “qualora ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi ed a seguito dell’attivazione dei propri poteri di indagine ed esperimento dell’istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni previste dall’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti dell’impresa o delle imprese che abbiano commesso detto abuso.

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Note

[1] La celebre espressione è di PARDOLESI R., utilizzata nella prefazione al volume di COLANGELO G., L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti. Un’analisi economica e comparata, 2004; XI ss.

[2] L’immaginifica espressione è tratta da Cassazione civile sez. I, 04/11/2015, (ud. 08/10/2015, dep. 04/11/2015), n. 22567.

[3] Sul punto, ex multis, LOPILATO V., Manuale di diritto amministrativo, 2020, p. 1450.

[4] Più nello specifico, si tratta di una nullità testuale di protezione necessariamente parziale, a legittimazione riservata.

[5] In questo senso, ex multis, R. FRANCO, Il terzo contratto: da ipotesi di studio a formula problematica. Profili ermeneutici e prospettive assiologiche, Cedam, 2010.

[6] Ex permultis, NAVARETTA E., ORESTANO A., Commentario del codice civile. Dei contratti in generale, artt. 1350 – 1386 c.c, Vol. 2, 2011, p. 54.

[7] La distinzione è proposta, inter alia, da AA.VV., Manuale di diritto commerciale internazionale, a cura di GRIFFI U. P., Giuffrè Editore, p. 156.

[8] In assenza di una definizione normativa, la dottrina ha tentato di fornire una definizione di abuso; in particolare, si riporta di seguito quella di ORLANDI M., Dominanza relativa e illecito commerciale, in Il terzo contratto, a cura di GITTI G., VILLA G., 2008, p. 163, che lo definisce come un “oggettivo ed ingiustificato pregiudizio all’attività economica, ossia all’equilibrio economico dell’impresa dominata senza apprezzabile vantaggio dell’impresa dominante”.

[9] In questo senso, RESTIVO C., Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Giuffrè Editore, 2007, p. 263.

[10] L’art. 3, co. 4 della legge in parola prescrive testualmente che “Ai rapporti contrattuali di cui al presente capo si applica, in quanto compatibile, l’articolo 9 della legge 18 giugno 1998, n.  192, in materia di abuso di dipendenza economica.”

[11] L’art. 17, co. 3 del decreto-legge in parola, relativamente ai rapporti tra gestori di impianti di distribuzione di carburanti, sancisce che “I comportamenti posti in essere dai titolari degli impianti allo scopo di ostacolare, impedire o limitare, in via di fatto  o  tramite previsioni contrattuali, le facoltà attribuite dal presente articolo al gestore integrano abuso di dipendenza economica, ai  sensi  e  per gli effetti dell’articolo 9 della legge 18 giugno 1998, n.192.”

[12] CHESSA C., Il potere giudiziale di ristabilire l’equità contrattuale nelle transazioni commerciali, in Riv. dir. civ., II, 2006, p. 439.

[13] A proporre questa lettura è FABBIO Philipp, L’abuso di dipendenza economica, 2006, p. 488.

[14] LOPILATO V., Manuale di diritto amministrativo, 2020, p. 1487.

Lorenza Pedullà

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