- Disciplina comune
- Peculato (art. 314 c.p.)
- Peculato mediante profitto dell’errore altrui (art.316 c.p.)
1. Disciplina comune
Le fattispecie delittuose del peculato (art. 314 c.p.), del peculato mediante profitto dell’errore altrui (art.316 c.p.) trovano sede nel libro II del codice penale – Dei delitti in particolare – Titolo II – Dei delitti contro la pubblica amministrazione – Capo I – Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Nello specifico, il legislatore con la norma di cui all’art. 314 c.p. mira a tutelare il corretto andamento, gli interessi patrimoniali nonché il prestigio della Pubblica Amministrazione. La fattispecie di cui all’art. 316 c.p., invece, è posta a presidio delle legittime aspettative dei cittadini nei confronti della stessa Pubblica Amministrazione.
Per completezza dell’esposizione, giova ricordare che i delitti in scrutinio sono stati oggetto di una profonda riforma ad opera della legge 26 aprile 1990, n. 86 – Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione -. Prima della novella, di cui sopra, il codice prevedeva tre diverse forme di peculato: 1) peculato cd. in senso stretto (art. 314 c.p.) dove la sussistenza del reato era subordinata all’appartenenza all’amministrazione pubblica del denaro e/o delle cose mobili; 2) malversazione a danno di privati (art. 315 c.p.), oggi abrogato, che, al contrario, subordinava la sussistenza del delitto all’appartenenza al privato del denaro e/o delle cose mobili; 3) peculato mediante profitto dell’errore altrui (art. 316 c.p.). A seguito della riforma del 1990 persistono solamente le fattispecie di cui agli artt. 314 e 316 c.p., tuttavia l’esame, del I comma, della disposizione novellata (art.314 c.p.) evidenzia come la fattispecie di malversazione in danno del privato non sia stata espunta dal codice bensì trasmigrata nella figura delittuosa ordinaria di peculato. Viceversa, è stato esplicitamente abrogata la fattispecie originaria di peculato per distrazione, risultando addebitabile il delitto meno grave di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). Leggi https://www.diritto.it/abuso-dufficio-art-323-c-p-e-rifiuto-di-atti-dufficio-omissione-art-328-c-p/.
2. Peculato (art. 314 c.p.)
In relazione al comportamento posto in essere, il peculato di cui all’art. 314 c.p. non è altro che una appropriazione indebita (art. 646 c.p.) perpetrato da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. Sul punto leggi https://www.diritto.it/lindividuazione-dei-soggetti-che-esercitano-mansioni-di-pubblico-interesse/.
Testualmente l’art. 314 c.p. dispone quanto segue: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi.
Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.”
Il presupposto della fattispecie delittuosa in commento è dato dal possesso o dalla disponibilità del denaro e/o della cosa mobile in capo al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio. Ad avviso di autorevole dottrina per disponibilità e/o possesso deve considerarsi “… la possibilità di disporre, al di fuori dell’altrui sfera di vigilanza, della cosa sia in virtù di una situazione di fatto, sia in conseguenza della funzione giuridica esplicata dall’agente nell’ambito dell’amministrazione …”.
Sebbene non vi sia nessun contrasto in merito alla nozione di possesso, menzionata dall’articolo, basata sull’esistenza di un rapporto di fatto tra il soggetto attivo e il denaro o le cose, invece, aspra diatriba risulta in relazione al titolo che qualifica “…il possesso o comunque la disponibilità…” in capo al soggetto attivo. A tal proposito, il periodo “…per ragione del suo ufficio o servizio…”, di dubbia esegesi, può essere interpretato in due diversi modi: 1) in maniera estensiva con riferimento a qualunque circostanza derivante dalle mansioni svolte, nell’ambito delle quali il possesso e la disponibilità potranno essere assunte in merito alle specifiche competenze attribuite ma anche sulla base delle usanze adottate nei pubblici uffici purché sussista una subordinazione o un collegamento con l’ufficio o la mansione svolta, rimanendo, di fatto, solamente, escluso il possesso accidentale o fortuito; 2) in maniera restrittiva subordinata, esclusivamente, alla competenza funzionale esercita dal soggetto agente, escludendo ogni situazione di mera occasionalità.
Con riferimento all’altruità, nello specifico in relazione al denaro, è doveroso evidenziare che ad avviso di consolidato orientamento giurisprudenziale l’appartenenza del denaro alla Pubblica amministrazione va determinata in relazione all’utilizzo finale del denaro in possesso e non secondo le modalità di amministrazione delle finanze pubbliche. In sostanza, il denaro finalizzato ad un uso pubblico viene considerato denaro pubblico al momento dell’ incameramento, quindi, anteriormente alla consegna, mediante versamento, alla Pubblica Amministrazione destinataria. Da ciò discende l’addebito della fattispecie delittuosa del peculato nei classici esempi di scuola riguardanti il notaio che trattiene per sé le somme incamerate da un cliente a titolo di imposta di registro o del vigile urbano che si accaparra gli introiti delle contravvenzioni effettuate.
In connessione con il principio di offensività, orientamento prevalente ritiene non configurabile il delitto qualora la cosa mobile non abbia un valore, giuridicamente apprezzabile (si pensi al singolo foglio di carta). Tale argomentazione trova risonanza nella giurisprudenza maggioritaria, dove in numerosi arresti giurisprudenziali si è sorretta l’equivalenza tra oggetti dotati di un valore esiguo e oggetti privi di valore alcuno, quindi tale da non violare gli interessi della Pubblica Amministrazione. Affinché possa sussistere la fattispecie de quo è necessario: 1) che la cosa mobile possieda un qualche valore patrimoniale o anche patrimoniale; 2) che tale valore non risulti praticamente nullo. Chiaramente, l’ammontare del valore varia, in una casistica concreta, in relazione alla quantità delle cose appropriate: di fatto, potrebbe configurare peculato la sottrazione di un numero elevato di cose che, singolarmente intese, avrebbero un valore esiguo (si pensi non più all’appropriazione di un foglio di carta ma di una quantità consistente di risme di carta).
Tuttavia va segnalato orientamento minoritario che trova dignità giurisprudenziale nella seguente sentenza: “In tema di peculato, la minima entità del danno patrimoniale arrecato alla pubblica amministrazione non esclude la configurabilità del reato, poiché l’atto appropriativo integra di per sé la condotta tipica, mentre, nel caso di peculato d’uso, la destinazione solo momentanea del bene a finalità diverse da quelle pubblicistiche richiede anche l’idoneità della condotta a determinare una apprezzabile lesione patrimoniale”. (Nella fattispecie la Corte ha ritenuto sussistente il delitto di peculato a fronte dell’appropriazione ad opera del pubblico agente di un quantitativo minimo di carburante). (Cass. n. 23824/2019).
Il peculato configura un delitto plurioffensivo dato che il comportamento posto in essere, oltre a ledere il normale e buon andamento della Pubblica Amministrazione, danneggia gli intessi patrimoniali della stessa Pubblica Amministrazione e dei provati, concretizzandosi in una condotta non compatibile con il requisito per cui si possiede. Pur trattandosi di un tipico reato proprio può essere compiuto anche da un privato cittadino in accordo con un pubblico ufficiale o con l’incaricato di un pubblico servizio.
La fattispecie delittuosa in commento è composta da due commi. Il I comma che disciplina il cd. peculato ordinario così dispone: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi.” Nel suddetto comma l’elemento oggettivo del delitto di concretizza nell’appropriazione del denaro o della cosa mobile posseduta in ragione del proprio ufficio o servizio. Il soggetto agente, in conformità con il comportamento tipico del delitto di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p., cambia la qualifica del proprio possesso iniziando ad agire uti dominus. In merito all’elemento soggettivo si configura un delitto a dolo generico, perfezionato dalla volontà di possedere a titolo qualificato le somme o la cosa mobile con l’animo e la determinazione di farli propri.
Il II comma riguardante il peculato d’uso dispone nel seguente modo: “Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”. Occorre evidenziare che l’articolo in scrutinio sia stato plasmato sulla fattispecie di reato di furto d’uso di cui all’art. 626 n. 1 c.p.) con la circostanza che nel delitto in commento non necessita la detrazione quanto, invece, una specie di appropriazione d’uso. Nel comma in commento l’elemento oggettivo sussiste nell’utilizzo momentaneo della cosa e nella sua pronta restituzione, con riferimento al profilo soggettivo si configura un delitto a dolo specifico contraddistinto dalla successiva e particolare finalità di rendere la cosa dopo averla utilizzata. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel considerare il comma de quo come una fattispecie di delitto autonoma e non una circostanza aggravante del reato di cui al I comma. L’utilizzo temporaneo con successiva solerte restituzione del bene, non costituisce una vera e propria appropriazione, la quale viene ad aversi solamente con la cessazione definitiva della obiettivo originario della cosa. Nel peculato d’uso la finalità perseguita dal soggetto agente rappresenta una condizione caratterizzante che non consente di collocare il comportamento all’interno della cornice del peculato di cui al I comma.
Cosa deve intendersi per uso momentaneo
Per uso momentaneo deve intendersi non un utilizzo immediato bensì provvisorio, ovvero differito in un arco temporale limitato, tale da determinare la distrazione del bene alla sua finalità istituzionale pur non compromettendo, incisivamente, il funzionamento della Pubblica Amministrazione. Affinché possa configurarsi il peculato d’uso è necessaria la sussistenza del nesso di funzionalità del bene distratto riguardo alla natura dell’utilizzo momentaneo. Ad esempio l’utilizzo regolare, ripetuto e prolungato nel tempo di una vettura di servizio, ad opera del funzionario pubblico, determina la più grave fattispecie delittuosa di peculato per appropriazione. In tal senso si segnala il seguente arresto giurisprudenziale “Ai fini del delitto di peculato cui al comma 1 – in relazione ai beni di specie appartenenti alla P.A. – non è necessaria la perdita definitiva del bene da parte dell’ente pubblico, essendo sufficiente l’esercizio da parte dell’agente sul medesimo bene dei poteri “uti dominus”, tale da sottrarre il bene stesso alla disponibilità dell’ente”. (Cass. n. 13038/2016). In sostanza, il peculato d’uso è determinato da un comportamento di carattere transitorio non integrante una vera e propria appropriazione, sussistendo quest’ultima soltanto con il definitivo cambio della finalità originaria del bene.
Giunti alle conclusioni giova ricordare che la fattispecie di cui all’art. 314 c.p. è procedibile d’ufficio (art. 50 c.p.p.), l’Autorità giudiziaria competente è il Tribunale collegiale (art. 33 bis c.p.p.). Per quanto concerne l’arresto e il fermo sono consentiti soltanto con riferimento al primo comma. In merito alle misure cautelari personali sono consentite con riferimento al I comma (artt. 280 e 287 c.p.p.) mentre al II comma è consentita la sospensione dall’esercizio di un pubblico servizio o ufficio (art. 289 c.p.p.).
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3. Peculato mediante profitto dell’errore altrui (art.316 c.p.)
Testualmente l’art. 316 c.p. dispone che: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000.”
Si tratta di una fattispecie procedibile d’ufficio (art. 50 c.p.p.) di competenza del Tribunale collegiale (art. 33 bis c.p.p.). L’arresto è facoltativo in flagranza (art. 381, co. II, c.p.p.) mentre non è consentito il fermo di indiziato delitto. In merito alle misure cautelari personali è consentita la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 289 c.p.p.), sono consentite le misure coercitive (artt. 280, 391 comma V e 381 comma II c.p.p.).
Diversamente dal delitto di cui all’art. 314 c.p. non necessita la qualità del possesso anteriore e il comportamento consta nel ricevere o nel ritenere, ovvero nel trattenere per sé l’indebito percepito.
L’espressione “…giovandosi dell’errore altrui…” determina l’avvantaggiarsi di una precedente distorta rappresentazione del soggetto terzo in modo da mettere quest’ultimo nella condizione di poter compiere il delitto. L’errore che porta all’appropriazione può derivare da qualsivoglia causa, tuttavia non può essere indotto con volontà, ossia con dolo, ad opera del soggetto. E’ pertanto necessario il dolo generico, integrato dalla coscienza dell’errore altrui nonché dalla volontà di ritirare o trattenere la cosa. A tal proposito si segnala il seguente arresto giurisprudenziale: “Il reato di cui all’art. 316 c.p. (peculato mediante profitto dell’errore altrui) si può configurare esclusivamente nel caso in cui l’agente profitti dell’errore in cui il soggetto passivo già spontaneamente versi, come si desume dalla dizione della norma incriminatrice («giovandosi dell’errore altrui», cioè di un errore preesistente ed indipendente dalla condotta del soggetto attivo); e non ricorre, pertanto, nel caso in cui l’errore sia stato invece determinato da tale condotta, ricadendo in tal caso l’appropriazione commessa dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio nella più ampia e generale previsione dell’art. 314 c.p., rispetto alla quale quella dell’art. 316 costituisce ipotesi marginale e residuale.” (Cass. n. 5515/1996).
Sebbene la norma sia rubricata sotto la voce di “peculato”, la dottrina ha evidenziato che il termine sia utilizzato in maniera impropria, poiché non è necessario, per la sussistenza del reato, il possesso della cosa altrui, differenziandosi decisamente dall’art. 314 c.p., che, di fatto, necessita il possesso o la detenzione del denaro o della cosa altrui ai fini della sussistenza del delitto. Il fatto caratteristico disciplinato dall’articolo consiste nell’indebita ricezione o ritenzione. Altro elemento necessario ai fini della sussistenza del delitto è che il soggetto terzo sia inesattamente persuaso di dover depositare somme di danaro o altri beni al pubblico funzionario che in malafede e sfruttando l’errore accetta quanto consegnatogli.
La fattispecie in scrutinio configura un delitto proprio in quanto può essere compiuto soltanto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.
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