I delitti di utilizzo improprio derivante da una posizione di vantaggio

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I delitti di utilizzazione d’invenzioni o scoperte conosciute per ragione di ufficio (art. 325 c.p.) e rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio (art. 326 c.p.)

     Indice

  1. Disciplina comune
  2. Utilizzazione d’invenzioni o scoperte conosciute per ragione di ufficio (art. 325 c.p.)
  3. Utilizzazione di segreti di ufficio (art. 326 c.p.)

1. Disciplina comune

Le fattispecie delittuose dell’utilizzazione d’invenzioni o scoperte conosciute per ragione di ufficio – art. 325 c.p. – e della rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio – art. 326 c.p. – sono disciplinate dal libro secondo del codice penale – dei delitti in particolare – titolo II – dei delitti contro la pubblica amministrazione – capo I – dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione. Il legislatore con le norme di cui agli artt. 325 e 326 c.p. mira a tutelare l’imparzialità e il corretto andamento della Pubblica Amministrazione, muovendo censura all’utilizzo improprio derivante da una posizione di vantaggio rispetto alla generalità dei consociati.

2. Utilizzazione d’invenzioni o scoperte conosciute per ragione di ufficio (art. 325 c.p.)

L’art. 325 c.p. testualmente dispone che: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che impiega, a proprio o altrui profitto, invenzioni o scoperte scientifiche, o nuove applicazioni industriali, che egli conosca per ragione dell’ufficio o servizio, e che debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa non inferiore a euro 516”.

La norma in commento descrive un delitto procedibile d’ufficio (art. 50 c.p.p.) e di competenza del Tribunale collegiale (art. 33 bis c.p.p.). L’arresto è facoltativo in flagranza (art. 381 c.p.p.) mentre  non è consentito il fermo di indiziato delitto. Sono applicabili le misure cautelari personali (artt. 280 e 287 c.p.p.).

L’articolo de quo descrive un reato proprio compiuto da un funzionario pubblico.

Sul punto leggi: https://www.diritto.it/lindividuazione-dei-soggetti-che-esercitano-mansioni-di-pubblico-interesse/.

Il bene giuridico oggetto di tutela è l’interesse a che non vengano divulgate e usate per fini personali notizie la cui conoscenza avviene in ragione dell’ufficio o del servizio. Giova ricordare che scrimina la divulgazione il consenso prestato, in precedenza, dal soggetto che ha brevettato l’invenzione o effettuato la scoperta. La norma de qua rappresenta una fattispecie di peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p. e censura l’indebito utilizzo da parte di un funzionario pubblico – indipendentemente che si tratti di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio – d’invenzioni o scoperte conosciute per ragione di ufficio. Ciò che determina il reato è la mancata segretezza delle suddette opere e l’utilizzo a fini personali.

Leggi anche: https://www.diritto.it/i-delitti-di-peculato-e-peculato-mediante-profitto-dellerrore-altrui/.

3. Utilizzazione di segreti di ufficio (art. 326 c.p.)

Testualmente l’art. 326 c.p. dispone che: “Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio [358], che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno.

Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni”.

La norma in scrutinio descrive un delitto procedibile d’ufficio (art. 50 c.p.p.) e di competenza del Tribunale collegiale (art. 33 bis c.p.p.). L’arresto non è consentito con riferimento al primo, secondo e terzo comma seconda ipotesi; consentito per la prima ipotesi del terzo comma; facoltativo in flagranza (art. 381 c.p.p.). Per quanto riguarda il fermo di indiziato di delitto non è consentito con riferimento al primo, secondo e terzo comma seconda ipotesi, consentito per la prima ipotesi del terzo comma. Sono applicabili le misure cautelari personali (artt. 280 e 287 c.p.p.) con riferimento alla prima ipotesi del terzo comma; primo, secondo e terzo comma seconda ipotesi è consentita la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 289 c.p.p.).

Il bene giuridico oggetto di tutela è l’interesse a che non vengano divulgate notizie di esclusiva competenza dell’Amministrazione Pubblica. L’effettività del pericolo costituito dalla condotta criminosa va individuato nella compromissione del normale funzionamento della Pubblica Amministrazione, bene giuridico tutelato dalla norma e protetto dall’art. 97 della Costituzione, dato che proprio l’osservanza del segreto assicura l’efficacia dell’azione amministrativa. L’art. 326 c.p. descrive un reato di natura plurisoggettiva, per la cui configurazione non è sufficiente che il funzionario pubblico esponga al rischio della rivelazione notizie aventi il carattere della segretezza, ma è necessario che un soggetto terzo abbia conoscenza della notizia coperta da segreto.

In materia di utilizzazione di segreti di ufficio  si segnala la seguente statuizione: “L’art. 326 c.p., nel prevedere come reato la rivelazione di “notizie di ufficio le quali debbano rimanere segrete”, si riferisce non soltanto alle notizie destinate a rimanere segrete in ogni tempo e in ogni luogo, ma anche a quelle relativamente alle quali il destinatario della rivelazione non sia titolare del diritto di accesso o non lo abbia azionato con le dovute modalità, ai sensi della legge n. 241/1990; il che vale, in particolare, per i funzionari di cancelleria e segreteria e per i dattilografi giudiziari, i quali, ai sensi dell’art. 159 della legge n. 1196/1960, sono tenuti ad “osservare il più scrupoloso segreto di ufficio e non possono dare a chi non ne abbia diritto, anche se non si tratti di atti segreti, informazioni o comunicazioni relative a operazioni o provvedimenti giudiziari o amministrativi di qualsiasi natura e dei quali siano venuti comunque a conoscenza a causa del loro ufficio”. (Cass. Pen. sent. n. 19216/2017).

Il comma 1 della norma de qua censura quei comportamenti inerenti la rilevazione di norme d’ufficio nonché l’agevolazione della conoscibilità delle stesse. Trattasi di un comportamento di natura non colposa. Sul punto così si esprime la Corte di Cassazione: “Il reato di rivelazione di segreti di ufficio, previsto dall’art. 326, comma primo, cod. pen., è un reato di pericolo concreto, posto a tutela del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, la cui configurabilità va esclusa solo con riferimento alla divulgazione di notizie futili o insignificanti, ma non in relazione a notizie inesatte” (Cass. pen. n. 49526/2017). Per converso, il comma 2 disciplina una condotta di natura colposa configurabile nel momento in cui il funzionario pubblico abbia violato il segreto in maniera non dolosa. Per agevolazione deve intendersi la condotta mediante la quale, anche in modo omissivo, si rende possibile o più agevole la conoscenza delle notizie protette ad opera dei terzi. Il terzo e ultimo comma disciplina due fattispecie aggravate, ravvisabili nel momento in cui il funzionario pubblico utilizzi le notizie coperte da segreto d’ufficio per trarre “(…) un indebito profitto patrimoniale (…), oppure (…) se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto(…)”.

In materia di concorsi pubblici giova ricordare che: “La rivelazione da parte di un membro della commissione esaminatrice delle domande oggetto della prova di esame o anche solo di elementi diretti a far conoscere in anticipo l’oggetto ritenuto dalla commissione tra i più probabili della prova d’esame de qua, danneggia l’interesse al buon andamento della Pubblica Amministrazione ed integra il reato di cui all’art. 326 c.p.” (Cass. Pen., 23 luglio 2015, n. 39115).

Per quanto riguarda le cause di giustificazione: “Al reato di rilevazione di segreti di ufficio è applicabile la causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, allorché la rilevazione sia fatta per difendersi in giudizio, essendo il diritto di difesa prevalente rispetto alle esigenze di segretezza e buon funzionamento della Pubblica Amministrazione”. (Cass. Pen., 20 aprile 2011, n. 35296; conferma Cass. Pen., 24 gennaio 1989).

Sotto il profilo processuale, giunti alle conclusioni, si evidenzia che: “In tema di sequestro probatorio, il principio del “ne bis in idem” non preclude la possibilità di disporre nuovamente la misura quando l’autorità procedente sia chiamata a valutare elementi precedentemente non valutati.” (Cass. Pen., 26 marzo 2013, n. 21103). Ed ancora: “Nel reato di rivelazione ed utilizzazione di segreto di ufficio, dovendo la persona offesa essere individuata esclusivamente nella P.A. il privato, che tutt’al più può essere considerato terzo danneggiato, non è legittimato a ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione e ad attivare i meccanismi di controllo previsti dagli artt. 408 – 410 cod. proc. pen.”. (Cass. Pen., 06 novembre 2012, n. 4170; conferma Cass. Pen., 22 aprile 2008, n. 19307). Infine: “I risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per un reato rientrante tra quelli indicati nell’art. 266 cod. proc. pen. sono utilizzabili anche relativamente ad altri reati per i quali si procede nel medesimo procedimento, pur se per essi le intercettazioni non sarebbero state consentite.” (Fattispecie in cui è stata ritenuta utilizzabile l’intercettazione, disposta per associazione a delinquere e corruzione, anche per il delitto di rivelazione di segreto di ufficio). (Cass. Pen., 05 aprile 2012, n. 22276; conferma Cass. Pen., 22 settembre 2010, n. 39761 e Cass. Pen., 28 settembre 1995, n. 794).

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