Una recente applicazione pratica: l’iniquo protrarsi dello stato detentivo oltre il termine di durata massima della custodia cautelare
Sommario: 1. Premessa. – 2. I parametri normativi di riferimento disciplinare. – 3. Il recentissimo orientamento delle SS. UU sulla mancata scarcerazione per decorrenza termini. – 4. Conclusioni.
Premessa
Una recentissima pronuncia della Suprema Corte di Cassazione in sezioni unite in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati, ha assestato il sistema punitivo previsto dal decreto legislativo n. 109 del 2006, prefigurando una sorta di ottuplice sentiero – ma sarebbe, a dire il vero, più corretto parlare di <<enneadi >>, atteso che il percorso nomofilattico seguito dal supremo consesso è di nove punti – conducente alla sussistenza integrativa dell’ipotesi disciplinare di cui al relativo statuto ordinamentale in tema d’illegittimo protrarsi dello stato detentivo di un soggetto attinto da ordinanza custodiale.
La trama del fatto è chiara. Si tratta della mancata scarcerazione per scadenza del termine massimo di durata custodiale (termine spirato il 1 giugno 2017) con consequenziale ingiusto danno per il medesimo (rimesso in libertà il 9 novembre 2017) nel quadro di un ritardato esercizio dell’azione penale con richiesta di giudizio immediato (intervenuta in data 11 agosto 2017) dal quale è scaturita la perdita di efficacia della misura coercitiva.
I supremi giudici chiamati ad applicare le leggi di ordinamento giudiziario nella cornice del disciplinare dei magistrati, hanno confermato l’irrogazione della sanzione disciplinare della censura applicata in prime cure dalla sezione disciplinare del CSM rigettando il ricorso dell’incolpato.
I parametri normativi di riferimento disciplinare
Prima di rassegnare le argomentazioni sviluppate dal Supremo Consesso nomofilattico, è opportuno rammentare assai rapidamente i paradigmi ordinamentali elaborati dal legislatore in sede di riforma dell’Ordinamento Giudiziario con precipuo riguardo allo Statuto Disciplinare dei Magistrati([1]).
Lo statuto disciplinare del magistrato apre con una norma inerente ai doveri che deve osservare nell’esercizio delle attribuitegli funzioni.
Il magistrato deve essere, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie: a) IMPARZIALE, b) CORRETTO, c) DILIGENTE, d) LABORIOSO, e) RISERVATO, f) EQUILIBRATO; deve, altresì, nell’esercizio delle funzioni, rispettare la dignità della persona.
Gli indicati parametri normativi di riferimento deontologico, nel profilare la postura professionale del magistrato, fungono anche quali denotazioni connotative per l’eventuale integrazione di uno degli illeciti disciplinari previsti dal successivo articolo 2 del decreto 109/2006.
Si tratta degli illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni tipizzati dal legislatore della riforma del 2006 e successivamente più volte integrati e modificati. Sono tutti compendiati nelle lettere della norma contemplativa di ciò che costituisce illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni; di esse si è fatta applicazione nella fattispecie concreta che ci occupa con particolare riferimento alle lettere a) e g)([2]).
Dopo non poche oscillazioni ermeneutiche la Suprema Corte a Sezioni Unite ha tracciato il percorso da seguire in materia per il prosieguo del terzo millennio.
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Il recentissimo orientamento delle Sezioni Unite sulla mancata scarcerazione per decorrenza termini
Si perviene, ad opera del giudice della nomofilachia disciplinare, alla conclusione indicata in avvio di discorso, in base ai seguenti principi:
- grava sul magistrato l’obbligo di vigilare con regolarità sulla persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto ad indagini, sicché l’inosservanza dei termini di durata massima della custodia cautelare, costituisce grave violazione di legge idonea ad integrare gli illeciti disciplinari di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. n. 109 del 2006;
- i suddetti illeciti non sono scriminati né dalla laboriosità o capacità del magistrato incolpato, né dalle sue gravose condizioni lavorative e neppure dall’eventuale strutturale disorganizzazione dell’ufficio di appartenenza, occorrendo, al riguardo, la presenza di gravissimi impedimenti all’assolvimento del dovere di garantire il diritto costituzionale alla libertà personale del soggetto sottoposto a custodia cautelare;
- con riguardo all’individuazione, tra le ipotesi previste dall’art. 2 d.lgs. n. 109 del 2006, di quella cui deve essere riferito il comportamento del magistrato che ometta di effettuare il doveroso controllo sulla scadenza del termine di durata della custodia cautelare, va ricordato che alle ipotesi di cui alla lettera a) e alla lettera g) è comune la violazione del dovere di diligenza che grava sul magistrato nell’esercizio delle sue funzioni([3]), a tale elemento la lett. a) aggiunge un effetto, stabilendo che la violazione deve aver arrecato un danno ingiusto o un indebito vantaggio ad una delle parti, mentre la lett. g) aggiunge un requisito della violazione del dovere di diligenza, stabilendo che deve essere grave, deve riguardare una norma di legge e deve derivare da ignoranza o negligenza inescusabile;
- nell’ipotesi sub iudice il danno ingiusto di cui alla lett. a) cit. ricorre indipendentemente dall’eventuale doglianza sollevata dal soggetto sottoposto alla custodia cautelare o dalla circostanza che l’episodio abbia avuto o meno alcuna risonanza pubblica;
- inoltre in essa sono sussistenti sia il danno (consistente nella privazione della libertà personale) sia la relativa ingiustizia derivante dalla violazione della norma che fissa i termini massimi di durata delle misure coercitive;
- la misura della custodia cautelare in carcere e quella degli arresti domiciliari sono misure coercitive omogenee, come risulta dalla giurisprudenza di legittimità ormai consolidata([4]), pertanto, nella specie la sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari non poteva comportare la decorrenza di un nuovo termine, come si desume del resto dall’art.284, comma 5, cod. proc. pen.([5]);
- non possono valere come scriminanti, rispetto alla suddetta condotta, l’esistenza di una prassi nell’ufficio dell’incolpato o il comportamento del titolare dell’ufficio stesso difformi dal suindicato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di misure coercitive, perché il dovere di diligenza impone sempre al magistrato di verificare in modo adeguato i presupposti di fatto e di diritto che consentono l’emissione di un provvedimento giurisdizionale;
- in particolare, il magistrato ha l’obbligo di vigilare con regolarità sulla persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto ad indagini, senza che, ai fini della scusabilità dell’errore, possano valere prassi applicative non sorrette da disposizioni normative;
- ai fini della sussistenza dell’illecito disciplinare è irrilevante, in sede di legittimità, la circostanza che il magistrato incolpato abbia ricevuto degli elogi dal Capo del suo Ufficio in occasione di una valutazione di professionalità, in quanto il vaglio della gravità della infrazione disciplinare commessa ‒ anche in ordine al riflesso del fatto addebitato sulla stima del magistrato, sul prestigio della funzione esercitata e sulla fiducia nell’istituzione ‒ nonché la determinazione della sanzione adeguata rientrano tra gli apprezzamenti di merito affidati alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, il cui giudizio è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.
Conclusioni
A fronte della chiarezza sintattica e concettuale con la quale il Supremo Collegio ha esposto i nove punti di riferimento per ritenere integrato l’illecito disciplinare in discorso vi è davvero poco da aggiungere.
Combinando adeguatamente, in ossequio ai principi di stretta legalità e tipicizzazione delle fattispecie disciplinari dei magistrati, le ipotesi preordinate dal legislatore disciplinare nel relativo statuto ordinamentale, da oggi, a seguito dell’intervento delle SU della Cassazione, vi è una certezza in più.
L’iniqua protrazione dello stato detentivo di una persona indagataimputata, nell’implicare un comportamento che, violando i doveri di cui al richiamato articolo 1, arreca un ingiusto danno o un indebito vantaggio ad un attore – soggetto o parte – del procedimento confluisce, altresì, nella grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile.
La portata del pronunciamento è considerevole; ciò che non può sfuggire all’occhio vigile degli addetti ai lavori.
Un chiaro richiamo ai DOVERI del magistrato in termini, concreti, d’imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio; in uno al dover sempre rispettare la dignità della persona([6]).
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Note
([1]) Su questo ed altri temi richiamati nel presente scritto, ci sia consentito rinviare al nostro “Itinerari giuridici”, Napoli, Ed. Giapeto, 2019.
([2]) D. Lgs. nr.109/2006, art.2. Illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni. – 1. Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni: a) fatto salvo quanto previsto dalle lettere b) e c), i comportamenti che, violando i doveri di cui all’articolo 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti; […] g) la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile; […].
([3]) Che rientra fra i doveri fondamentali del magistrato, elencati dall’art. 1 del d.lgs. n. 109 cit.
([4]) Dopo un isolato precedente in senso diverso.
([5]) Secondo cui “l’imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare”.
([6]) Sui temi trattati, vedi, amplius, S. Ricchitelli, “Itinerari giuridici”, Napoli, Ed. Giapeto, 2019.
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