Breve riflessione sugli avvenimenti di Genova del 19-20-21 luglio 2001. Ricostruzione delle vicende giurisprudenziali e posizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Cenni alla Legge n. 110 del 2017.
Premessa.
“Il momento più drammatico è stato l’ingresso nella Diaz. Parlano le immagini, a parole non si può descrivere. Ma le immagini hanno fatto il giro del mondo”, così ricorda i fatti un ragazzo vittima della macelleria messicana[1] compiuta nella scuola Diaz. Ma i fatti in questione non furono che l’inizio di una vicenda che altro non divenne se non un crescendo di violenza.
La ricostruzione giurisprudenziale ci porta fino alla Corte di Strasburgo, passando per i tre gradi di giudizio in Italia. La striscia temporale interessata da questi fatti va dal 2001 al 2015 senza soluzione di continuità.
E poi il 2017, con la legge n. 110 che sancisce l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano.
Ricostruzione dei fatti.
Sono giorni molto particolari quelli del 19 – 20 – 21 luglio del 2001 a Genova, in occasione del G8. L’aria, in realtà, era già molto pesante nei giorni precedenti. La polizia si era preparata alla presenza del black bloc a Genova, li aveva studiati. Serpeggiava un clima di grave allarme anche a mezzo dei media, i quali, parlando del G8, mescolavano questo al terrorismo. I quotidiani scrivevano di no global ammassati alle frontiere, intenti ad invadere la città nel giorno del vertice. E poi le segnalazioni dei Servizi. Ipotesi si susseguivano su come gli anarchici avrebbero attaccato la polizia, stilando una lista di orrori che ogni giorno diveniva più lunga. Inferiate attraversavano Genova e limitavano la circolazione anche ai genovesi.
Il 19 luglio si svolse la manifestazione pacifica dei migranti, e tutto filò liscio.
Arriviamo così al 20 luglio. Intorno alle 17:30 del pomeriggio tra Piazza Alimonda e Via Tolemaide, durante il corteo autorizzato, tra urla, sirene e rumore di elicotteri si udì lo sparo che uccise il giovane Carlo Giuliani. La carica in Via Tolemaide fu oggettivamente pesante, tutti ricordiamo le immagini delle forze dell’ordine che togliendosi le maschere le passavano a persone in chiara difficoltà respiratoria.
Il 2 dicembre 2012 Pm depositò istanza di archiviazione per l’uccisione di Giuliani ed il G.I.P. la accolse sulla base delle indagini compiute che stabilirono come lo sparo del carabiniere fu in realtà rivolto verso l’alto, e a causa di un calcinaccio (o simile), il bossolo deviando colpì mortalmente la testa di Giuliani. La famiglia Giuliani presentò opposizione all’archiviazione, ma questa fu confermata. E’ il 24 marzo 2011 quando la Corte Europea, sul fatto, “assolve” lo Stato Italiano.
Arriviamo al 21 luglio 2001. È sera, intorno alle 23.00 alcuni ragazzi che dormivano nella scuola Diaz vengono svegliati da urla “la polizia, la polizia”. Un giornalista che si trovava all’interno della scuola racconta di aver visto il feroce ingresso della polizia, da subito scagliato contro chiunque vi si trovasse vicino. La risposta di chi si trovava all’interno della scuola fu mani alzate e urla “No violence”.
Il terrore e le botte, e poi ancora il setaccio dei sacchi a pelo per cercare indumenti di colore nero, che fossero riconducili ai black bloc.
Famosa la figura di una ragazza stesa a terra in una pozza di sangue con la testa sfasciata, cui prestò soccorso il comandante F.
Gli occupanti della scuola erano 93, alcuni di loro, uscendo in barella, appena dopo il misfatto, intravidero appena fuori dall’edificio dei signori molto ben vestiti, alcuni dei quali parlavano al cellulare. Li rivedranno in Tribunale, in veste di imputati, e capiranno che erano dirigenti o responsabili della polizia.
Non finì qui.
Gli occupanti furono poi portati alla caserma Nino Bixio di Bolzaneto, a tutti gli effetti divenuta un lager. I ragazzi furono segnati con un “X” in faccia, poi torturati.
Senza scendere nello specifico, basti dire un infermiere che vi lavorava, di fronte a quello che vide “rimase di ghiaccio”.
Occorre dire, che la perquisizione avvenne ex art 41 T.U.L.P.S., all’interno del quartier generale del “Genoa Social Forum”, e che la decisione fu presa dai vertici delle forze dell’ordine coinvolte. Il sospetto che componenti di black bloc fossero all’interno della scuola o comunque si trovassero nei pressi della stessa si appoggiava sulla presunta aggressione alla pattuglia che passava di fronte allo stabile, poche ore prima. Nella sostanza, l’applicazione dell’art 41 significò “far da sé”, scavalcando la magistratura con la scusa della presenza di armi nella scuola, e per regolare qualche conto.
Tra queste armi da guerra si comprendono ovviamente i reperti menzionati nei verbali di perquisizione e processo, si trattava di molotov trovate in realtà, non all’interno della scuola, ma dal vice questore G. nei pressi di Corso Italia. Altra falsificazione della prova fu quella inerente alle presunte coltellate ai danni di un agente.
Quale fu allora la ragione che spinse questa operazione? Ce lo dirà il Dott. Andreassi, sentito come teste. Era necessario, da parte dello Stato, dare una risposta forte per riscattare l’intero corpo di polizia, passando così alla linea dura.
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La risposta giurisprudenziale nazionale.
Dopo i fatti della Diaz la Procura di Genova istaurò un procedimento penale. Due erano i filoni d’inchiesta: uno inerente i black bloc e altri manifestanti e uno inerente l’operato delle forze dell’ordine.
Si aprì un processo nei confronti dei manifestanti imputati per devastazione e saccheggio. Su venticinque imputati, ventiquattro furono condannati, tra chi faceva parte dei black bloc e chi delle tute bianche. Per i colpevoli, circa dieci, la Corte d’Appello inasprì le pene. I restanti quattordici si evitarono la condanna per assoluzione o per l’intervenuta prescrizione.
È invece il 6 aprile 2005 quando, di fronte alla Corte d’Assise di Genova si apre il processo per i fatti accaduti nella Scuola Diaz. Gli imputati furono ventinove poliziotti, tra agenti e funzionari. Le parti lese novantatre: tutti gli occupanti della Scuola. Oltre tre anni, più di duecento udienze, circa trecento testimoni. È il 13 novembre 2008 quando si chiuse il processo di primo grado: tredici furono condannati per falso, arresto illegale e lesioni gravi. Complessivi 35 anni e 7 mesi di reclusione. Occorre dire che le pene furono sensibilmente ridotte per l’operatività dell’indulto, ai sensi della L. 241/ 2006.
La Corte d’Appello, nel maggio 2010, attestò di non doversi procedere per intervenuta prescrizione per un rilevante numero di reati, per altri inasprì le condanne di primo grado e condannò anche i vertici di polizia assolti prima assolti. Riconobbe in favore delle parti civili il diritto al risarcimento, dando inoltre conferma della ricostruzione dei fatti compiuta in primo grado.
Nel 2012 si arriva in Cassazione, la quale condivise integralmente i fatti, così come ricostruiti nei primi due gradi di processo, e si spinse oltre, affermando che la violenza inflitta all’interno della Scuola, avesse avuto, a tutti gli effetti, i connotati della tortura ex art 3 CEDU.
Emerse quindi il problema dell’assenza di una puntuale tipizzazione del reato di tortura nell’ordinamento italiano.
La Corte Europea dei diritti dell’uomo su caso Cestaro c. Italia.
Il ricorrente è un cittadino italiano, il Sig. Arnaldo Cestaro. Dopo la conclusione del summit del G8 nella notte tra il 21 e 22 luglio 2001 il ricorrente si trovava all’interno della Scuola Diaz, adibita, dal comune di Genova, a luogo di soggiorno e pernottamento per i manifestanti.
Il Sig. Cestaro fu uno dei primi ad esser colpito duramente dagli agenti della polizia in testa, sulle gambe, sulle braccia, con dei manganelli tipo “tonfa”, capaci potenzialmente di essere letali.
Condotto in ospedale vi rimase per quattro giorni dopo esser stato sottoposto ad un intervento chirurgico. Tornò a casa in sedia a rotelle, con una prognosi di quaranta giorni. Da qui un’invalidità permanente e successivi numerosi interventi.
Prima di focalizzarsi sulla fondatezza del ricorso presentato dal Sig. Cestaro i giudici di Strasburgo dovettero valutarne i profili di ammissibilità: la Corte rigettò tutte le obiezioni del Governo italiano. Il Sig. Cestaro, secondo la Corte, conservava lo status di vittima, come richiesto dall’art 34 e soddisfaceva i requisiti richiesti dall’art 35 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
La Corte di Strasburgo, dopo aver svolto una dettagliata analisi sui fatti avvenuti, si focalizzò sulla costituzione di speciali unità di forze dell’ordine per arrestare i Black bloc, oltre che sull’irruzione nelle scuole Diaz-Pertini.
Applicando i necessari principi generali della sua preventiva giurisprudenza, la Corte ha stabilito che gli occupanti della Scuola Diaz-Pertini furono oggetto di un attacco sistematico, generalizzato, intenzionale e premeditato pienamente qualificabile come tortura ex art 3 CEDU. Le violenze subite dal Sig. Cestaro vennero dalla Corte considerate come di “natura particolarmente grave e crudele” e “causa di dolore e sofferenze acute”.
Così si risolse il dubbio rispetto alla qualifica da dare al fatto: gli abusi integravano la tortura, trattamenti inumani o trattamenti degradanti? Il criterio di distinzione è stato individuato nel grado di lesività ed intensità, via via maggiore delle sofferenze e delle umiliazioni sostenute dalla vittima. La specificità della tortura è da considerarsi, oltre a questi elementi, anche in merito agli effetti fisici, mentali, considerato il sesso, all’età, lo stato di salute della vittima.
La Corte si sofferma poi sulla mancata individuazione dei singoli responsabili dei fatti, considerata la difficoltà oggettiva incontrata dalla Procura, oltre che la mancata collaborazione da parte del corpo di polizia. La Corte è arrivata quindi a considerare violato l’art 3 della CEDU anche sotto il profilo processuale.
Rispetto ai punti salienti della Sentenza occorre sottolineare come nel caso di specie la Corte di Strasburgo abbia valutato come assolutamente gratuite le percosse subite dal ricorrente. Lo Stato italiano non avrebbe provveduto ad assicurare il ristoro della violazione ex art 3 CEDU ai danni del Sig. Cestaro; tale ristoro sarebbe fornibile solo mediante la punizione dei responsabili per i fatti di tortura commessi.
Come anticipato il ricorso si fondava anche sulla violazione di obblighi procedurali discendenti dall’art 3 della CEDU dal cui dettato si evince la necessità che le autorità statali debbano compiere indagini diligenti in tutti i casi in cui vi sia plausibile lesione ex art 3 della CEDU, indagini capaci di giungere alla individuazione, persecuzione e condanna oltre che ad una pena proporzionata dei responsabili.
Nel caso di specie, si è stabilito come nessuna negligenza potesse esser rimproverabile alle Autorità inquirenti, né alla Procura di Genova, né a carico del sistema giudiziario italiano.
Certo è che deludente è stato il fatto che lo Stato italiano non sia riuscito a fornire informazioni alla Corte in merito alla doverosa sospensione dal servizio dei responsabili (già indagati) delle forze dell’ordine.
Da ultimo la Corte di Strasburgo sottolinea come la mancata punizione dei responsabili individuati dalla Procura sia dovuta all’inadeguatezza dell’allora quadro giuridico inerente alla mancanza di una norma incriminatrice ad hoc della tortura. Quindi, gli autori delle condotte ex art 3 CEDU, furono semplicemente considerati responsabili di reati quali lesioni, percosse, violenza privata, abuso d’ufficio e altro, con il triste risvolto di giovarsi dei brevi termini di prescrizione propri di queste fattispecie penali, oltre a beneficiarsi dell’indulto di cui alla l. 241/2006.
Dichiarata all’unanimità la violazione dell’art 3 della CEDU sia sotto il profilo sostanziale che procedurale, la Corte ha condannato l’Italia al pagamento del risarcimento per i danni morali subiti dal ricorrente, quantificato in via equitativa in € 45.000.
Quindi, la Corte EDU IV sez. 7 aprile 2015 Cestaro c. Italia, dispone che l’Italia si munisca di strumenti giuridici idonei a sanzionare in modo adeguato i responsabili di atti di tortura o di altri atti vietati ex art 3 CEDU, impedendo in tal modo che tali responsabili possano godere di benefici assolutamente incompatibili con le condotte tenute.
Occorre brevemente far riferimento al fatto che la previsione di obblighi convenzionali è stata criticata in virtù di una possibile lesione del principio di riserva di legge. Tuttavia, rispetto al reato di tortura, un obbligo di criminalizzazione era implicitamente previsto costituzionalmente, ai sensi dell’art 13 comma IV. Non si può inoltre non considerare come gli obblighi di tutela penale di fonte sovranazionale si traducano in obblighi costituzionali per il meccanismo di cui all’art 117 Cost.
Il tutto è quindi in grado di meglio sottolineare la gravità del ritardo con cui il quale il legislatore ha provveduto ad inserire nel nostro ordinamento il reato di tortura.
L’introduzione del reato di tortura, L. 110 del 2017.
Occorre dire che l’iter parlamentare che ha preceduto l’approvazione della l. 110/2017 fu davvero molto tormentato. Furono necessarie quattro letture, l’Onorevole Manconi, che fu firmatario e promotore della prima versione del d.d.l., arrivò a definire mediocre il testo così come modificato, e decise per l’astensione dal voto.
La Camera arriva ad approvare la legge il 5 luglio 2017, pur disattendendo le osservazioni critiche mosse, con lettera ufficiale, dal Presidente della Commissione per i diritti umani del Consiglio d’Europa.
Con tale legge si inseriscono nel c.p. due nuovi articoli: il 613 bis, relativo al reato di tortura, e il 613 ter inerente invece l’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.
La medesima legge intervenne anche sull’art 191 c.p.p. rispetto alle prove illegittimamente acquisite, inserendo il comma II bis, con il quale si stabilisce l’inutilizzabilità delle dichiarazioni e delle informazioni ottenute mediante il delitto di tortura, salvo che siano utilizzate contro le persone accusate di tale delitto, e solo al fine di provarne la responsabilità penale.
Proseguendo la lettura della legge, troviamo il terzo articolo con il quale si modifica l’art 19 del T.U. sull’immigrazione, formalizzando il divieto di non refoulement.
Degna di nota fu anche l’introduzione di un vero e proprio limite alle immunità, anche internazionale, stabilendo l’obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura.
La natura delle fattispecie richiamare e le critiche alla legge in questione sono tali da non consentire un’approfondita disamina delle stesse nel presente contributo.
Quel che adesso interessa è riflettere sul fatto che, al di là delle critiche mosse alla l. 110/2017, la promulgazione della stessa deve comunque considerarsi un passo in avanti nell’affermazione dei diritti dell’uomo contro la tortura.
Chiara è stata la spinta europea, e quindi pacifica è l’interpretazione della norma in senso necessariamente conforme alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e alla Giurisprudenza di Strasburgo.
Paradossalmente, considerata la formulazione della norma, questa non sarebbe in concreto applicabile a fatti analoghi a quelli di Genova. Le criticità sono state sollevate per primi proprio dai giudici che si sono occupati dei fatti del G8 e fanno capo a diversi elementi, quali: la reiterazione delle condotte, in virtù del fatto che la tortura può estrinsecarsi anche in una sola azione; la relazione autore-vittima non sempre integrata nei fatti di Genova; la crudeltà, quale contributo psichico non facilmente ravvisabile nell’azione del pubblico ufficiale, che facilmente potrebbe opporre di aver agito per finalità istituzionali.
Valutazioni conclusive.
I fatti sopra descritti sono ormai storia, e la verità processuale ha reso più facile, a tratti, accettare quello che è successo e le brutalità che in molti hanno ingiustamente subito.
Occorre dire che le ricostruzioni dei fatti sono state possibili anche grazie al coraggio di molti ragazzi, anche stranieri, che dopo quanto vissuto, hanno avuto il coraggio di tornare in Italia, e nello specifico a Genova, per testimoniare contro dirigenti, ufficiali e agenti di polizia che di fatto li avevano torturati.
Mark Covell è un giornalista inglese che fu brutalmente picchiato, per non dire quasi ammazzato, appena fuori dalla Scuola Diaz, in Via Cesare Battisti, la sera dell’irruzione. Il giornalista fu lasciato esamine a terra per circa venti minuti, nella completa indifferenza dei responsabili e degli agenti di polizia.
Questo può considerarsi l’emblema dell’indifferenza ai diritti umani non solo del giornalista, ma di tutti quelli che si trovavano in quel luogo e in quella situazione.
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Note:
- Canterini Diaz in G.M. Chiocci e S. Di Meo ( a cura di ), ImprimAtur Editore, Reggio Emilia, 2012
- Pezzimenti Tortura e diritto penale simbolico: un binomio indissolubile? Dir. pen. e processo 2018 p. 152 ss
- Viganò La difficile battaglia contro l’impunità dei responsabili di tortura: la sentenza della Corte di Strasburgo sui fatti della scuola Diaz e i tormenti del legislatore italiano Diritto penale contemporaneo 9 aprile 2015
- Colella I fatti della Diaz davanti ai giudici nazionali (mentre si profila l’eventualità di un ricorso alla Corte di Strasburgo) Corriere merito 2009
- Negri “Violazioni strutturali” e il ritardo nell’esecuzione delle sentenze CEDU: il caso Cestaro c. Italia e l’incerta l’introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano Dir. pen. e processo 2016 p. 1657 ss
- Pezzimenti Tortura – nella scuola Diaz-Pertini fu tortura: la Corte Europea dei diritti umani condanna l’Italia nel caso Cestaro, Giur. It. 2015 p. 1709 ss
- De Franceschi Divieto di tortura: dai principi internazionali alla L. 110/2017 Giurisprudenza Penale
- Tunesi Il delitto di tortura. Un’analisi critica Giurisprudenza Penale
[1] Così furono definiti i fatti compiuti nella scuola Diaz, da F. durante la deposizione nel processo di primo grado.
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