Il legislatore, disciplinando l’ascolto con la legge n. 219 del 2012, ha ritenuto necessario ribadire il rilievo dell’ascolto del minore, regolandolo in distinte disposizioni del codice civile (artt. 315 bis, 336 bis e 337 octies), quasi a conferirgli valenza ulteriore e definitiva. Soprattutto, ha opportunamente ritenuto di disciplinare le modalità di ascolto, come risulta dalla relazione conclusiva redatta dalla “Commissione per lo studio e l’approfondimento di questioni giuridiche afferenti la famiglia e l’elaborazione di proposte di modifica alla relativa disciplina“, presieduta dal prof. Bianca, che ha redatto il testo del decreto poi trasfuso nel d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154.
INDICE
- Nuovo riparto di competenze tra Tribunale Ordinario e Tribunale per i Minorenni
- Le modalità di ascolto del minore
- La capacità di discernimento, l’informativa da parte del giudice e il contegno del minore
- La partecipazione delle parti all’ascolto. L’uso del vetro specchio e dell’impianto citofonico
- L’ascolto da parte del presidente del tribunale o del giudice delegato. Discrezionalità nella scelta delle modalità e possibilità di delegare l’ascolto
- Effettività della tutela del minore nel procedimento di separazione dei coniugi
- Gli strumenti di negoziazione assistita e l’ascolto del minore.
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Nuovo riparto di competenze tra Tribunale Ordinario e Tribunale per i Minorenni
Dal punto di vista processuale la novità di maggiore rilievo introdotta dalla l. n. 219 del 2012 consiste nell’aver concentrato dinanzi al Tribunale ordinario la competenza a conoscere di quasi tutti i procedimenti minorili ed in particolar modo di quelli aventi ad oggetto l’affidamento ed il mantenimento dei figli nati al di fuori del matrimonio[1].
Indubbiamente la norma che maggiormente interessa è quella contenuta nell’art. 3 della legge n. 219 che modifica l’art. 38 disp. att. c.c.[2] e detta disposizioni a garanzia dei diritti dei figli agli alimenti e al mantenimento[3]. Vigente il precedente art. 38 disp. att. c.c., il riparto di competenze tra Tribunale ordinario e Tribunale per i Minorenni veniva operato in ragione del pregiudizio all’interesse del minore: là dove esso fosse stato ravviabile, la competenza ai sensi dell’art. 333 c.c. si sarebbe radicata in capo al Tribunale per i Minorenni, secondo quanto disposto dal comma 1.
Tale ultima norma elencava in modo specifico gli articoli contemplanti provvedimenti attribuiti alla competenza del Tribunale per i Minorenni e terminava con una formula di chiusura che – al comma 2 – prevedeva la generale e residuale competenza del Tribunale ordinario per i provvedimenti per i quali non era espressamente stabilita quella di una diversa autorità giudiziaria. Stante il richiamo – contenuto nel primo comma – al vecchio art. 317 bis c.c., veniva assegnata al Tribunale per i Minorenni la competenza a statuire sull’esercizio della potestà genitoriale sui figli naturali e con riguardo alla regolamentazione dei rapporti tra questi e il genitore non esercente la potestà[4].
Da un punto di vista procedimentale, poi, la norma stabiliva molto sommariamente che il Tribunale per i Minorenni provvedeva in camera di consiglio, sentito il P.M., e contemplava, infine, la possibilità di proporre reclamo – avverso il provvedimento emesso dal Tribunale – dinanzi alla Sezione di Corte di Appello per i minorenni.
Il nuovo testo dell’art. 38, pur conservando il sistema diarchico Tribunale ordinario/Tribunale per i Minorenni ha ridotto sensibilmente le competenze giurisdizionali in materia civile finora attribuite a quest’ultimo. A seguito della riforma di tale disposizione normativa, ad opera dell’art. 3 della l. n. 219/2012, residuano nella competenza del Tribunale per i Minorenni soltanto i provvedimenti ablativi o limitativi della potestà genitoriale – ex artt. 330, 332, 333, 334, 335 c.c. -, quelli di autorizzazione all’esercizio dell’impresa da parte del minore sottoposto a tutela ex art. 371, ultimo comma, c.c., e quelli di autorizzazione del minore che abbia compiuto sedici anni a contrarre matrimonio, ex artt. 84 e 90 c.c. Stante il periodo aggiunto, nel contesto dell’art. 38, comma 1, disp att. c.c., dall’art. 96 del D.lgs. n. 154 del 2013, sono altresì di competenza del Tribunale per i Minorenni i provvedimenti contemplati dagli artt. 251 e 317 bis c.c.
Tutti gli altri provvedimenti relativi ai minori, che non risultino più menzionati dal comma 1 dell’art. 38 disp. att. c.c., rientrano, adesso, nella competenza del Tribunale ordinario, se non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria (art. 38, comma 2, disp. att. c.c.).
Qualora, tuttavia, sia pendente tra i genitori (“tra le stesse parti“) un procedimento di separazione personale[5] o di divorzio o uno promosso ai sensi dell’art. 316 c.c., la competenza del Tribunale per i Minorenni, per i procedimenti limitativi della potestà genitoriale ex art. 333 c.c., è esclusa[6]. Pertanto, tale competenza spetta al giudice ordinario per tutta la durata del processo.
Occorre osservare[7] come a prima vista il testo dell’art. 38, comma 1, sembra limitare l’operatività della vis attractiva a favore del Tribunale ordinario alle sole domande previste dall’art. 333 c.c., quando la condotta del genitore non sia tale da comportare la decadenza dalla potestà. Tuttavia, si tratta di una limitazione solo apparente poiché si precisa ulteriormente che, pendenti i giudizi di separazione, di divorzio, o ex art. 316 c.c., è competente il Tribunale ordinario “anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo” e quindi anche per le domande che hanno titolo in quanto previsto dagli artt. 330 ss. c.c. nelle ipotesi in cui la condotta del genitore può giustificare la rimozione dalla potestà.
Il processo di separazione, di divorzio o quello promosso ex art. 316 c.c. radica, dunque, per attrazione dinanzi al Tribunale ordinario, anche la competenza per i procedimenti di cui agli artt. 330 e seguenti, pur essendo gli stessi rimasti di competenza del Tribunale per i Minorenni, negli altri casi in cui il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio.
Il nuovo art. 38 disp. att. c.c. sancisce, in maniera più analitica rispetto alla versione precedente, che nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 737 ss. c.p.c. Dunque, il Tribunale competente provvede in camera di consiglio, sentito il Pubblico ministero[8].
Per quanto riguarda il rito, rimane invece fermo quanto previsto in materia di azioni di stato. Pertanto, si applicheranno le forme del processo ordinario di cognizione, eventualmente integrate da regole previste nello specifico per alcune di esse.
In deroga alle norme sul rito camerale, però, si prevede, al comma 3, che i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. Quando il provvedimento è emesso dal Tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla Sezione di Corte di Appello per i minorenni.
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Le modalità di ascolto del minore
Fatta questa premessa, se dunque il diritto del minore a essere ascoltato apparteneva – benché, a onor del vero, secondo modalità e confini mai interamente chiariti[9] -al novero dei diritti processuali della parte ben prima dell’entrata in vigore della legge n. 219/2012, il legislatore, tuttavia, ha ritenuto necessario ribadirne il rilievo, regolandolo in distinte disposizioni del codice civile (artt. 315 bis, 336 bis e 337 octies) e disciplinandone le modalità di ascolto, come risulta dalla relazione conclusiva redatta dalla “Commissione per lo studio e l’approfondimento di questioni giuridiche afferenti la famiglia e l’elaborazione di proposte di modifica alla relativa disciplina“, presieduta dal prof. Bianca, che ha redatto il testo del decreto poi trasfuso nel sopra citato d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154[10].
Sembra opportuno muovere qualche considerazione progredendo dalle considerazioni già espresse sull’attuale regolamentazione normativa dell’ascolto del minore[11]. Tale istituto che trova la propria genesi nel diritto convenzionale[12], come noto, dopo alterne vicende[13] sembrava aver trovato un formale ed effettivo riconoscimento attraverso la L. n. 219/2012 che, come già chiarito in precedenza, introducendo l’art. 315 bis, comma 2, c.c., aveva configurato un vero e proprio diritto del minore ad essere sentito nei giudizi in cui devono adottarsi provvedimenti che lo riguardano. Del resto, si ricorderà che la stessa legge all’art. 2, comma 1, lett. i), aveva delegato il governo a determinare le modalità di esercizio dell’ascolto del minore (in questo senso, si è visto come il D.lgs. n. 154/2013 abbia inserito gli artt. 336 bis e 337 octies che rimettono l’ascolto del minore ad un apprezzamento discrezionale del giudice allorché l’audizione appaia superflua o contraria al suo interesse, in palese conflitto col disposto dell’art. 315 bis, comma 2, c.c. che configura un vero e proprio diritto del minore ad essere udito[14]. Come si è già avuto modo di chiarire, in definitiva, si può ritenere che il conio degli artt. 336 bis e 337 octies c.c. risulta viziato da un eccesso di delega, in quanto la L. n. 219/2012 demandava al Governo la sola regolamentazione delle modalità di ascolto e non la facoltà per il giudice di valutare, caso per caso, l’opportunità di sentire il minore qualora l’ascolto non fosse manifestamente superfluo o contrario al suo interesse. Ne deriva inevitabilmente un quadro normativo frastagliato e privo di organicità per una materia così delicata ed un netto contrasto tra l’art. 315 bis, comma 2, c.c. che, come detto, legittimamente riconosce al minore che ha compiuto gli anni dodici, o all’infradodicenne capace di discernimento, un diritto di essere ascoltato nelle procedure che lo riguardano, e gli artt. 336 bis e 337 octies c.c. che lasciano invece una valutazione di opportunità in capo al giudice relativamente all’ascolto del minore.
Se nelle intenzioni del legislatore di fine 2012 (e prima ancora nelle fonti internazionali) non vi erano dubbi nel configurare l’ascolto come un diritto del fanciullo ad essere sentito, qualche perplessità sorge in quanto che il legislatore delegato del 2013 ha ammesso una valutazione preliminare di opportunità sull’ascolto che può dunque essere negato, pur nelle more di un procedimento che coinvolge il minore, se l’audizione è contraria al suo interesse[15] o manifestamente superflua[16]. È quest’ultima una situazione che per alcuni autori si può verificare nei procedimenti che nascono e si sviluppano con il volontario consenso dei genitori, quali ad esempio la separazione consensuale, il divorzio su ricorso congiunto, la richiesta concordata di modifica delle condizioni di separazione o divorzio, nonché i procedimenti su base concordata di affidamento e mantenimento dei figli non matrimoniali[17]. Alla luce di tali considerazioni non ci si troverebbe più di fronte ad un vero e proprio diritto della personalità del minore, attuabile quale adempimento necessario in presenza dei presupposti di legge (ovvero la pendenza di un processo in cui vengono adottati provvedimenti che incidono sul minore), ma ad una situazione giuridica affievolita e demandata alla discrezionalità dell’organo giurisdizionale il quale pertanto può esimersi dall’ascolto della prole[18].
In questo contrastato assetto normativo muove una parte della giurisprudenza che, se per un verso ribadisce l’esistenza di un generalizzato obbligo di ascolto del minore allineandosi all’indirizzo giurisprudenziale che prevede la nullità del procedimento qualora il giudice ometta di motivare l’ascolto ritenendolo contrario all’interesse del minore o superfluo[19], per altro verso si concentra sull’audizione del figlio infradodicenne per il quale occorre sempre valutare la capacità di discernimento prima di procedere all’ascolto.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte può indubbiamente dirsi che, benché si siano fatti numerosi ed importanti passi in avanti in tema di previsione normativa dell’obbligo di ascoltare il minore in talune rilevanti circostanze che si è avuto modo di analizzare nel corso della presente trattazione, tuttavia la relativa disciplina appare ancora non sistematizzata, essendo il quadro normativo costituito da una pluralità di norme codicistiche nel corso del tempo inserite ex novo o debitamente integrate.
Ciò che appare, in ogni caso, evidente è che tutte le disposizioni in esame abbiano come ratio precipua la circostanza secondo la quale non si può trattare l’imputato o il testimone minore come se fosse un adulto, configurandosi come assolutamente necessario procedere al suo ascolto attraverso un esperto e avendo sempre in primo piano nelle valutazioni del caso che si tratta di soggetti sensibili, la cui percezione dell’imbarazzo è fortemente più elevata rispetto agli adulti. Tale premessa risulta di primaria importanza, poiché proprio in tale contesto, la legge e le Convenzioni Internazionali in ambito penale hanno messo in rilievo la necessità di predisporre regole uniformi quando si procede all’ascolto dei minori, al fine di adottare un approccio protettivo nei loro confronti, garantendo che le indagini ed i procedimenti penali non rendano ancora più complesso ed aggravato il trauma.
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La capacità di discernimento, l’informativa da parte del giudice e il contegno del minore
Il diritto a essere ascoltato è riservato al minore che abbia compiuto gli anni dodici, «e anche di età inferiore ove capace di discernimento». In assenza di una precisa definizione normativa- assenza peraltro che non sorprende, atteso il carattere di affidamento alla discrezionalità del giudice che permea la novella – è necessario comprendere in cosa precisamente consista la «capacità di discernimento» e in che modo essa si manifesti al cospetto del giudice. Si tratta di un’operazione ermeneutica non agevole, e sicuramente tale da non poter essere condensata nello spazio assegnato alla presente indagine: tuttavia alcuni punti fermi possono essere utilmente stabiliti[20].
Come noto, la «capacità di discernimento» fu dapprima introdotta in ambito penale all’art. 54 del Codice Zanardelli. L’espressione fu poi sostituita dal Codice Rocco con il concetto di capacità d’intendere e volere, che venne ricondotto dagli interpreti alla categoria della maturità del minore. In realtà, la «capacità di discernimento» implica un rimando a nozioni tratte dalle scienze psicologiche e filosofiche – basti pensare al dibattito sulla sinderesi – che non possono essere qui approfondite. In estrema sintesi, possiamo comunque definire come capacità di discernimento del minore la capacità di lui di comprendere le proprie esigenze e, allo stesso tempo, di esprimere una decisione consapevole, ovvero di operare scelte adeguate al loro soddisfacimento.
La questione meriterebbe certamente una trattazione a sé. Per quello che qui interessa, il punto tuttavia è un altro: ammesso che sia possibile pervenire a una definizione univoca di «capacità di discernimento», conviene domandarsi in che modo il giudice possa – sulla base delle sue competenze o esperienze – stabilire se un minore di anni dodici (per i fanciulli di età superiore il legislatore ha risolto la quaestio con una sorta di presunzione assoluta) abbia o meno tale capacità. Egli certamente può trarre elementi di convincimento dagli scritti delle parti, ma questi non possono essere decisivi, soprattutto nel caso – peraltro assai usuale – in cui la prospettazione dei fatti e della situazione sia radicalmente contrastata. Di fatto, il giudice dovrebbe quindi comunque procedere all’ascolto del minore per comprendere se abbia o meno una capacità sufficiente perché sia ascoltato. Questa indicazione è solo a prima vista paradossale, ben potendo porsi il caso in cui il giudice, che non abbia ancora formato il proprio convincimento sulla capacità di discernimento del minore, disponga ugualmente l’ascolto, salvo convincersi che il minore stesso è privo dei requisiti previsti dalla legge. È tuttavia ovvio che tale soluzione non possa generalizzarsi, in quanto l’ascolto costituisce comunque un elemento di “fatica” per il fanciullo e dunque è necessario muoversi con estrema prudenza. Sarà allora interessante annotare in che modo si orienti la giurisprudenza, essendo prevedibile che l’ascolto venga generalmente disposto per i minori prossimi a compiere dodici anni, mentre per i più piccoli sarà il giudice a valutare prudenzialmente la situazione e a rivolgersi eventualmente a esperti al fine di minimizzare i rischi connessi all’ascolto[21].
Da ultimo, l’art. 336 bis c.c. prevede che «prima di procedere all’ascolto il giudice informa il minore della natura del procedimento e degli effetti dell’ascolto». Posto che il fanciullo venga ascoltato in quanto capace di discernimento, è evidente che lo stesso debba essere consapevole dell’atto cui partecipa e degli effetti delle sue dichiarazioni. Come ha chiarito la Suprema Corte, è necessario che «il minore riceva le informazioni pertinenti ed appropriate, con riferimento alla sua età ed al suo grado di sviluppo […], e tali informazioni non nuocciano al suo benessere»[22]. Poiché si tratta pur sempre di soggetti minori, vi è la concreta possibilità che la comunicazione non verbale degli stessi riveli condizionamenti più o meno accentuati, ovvero discrepanze tra quanto viene affermato e quanto effettivamente emerge da altre risultanze istruttorie. Da ciò la previsione legislativa secondo la quale «dell’adempimento è redatto processo verbale nel quale è descritto il contegno del minore, ovvero è effettuata registrazione audio video», così che eventuali annotazioni del giudice sul contegno del minore non siano mere clausole di stile, ma costituiscano espressione fedele della volontà del minore stesso.
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La partecipazione delle parti all’ascolto. L’uso del vetro specchio e dell’impianto citofonico
L’art. 336-bis c.c., per quanto riguarda i procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che interessano il minore, stabilisce che il giudice può autorizzare i genitori, anche nel caso in cui siano parti processuali del procedimento, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se già nominato a partecipare all’ascolto. Nonostante l’uso del verbo «partecipare», il cui significato è certo diverso dal mero assistere, è comunque evidente che tali soggetti non possano attivamente intervenire durante l’ascolto, e ciò neanche indirettamente. Infatti, la norma ha cura di specificare che dette parti «possono proporre [al giudice] argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio dell’adempimento», ma non già durante lo stesso. In ogni caso, generalmente sarà preferibile che il minore sia ascoltato dal solo giudice senza la contemporanea presenza dei genitori, i quali inevitabilmente costituirebbero un condizionamento per il figlio. La Cassazione ha infatti, e pure recentemente, confermato che l’ascolto «deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione, e quindi con tutte le cautele e le modalità atte ad evitare interferenze, turbamenti e condizionamenti»[23].
Un breve accenno merita altresì la previsione di cui all’art. 38-bis disp. att. c.c., nel quale è stabilito che se vi è la possibilità di usare un vetro specchio unitamente a un impianto citofonico, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se già nominato, e il pubblico ministero possono seguire l’ascolto del minore, in luogo diverso da quello in cui egli si trova, senza chiedere l’autorizzazione del giudice prevista dall’articolo 336-bis, comma 2°, c.c. Anche sulla concreta attuazione di questa norma bisognerà verificare gli orientamenti della giurisprudenza: tra l’altro è noto che molti tribunali italiani, specie quelli più piccoli, non hanno la possibilità di utilizzare le strutture previste dalla norma, che quindi in tali sedi non potrà essere applicata. Importante Cass. civ. Sez. I Sent., 07/03/2017, n. 5676[24], secondo cui in tema di adozione, l’art. 15 della l. n. 184 del 1983, come modificato dalla l. n. 149 del 2001, per il quale il minore di età inferiore ai dodici anni, se capace di discernimento, deve essere sentito in vista della dichiarazione di adottabilità, conferisce al giudice un potere discrezionale di disporne l’ascolto, anche al fine di verificarne la capacità di discernimento, senza tuttavia imporgli di motivare sulle ragioni dell’omessa audizione, salvo che la parte abbia presentato una specifica istanza con cui abbia indicato gli argomenti ed i temi di approfondimento, ex art. 336-bis, comma 2, c.c., su cui ritenga necessario l’ascolto del minore.
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L’ascolto da parte del presidente del tribunale o del giudice delegato. Discrezionalità nella scelta delle modalità e possibilità di delegare l’ascolto
Il minore deve essere ascoltato dal presidente del tribunale o dal giudice delegato[25]. L’art. 336-bis c.c. precisa inoltre che l’ascolto è condotto dal giudice, anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari. Sul punto sono sorte alcune perplessità, posto che l’espressione «anche avvalendosi» non chiarisce se il giudice possa delegare tout court l’ascolto agli esperti ovvero se egli debba comunque condurre l’ascolto in prima persona potendo essere affiancato da un esperto.
In proposito la Suprema Corte ha chiarito che il giudice può discrezionalmente determinare le modalità dell’audizione, in ciò anche compresa la possibilità di delegare l’ascolto a uno o più esperti, al fine di garantire al fanciullo il diritto effettivo a esprimersi[26].
Tale orientamento è stato ancora recentemente ribadito dalla Suprema Corte: «l’audizione può essere svolta, secondo le modalità stabilite dal giudice anche da soggetti diversi da esso»[27].
Si possono dunque estrapolare i seguenti principi: innanzitutto, il criterio cardine è il diritto del minore di esprimere liberamente il proprio pensiero. Al fine di concretizzare questo diritto, le modalità dell’audizione sono affidate alla discrezionalità del giudice, che dovrà valutare la situazione caso per caso. All’interno della discrezionalità del giudice è stata espressamente riconosciuta la facoltà per il giudice di delegare l’ascolto a soggetti terzi, compreso eventualmente il CTU[28]; essendo, esclusa l’obbligatorietà di conduzione diretta. Peraltro, è auspicabile che tale “apertura” giurisprudenziale non si risolva in una prassi di delega esclusiva e generalizzata, il che svuoterebbe in parte la norma di una sua peculiarità, quella di indurre un convincimento del giudice sempre più diretto e immediato.
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Effettività della tutela del minore nei giudizi di separazione e di divorzio tra i genitori
La partecipazione del minore nelle forme dell’audizione è ora resa obbligatoria dalla norma generale dettata dalla legge di riforma che, nell’enunciare i diritti e i doveri del figlio nel nuovo art. 315 bis cod. civ., introdotto dalla legge n. 219, prescrive che “il figlio minore che abbia compiuto i dodici anni o anche d’età inferiore ove capace di discernimento “ha diritto d’essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano” comprese, ovviamente, anche quelle in cui già partecipa in qualità di parte: mi riferisco, ad esempio, a quanto prescrivono il nuovo testo dell’art. 250, 4° comma, a proposito dei giudizi di opposizione al riconoscimento successivo e, ancora, il testo novellato dell’art. 336 sui giudizi de potestate nei quali l’ascolto del minore è ora espressamente previsto.
L’attuazione del principio dell’ascolto sul versante del processo civile è stata affidata al decreto legislativo che è riuscito ad arricchire, sotto vari profili, il testo della legge. Così, mentre la norma delegante di cui all’art. 2, lett. i), della legge n. 219 si limita a stabilire che all’ascolto “provvede il presidente del tribunale o il giudice delegato”, senza dare flessibilità a un adempimento così delicato, il legislatore delegato è riuscito a stemperare tale rigida prescrizione nel consentire al magistrato d’avvalersi “di esperti o di altri ausiliari” come prevede il nuovo art. 336 bis cod. civ.[29] a norma del quale il giudice, prima di iniziare l’audizione, deve informare il minore “della natura del procedimento e degli effetti dell’ascolto”. La regola sull’ascolto del minore è ulteriormente ribadita dall’art. 337 octies nell’àmbito dei giudizi di crisi familiare indicati dall’art. 337 bis e in quanto prescrive l’art. 316 dov’è previsto che il minore debba essere ascoltato nelle controversie sull’esercizio della potestà insorte sia nell’àmbito della famiglia legittima sia tra i genitori naturali e trova ancora riscontro nell’art. 4, 8° comma, legge div.[30].
L’audizione del minore, documentata da un apposito verbale o anche da un’apposita registrazione audiovisiva, deve svolgersi con modalità che garantiscano la spontaneità e la genuinità delle sue dichiarazioni: le parti private e i difensori non possono assistervi senza l’autorizzazione del giudice ma, prima che inizi, possono indicare al magistrato “argomenti e temi di approfondimento”: in ogni caso, tale autorizzazione non serve quando la salvaguardia del minore viene comunque assicurata “con idonei mezzi tecnici”[31].
È noto che la giurisprudenza, anche di legittimità, ha più volte rescritto che l’omessa audizione del minore è causa di nullità (relativa) del procedimento se non viene convenientemente motivata[32]. La riforma non rende esplicita la sanzione di nullità, ma conferma la necessità di motivare l’omessa audizione, un’omissione che è legittima solo se “contraria all’interesse del minore o manifestamente superflua“, e il giudice deve dare atto della mancata audizione con provvedimento motivato: regola questa inserita dal decreto legislativo nel nuovo art. 336 bis e richiamata, per i giudizi di crisi coniugale, dall’art. 337 octies dov’è ancora precisato, con una formulazione inutilmente contorta, che nei procedimenti in cui si omologa o si prende atto di un accordo fra i genitori “il giudice non procede all’ascolto se in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo“.
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Gli strumenti di negoziazione assistita e l’ascolto del minore
L’ordinamento giuridico italiano consente ai coniugi in crisi, uniti in matrimonio, di gestire il procedimento di separazione o di divorzio o attraverso le modalità classiche e d sempre previste dalla legge o avvalendosi di una delle novità più dirompenti introdotte dal D.L. n. 132/2014, convertito nella L. n. 162/2014, vale a dire la cd. negoziazione assistita. Quest’ultima, in particolare, si configura quale accordo con il quale le parti decidono di convogliare la gestione consensuale delle crisi matrimoniali senza rivolgersi al tribunale, attraverso l’assistenza di avvocati oppure direttamente davanti all’ufficiale di stato civile ed evitando alle parti processi, nella maggior parte dei casi, lunghi e costosi.
Di fatto, con la legge 10 novembre 2014, n. 162[33], il legislatore ha voluto fortemente accentuare il carattere privatistico del rapporto coniugale consentendo ai coniugi di separarsi e di divorziare affidandosi allo strumento di nuovo conio della negoziazione assistita e di evitare in tal modo le vie della giurisdizione ordinaria anche quando abbiano figli minori o maggiorenni disabili o privi di autonomia economica[34].
Una volta raggiunto e firmato (sia dalle parti che dai rispettivi avvocati), l’accordo deve essere sottoposto al controllo del procuratore della Repubblica; intervenuto il nullaosta della procura, entro dieci giorni, gli avvocati hanno il compito di trasmettere l’accordo all’ufficiale di stato civile del Comune nel quale il matrimonio era stato registrato.
Sotto un diverso profilo, la negoziazione assistita è stata introdotta anche con lo scopo di rendere meno pesante il carico di lavoro dei tribunali, contemplando varie ipotesi in cui le parti sono obbligate a ricorrere a tale strumento prima di rivolgersi al tribunale e di dare avvio ad un processo dinanzi al giudice.
Più nel dettaglio, l’art. 6, comma 1, D.L. n. 132/2014 prevede che “la convenzione di negoziazione assistita da almeno un avvocato per parte può essere conclusa tra i coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio nei casi di cui all’art. 3, comma 1, n. 2, lett. b, L. n. 898/1970 e successive modificazioni, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio“. Il comma 3 della stessa norma prevede, inoltre, che “l’accordo raggiunto a seguito della convenzione produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio“.
In tale contesto, non appare chiaro se il presidente possa far precedere il suo provvedimento da atti istruttori relativi alla situazione di fatto sulla quale l’accordo va ad incidere e se possa – o addirittura debba – ascoltare i figli minori o quelli maggiorenni incapaci, handicappati o economicamente non autosufficienti: la possibilità di assumere informazioni, prevista dal 3° comma del citato art. 738 c.p.c., induce ad una risposta tendenzialmente positiva, anche se la formula del “senza ritardo” contenuta nel 3° comma dell’art. 6 suggerisce di limitare le prove a quelle (non meramente rilevanti, ma addirittura) indispensabili. Ed analogo discorso di indispensabilità potrà farsi (nonostante le previsioni apparentemente inderogabili di cui agli artt. 315 bis, 3° comma, 336 bis e 337 octies c.c.) con riguardo all’ascolto dei figli[35].
È ben vero che il rapporto coniugale ha sempre avuto una dimensione privatistica con forti aperture all’esercizio dell’autonomia negoziale. Già la riforma del diritto di famiglia aveva posto in evidenza che è l’accordo fra i coniugi a determinare l’assetto dei loro rapporti: così l’art. 144 cod. civ. stabilisce che sono i coniugi a concordare tra loro l’indirizzo della vita familiare. Se affiorano disaccordi, l’intervento del giudice può soltanto avere lo scopo di indurre i coniugi ad una “soluzione concordata” dei loro contrasti che il giudice può risolvere solo quando i coniugi lo richiedano “espressamente e congiuntamente”. Anche quando i rapporti coniugali sono in crisi, spetta innanzitutto ai coniugi trovare un accordo sull’adempimento degli obblighi che hanno nei confronti dei figli e il giudice della separazione o del divorzio ne deve prenderne atto purché non contrari all’interesse dei figli (art. 337 ter, 2° e 4° comma). Ancora, la separazione consensuale e il divorzio su domanda congiunta, presuppongono entrambi un accordo sull’assetto dei rapporti economici e sull’esercizio della potestà parentale nei confronti dei figli.
Finora, tuttavia, la modificazione o l’estinzione del rapporto coniugale erano sottratte all’autonomia negoziale dei coniugi con la nota eccezione di quanto previsto per la separazione consensuale, attuata con un accordo peraltro sottoposto alla condicio iuris dell’omologazione giudiziale. La necessità d’avvalersi degli strumenti della giurisdizione si giustificava con la rilevanza pubblicistica attribuita al vincolo coniugale e alla famiglia intesa, lo specifica l’art. 29 Cost., come una società naturale fondata sul matrimonio e solo una sentenza poteva modificare l’assetto di rapporti che la Costituzione riconduce nell’àmbito dei rapporti etico-sociali, come vuole il titolo II della sua Parte Prima.
Questo quadro normativo sta subendo una rapida modificazione riflesso evidente della diversa rilevanza attribuita ai rapporti familiari e, per quanto la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dichiari che “è garantita la protezione della famiglia, sul piano giuridico, economico e sociale” (art. 33, 1° comma), è ormai diventato difficile parlare oggi di un interesse “superiore” della famiglia e affermare, come faceva De Ruggero negli anni Trenta, che “nei rapporti familiari l’interesse individuale è sostituito da un interesse superiore, quello della famiglia, poiché ai bisogni di questa e non dell’individuo mira la tutela giuridica”[36].
Ne è riprova la crisi in cui versa il principio dell’unità familiare causata dall’evoluzione dei rapporti familiari, avvenuta nel segno d’una progressiva affermazione del principio di eguaglianza fra i suoi componenti con l’effetto d’accentuarne l’autonomia e l’autodeterminazione e questo anche a prezzo della dissoluzione del nucleo familiare attuata con il progressivo rafforzamento dato al diritto dei coniugi di riacquistare lo stato libero.
Queste considerazioni trovano ulteriore e, direi, definitiva conferma nei recentissimi sviluppi impressi alla disciplina della separazione e del divorzio. Mentre finora separazione e divorzio potevano avvenire soltanto in sede giudiziale, con il recente decreto legge, come modificato dalla già citata legge di conversione n. 162 del 2014, diventa possibile ai coniugi che non intendano seguire la via giudiziale, separarsi e sciogliere il loro matrimonio anche soltanto con strumenti negoziali e, in particolare, con l’accordo raggiunto in sede di negoziazione assistita da “almeno un avvocato per parte” (art. 6) o stipulato davanti all’ufficiale dello stato civile (art. 12)[37]. I nuovi strumenti stragiudiziali possono essere utilizzati anche per modificare consensualmente le condizioni della separazione o del divorzio, con certezza quelle pattuite nelle convenzioni previste dalla nuova legge, ma anche – a quanto sembra – quelle giudizialmente stabilite con sentenza, nonché quelle pattuite in sede di separazione consensuale omologata a norma dell’art. 711 c.p.c.
La legge di conversione ha modificato in parti significative il testo del decreto legge. Infatti, le nuove norme non soltanto esigono che l’accordo raggiunto in sede di negoziazione assistita debba, per essere efficace, ricevere il nulla osta del pubblico ministero chiamato a verificare eventuali e non meglio precisate “irregolarità”[38], ma consentono ai coniugi di utilizzare lo strumento della negoziazione anche se vi sono figli minori o maggiorenni disabili o comunque non economicamente autosufficienti. Si tratta d’una possibilità introdotta in sede di conversione in modo affrettato e poco ponderato, una possibilità che era invece negata dal testo originario del decreto legge e ancora esclusa dalla legge di conversione per le separazioni e i divorzi che abbiano titolo nell’accordo manifestato dai coniugi davanti al sindaco, quale ufficiale dello stato civile, a norma dell’art. 12 della legge in commento.
Se vi sono figli minori, o maggiorenni disabili o non autonomi economicamente, la legge ha voluto dare al procedimento di negoziazione assistita un percorso parzialmente diverso all’evidente scopo di offrire loro una tutela che un controllo meramente formale dell’accordo raggiunto dai loro genitori non riuscirebbe ad assicurare. Così, a norma dell’art. 6, il testo dell’accordo raggiunto in sede di negoziazione assistita dev’essere trasmesso al pubblico ministero non soltanto per verificare eventuali irregolarità ma affinché lo valuti anche nel merito per verificare se risponde all’interesse dei figli: in caso affermativo, la legge parla di accordi che vengono “autorizzati” dal pubblico ministero per dare corso ai successivi adempimenti riguardanti le iscrizioni nei registri dello stato civile. Quando invece l’accordo risultasse contrario all’interesse dei figli, il pubblico ministero deve trasmettere gli atti, entro cinque giorni, al presidente del tribunale che fissa la comparizione delle parti “entro i successivi trenta giorni” per valutare la situazione e “provvedere senza ritardo”.
Con questa evasiva formula la legge lascia incerti sui poteri che possono essere esercitati nell’udienza presidenziale ma è verosimile che il presidente debba limitarsi a verificare la rispondenza dell’accordo all’interesse dei figli minori e a suggerire eventualmente ogni opportuna modificazione da apportare nel loro interesse, fermo restando che se questo non avviene egli può rifiutare l’autorizzazione richiesta: la legge non lo dice espressamente ma lo si ricava dal contesto e specialmente dall’applicazione analogica di quanto prescrive l’art. 158, 2° comma, cod. civ., a proposito della separazione consensuale.
Peraltro, vi sono evidenti difficoltà nell’ipotizzare che il presidente possa, nell’interesse dei figli minori, anche modificare d’ufficio l’accordo intercorso tra i coniugi o, ancora, far transitare il procedimento sui binari della separazione consensuale o del divorzio su domanda congiunta: nel primo caso, verrebbe data alla crisi coniugale una soluzione giurisdizionale che le parti non volevano e, in ogni caso, bisognerebbe integrare la norma con le regole sul reclamo alla corte d’appello nei confronti dei provvedimenti provvisori del presidente del tribunale applicando quanto prevede l’art. 708 c.p.c., come modificato dalla legge sull’affidamento condiviso del 2006. Nel secondo caso, l’iniziativa del giudice si porrebbe in contrasto ancor maggiore con la volontà dei coniugi di evitare le vie della giurisdizione, una volontà manifestata stipulando la convenzione di negoziazione assistita.
Qualche rilievo critico suscita il regime temporale di questi adempimenti, un regime che la legge ha cura di specificare solo quando nel procedimento di negoziazione sono coinvolti gli interessi di figli minori. Così, mentre sembra che debba trovare applicazione quanto prescrive la regola generale dell’art. 2, 2° comma, lett. a), per cui nella convenzione dev’esser precisato il termine per l’espletamento della procedura (“in ogni caso non inferiore a un mese e non superiore a tre mesi salvo una proroga di trenta giorni su accordo delle parti”), regole specifiche sono previste dall’art. 6, per le convenzioni in materia di separazione e divorzio.
Così, se in assenza di figli per cui provvedere nessun termine è dato agli avvocati per trasmettere il raggiunto accordo al pubblico ministero né a quest’ultimo per rilasciare il nulla osta, quando vi sono figli gli avvocati hanno l’obbligo di trasmettere, nel termine di dieci giorni, l’accordo al pubblico ministero, mentre quest’ultimo non ha termini per esprimere la propria valutazione: è soltanto stabilito che nell’ipotesi in cui ritenga l’accordo contrario all’interesse dei figli deve trasmettere gli atti al presidente del tribunale nel termine di cinque giorni e a quest’ultimo deve fissare “entro trenta giorni” l’udienza di comparizione e in quella sede “provvedere senza ritardo”: quest’ultima regola altro non è che un’esortazione in un quadro di termini sicuramente ordinatori.
A questo punto conviene chiederci se la scelta di affidare agli strumenti dell’autonomia negoziale anche l’assetto dei rapporti tra i genitori e la prole, sia pure con il vaglio del pubblico ministero, dia sufficienti garanzie per quanto riguarda la rispondenza di tali accordi all’interesse superiore dei figli minorenni o anche maggiorenni, se bisognosi di tutela in quanto gravemente minorati o economicamente non autosufficienti.
Vi è ragione di dubitarne, poiché la tutela del minore sembra affidata soltanto alla regola per cui l’accordo eventualmente raggiunto in sede di negoziazione assistita deve dare atto che “gli avvocati hanno informato le parti dell’importanza che il minore trascorra tempi adeguati con ciascuno dei genitori” e forse, ma solo indirettamente, anche a quanto dispone l’art. 5, 2° comma (con certezza applicabile alla negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio come vuole l’art. 6, 3° comma), per cui gli avvocati debbono certificare che l’accordo raggiunto è conforme “alle norme imperative e all’ordine pubblico” e quindi anche a quelle riguardanti i minori.
Per contro si resta sorpresi nel constatare che la legge non prevede l’ascolto del figlio minore capace di discernimento, né durante la fase della negoziazione assistita né in quella di competenza del pubblico ministero, uno strumento questo che già il diritto convenzionale considera indispensabile per dare al minore una tutela conforme al suo superiore interesse. Si tratta di un adempimento doveroso per attuare il diritto del minore a essere ascoltato “in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano”, come precisa l’art. 315 bis cod. civ., con una regola recepita dal diritto convenzionale e ora ribadita dagli artt. 336 bis e 337 octies rispettivamente per i giudizi di crisi familiare e per “i procedimenti in cui si omologa o si prende atto di un accordo fra i genitori relativo alle condizioni di affidamento dei figli”.
Non occorre soffermarsi oltre su questo fondamentale adempimento volto a consentire la percezione dell’interesse del minore: mi limito a notare come sia stata la giurisprudenza a recepire tempestivamente le indicazioni provenienti dal diritto convenzionale, non soltanto con il dare all’audizione del minore il giusto rilievo, ma anche con l’individuare le conseguenze derivanti dalla sua mancanza, conseguenze che il legislatore non ha ritenuto di precisare. Infatti, furono le Sezioni Unite a stabilire che l’omessa audizione del minore capace di discernimento causa la nullità del procedimento se non viene convenientemente motivata[39] ed è ricorrente l’affermazione che l’ascolto del minore è strumento primario, definito talora come un suo “diritto assoluto”, con il quale egli attua il proprio superiore interesse e riceve un’effettiva tutela dei suoi diritti.
Non è giustificabile questa mancanza di ogni riferimento all’ascolto del minore, una lacuna che getta ombre sulla stessa legittimità costituzionale delle norme che consentono la separazione e il divorzio in via negoziale anche in presenza di figli minori, per non avere il legislatore rispettato, come vuole l’art. 117 Cost., “i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Del resto, non sembra possibile dare al testo normativo un’interpretazione adeguatrice che consenta di applicare le norme generali e convenzionali sull’ascolto del minore. Mentre non vi sono ostacoli ad ammettere che la sua audizione possa avvenire nell’udienza presidenziale con le forme e le garanzie previste dagli artt. 336 bis cod. civ. e 38 bis disp. att. cod. civ., diventa molto difficile collocare tale adempimento nella fase di negoziazione condotta dagli avvocati dei coniugi o in quella di competenza del pubblico ministero: questo per l’assorbente ragione che l’ascolto del minore deve avvenire rispettando le garanzie previste a tutela sua e del diritto di difesa delle parti nelle forme accuratamente indicate dal medesimo art. 336 bis, forme che neppure un’acrobatica interpretazione creativa consente di applicare a tali fasi del procedimento di negoziazione assistita[40].
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Note
[1] Montaruli, Il nuovo riparto di competenze tra giudice ordinario e minorile, in Nuova gir. civ. comm., 2013, 218 ss.
[2] Il testo precedente dell’art. 38 disp. att. c.c., come modificato dall’art. 221 della L. n. 151/1975 e dall’art. 68 della L. n. 184/1983, era così formulato: “Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli artt. 84, 90, 171, 194, comma secondo, 250, 252, 262, 264, 316, 317bis, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, nonché nel caso di minori dall’art. 269, primo comma, del codice civile. Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. In ogni caso il tribunale provvede in camera di consiglio sentito il pubblico ministero. Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni”. Pertanto, a voler essere più chiari, rientravano nella competenza del Tribunale per i Minorenni i procedimenti in materia di : autorizzazione del minore che abbia compiuto sedici anni a contrarre matrimonio (artt. 84 e 90 c.c.); amministrazione del fondo patrimoniale in presenza di figli minori o attribuzione ad essi, in godimento o proprietà, di una quota dei beni dello stesso (art. 171 c.c.); costituzione, a favore di uno dei coniugi e a tutela dei figli minori, dell’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge, in sede di divisione dei beni della comunione legale (art. 194, comma 2, c.c.); autorizzazione al riconoscimento del figlio nato al di fuori del matrimonio, in caso di opposizione del genitore che ha già effettuato il riconoscimento (art. 250 c.c.); affidamento del figlio naturale riconosciuto durante il matrimonio e suo inserimento nella famiglia legittima (art. 252 c.c.); assunzione del cognome paterno da parte del figlio minore, se la filiazione nei confronti del padre sia stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre e autorizzazione ad impugnare il riconoscimento (artt. 262-264 c.c.); risoluzione dei contrasti tra genitori in merito all’esercizio della potestà genitoriale (art. 316 c.c.); esercizio della potestà (art. 317 bis c.c.); deliberazione dei provvedimenti ablativi o limitativi della potestà genitoriale (artt. 330, 332, 333, 334, 335 c.c.), compresi quelli urgenti (art. 336 c.c.); autorizzazione all’esercizio dell’impresa da parte del minore sottoposto a tutela (art. 371, ult. co., c.c.); dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, se l’azione riguardi un figlio ancora minorenne (art. 269, comma 1, c.c.).
[3] Le disposizioni di cui all’art. 3 della legge n. 219 e, dunque, le norme processuali contenute nel nuovo testo dell’art. 38 disp. att. c.c., trovano applicazione, come stabilito dall’art. 4, comma 1 della l. 219 – rubricato “Disposizioni transitorie” -, soltanto nei giudizi instaurati a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge. Si tratta di una deroga al principio tempus regit actum per il quale le norme di carattere processuale dovrebbero trovare immediata applicazione anche ai processi pendenti nel momento in cui esse entrano in vigore. Il comma 2 dell’art. 4 afferma, inoltre, che ai processi relativi all’ affidamento e al mantenimento di figli di genitori non coniugati, pendenti dinanzi al Tribunale per i Minorenni alla data di entrata in vigore della l. n.219 si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 737 ss. c.p.c. nonché il comma 2 dell’art. 3 della l. n. 219.
[4] Per Cass. 15.3.2001, n. 3765, in Giust. civ., 2001, I, 2658, “In tema di affidamento di minori, dovendo il discrimine tra la competenza del tribunale ordinario e quella del tribunale dei minorenni essere individuato in riferimento al “petitum” e alla “causa petendi”, rientrano, ai sensi del combinato disposto degli artt. 333 c.c. e 38 disp. att. c.c., nella competenza del tribunale dei minorenni le domande finalizzate ad ottenere provvedimenti cautelari e temporanei idonei ad ovviare a situazioni pregiudizievoli per il minore, anche se non di gravità tale da giustificare la declaratoria di decadenza dalla potestà genitoriale, di cui all’art. 330 c.c., mentre rientrano nella competenza del tribunale ordinario, in sede di separazione personale dei coniugi, di annullamento del matrimonio o di “pronunzie” ex legge n. 898 del 1970, le pronunzie di affidamento dei minori che mirino solo ad individuare quale dei due genitori sia il più idoneo a prendersi cura del figlio”.
[5] Tommaseo, La nuova legge sulla filiazione: i profili processuali, in Foro.it, 2013, 3, 256,
[6] Dalla lettura dell’art. 38 disp. att. c.c. emerge, dunque, che la competenza del Tribunale ordinario sussiste solo quando le parti del giudizio de potestate siano gli stessi coniugi che si confrontano per la separazione o il divorzio, mentre la competenza del Tribunale per i Minorenni continua a sussistere ogniqualvolta le parti non siano le stesse e, pertanto, nell’ipotesi in cui l’azione sia stata proposta nei confronti del genitore abusante da un parente o dallo stesso Pubblico Ministero e quindi dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni. In tal senso, Tommaseo, op. cit., 257.
[7] Tommaseo, op. cit., 258.
[8] Graziosi, Una buona novella di fine legislatura: tutti i “figli” hanno eguali diritti, dinanzi al tribunale ordinario, in Foro.it, 2013, 3, 263
[9] De Marzo, L’affidamento condiviso. I. Profili sostanziali, in Foro it., 2006, V, 92; Cordero, Giudizio contenzioso di separazione e di divorzio. Giudizio di primo grado, in Separazione, divorzio, annullamento diretto da Sicchiero, Bologna, 2006, 633; Graziosi, Profili processuali della l. n. 54 del 2006 cd. sull’affidamento condiviso dei figli, in Dir. fam. e pers., 2006, 1865.
[10] In particolare, nella relazione è stato evidenziato che il diritto del minore a essere ascoltato era già riconosciuto dall’Ordinamento italiano e che «sono state disciplinate le modalità di ascolto del minore, tenendo conto sia di quanto affermato nelle sentenze delle Corti sovrannazionali (in particolare, dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea), sia nelle sentenze della Suprema Corte sul tema (Cass. 21 ottobre 2009, n. 22238, in Foro.it, 2010, 364 ss.
), sia delle risultanze emerse all’esito di incontri di studio per la formazione dei magistrati, organizzati dal Consiglio Superiore della Magistratura, in materia di ascolto del minore, durante i quali sono state analizzate prassi e orientamenti seguiti dai Tribunali italiani».
[11] Graziosi, Osservazioni perplesse sulle ultime (?) stravaganti riforme processuali in materia di famiglia, in Foro.it, 2015, 1120;
[12] Come noto, è stata la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 a sancire il principio (art. 12) per cui il minore capace di discernimento ha diritto di essere sentito in ogni procedimento giudiziario o amministrativo che lo riguarda (Graziosi, Note sul diritto del minore ad essere ascoltato nel processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 1281 ss.). Successivamente la Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996 (recepita dal nostro Paese nel 2003) non solo ha confermato quanto sancito dalla Convenzione di New York, ma ha anche attribuito al minore la facoltà di azionare una serie di diritti al fine di assicurargli una difesa processuale adeguata (v. artt. 3, 4, 5). La Carta di Nizza del 2000 (inclusa poi nel Trattato di Lisbona del 7 dicembre 2007) ha ribadito la necessità che le istituzioni pubbliche e private provvedano a sentire il minore sulle vicende che lo riguardano. Su tale scia si colloca l’art. 23, lett. b, Reg. CE 2201/2003, che nega il riconoscimento delle decisioni relative alla responsabilità genitoriale rese “senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato”, ad eccezione dei casi di urgenza (Lopes Pegna, L’interesse superiore del minore nel regolamento n. 2201/2003, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2013, 357 ss.). Ancora, il Comitato Onu sui diritti dell’infanzia (v. commento generale n. 12, 1° luglio 2009 “The right of the child to be heard”) ha affermato che è dovere di ogni Stato assicurare il diritto del minore di essere ascoltato, purché previamente e adeguatamente informato sulle questioni per le quali dovrà esprimersi, affinché il suo punto di vista possa coadiuvare l’autorità giudiziaria nell’adottare la soluzione più conforme alle proprie esigenze. Ancora, le Linee guida del Consiglio d’Europa (17 novembre 2010) hanno prospettato che la giurisdizione tuteli i diritti e gli interessi del minore attuando opportuni strumenti processuali e, in particolare, la sua necessaria audizione (Tommaseo, Il processo familiare e minorile italiano nel contesto dei principi europei, in Dir. fam. pers., 2012, 1265 ss.; Querzola, La tutela processuale dei minori in prospettiva europea, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 452 ss.).
[13] Nel nostro ordinamento il riconoscimento del diritto del minore all’ascolto ha attraversato varie fasi. Una prima “timida” previsione fu introdotta nella l. div. con la L. n. 74/1987: così gli artt. 4, comma 8, e 6, comma 9, attribuivano al giudice la facoltà di sentire i figli minori solo quando fosse “strettamente necessario”, tenuto conto della loro età. Solo nel 2006 l’ascolto del minore, da mero potere discrezionale diventa oggetto di un dovere dell’organo giudicante a norma del nuovo art. 155 sexies c.c. Su tale innovazione, si vedano Querzola, L’audizione del minore alla luce dei recenti interventi giurisprudenziali e del legislatore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 1336; Campese, L’ascolto del minore nei giudizi di separazione e divorzio, in Foro.it, 2011, 958 ss.; Casaburi, L’ascolto del minore tra criticità processuali ed effettività della tutela, in Corr. mer., 2012, 32 ss. e, tra gli Autori per i quali l’ascolto del minore era divenuto con l’art. 155 sexies un incombente imprescindibile per il giudice. De Marzo, L’affidamento condiviso. I. Profili sostanziali, in Foro it., 2006, V, 92; Graziosi, Profili processuali della l. n. 54 del 2006 cd. sull’affidamento condiviso dei figli, in Dir. fam. pers., 2006, 1865; Dogliotti, I procedimenti: la separazione personale, in Il nuovo diritto di famiglia, I, diretto da Ferrando, Bologna, 2007, 1052; Cecchella, in Cecchella-Vecchio, Il nuovo processo di separazione e divorzio, Milano, 2007, 82; De Filippis, Affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio, Padova, 2007, 203. Sostenevano che il giudice godesse ugualmente di un margine di discrezionalità quanto all’audizione: Tommaseo, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: b) profili processuali, in Foro.it, 2006, 397; Salvaneschi, I procedimenti di separazione e divorzio, in Foro.it, 2006, 371; Danovi, L’affidamento condiviso: le tutele processuali, in Dir. fam. pers., 2007, 1921.
[14] In particolare, la L. n. 219/2012 apporta una modifica lessicale poiché l’incombente processuale inerente il minore non è più qualificato come “audizione”, quasi si trattasse della dichiarazione d’un testimone o d’un informatore, bensì “ascolto”, a sottolineare che il minore non è interpellato per appurare la rispondenza al vero di fatti oggetto di contestazione, ma ascoltato per consentire di manifestare al giudice i propri bisogni: Querzola, L’audizione del minore, cit., 1336. Sull’ascolto del minore nella L. n. 219/2012, Tommaseo, La nuova legge sulla filiazione: i profili processuali, in Foro.it, 2013, 261; Graziosi, Una buona novella di fine legislatura: tutti i “figli” hanno eguali diritti, dinanzi al tribunale ordinario, in Foro.it, 2013, 275; Danovi, Nobili intenti e tecniche approssimative nei nuovi procedimenti per i figli (non più) “naturali”, in Corr. giur., 2013, 538 e sul D.lgs. n. 154/2013 v. Tommaseo, I profili processuali della riforma della filiazione, in Foro.it,, 2014, 530 ss.; Danovi, Il d.lgs. n. 154/2013 e l’attuazione della delega sul versante processuale: l’ascolto del minore e il diritto dei nonni alla relazione affettiva, in Foro.it,, 2014, 535 ss.
[15] L’ascolto può essere contrario al suo interesse quando il minore si trova in una situazione di estrema emotività, oppure quando ha in precedenza manifestato la volontà di non essere sentito. La giurisprudenza, ancor prima dell’entrata in vigore dell’art. 336 bis, giustificava la mancata audizione del minore se questa risultava in contrasto con il perseguimento del suo superiore interesse: Cass., SS.UU., 21 ottobre 2009, n. 22238, in Foro.it, 2010, 364 ss., con nota di Graziosi, Ebbene sì, il minore ha diritto di essere ascoltato nel processo; Cass. 26 aprile 2007, n. 9094, in Riv. dir. int. priv. proc., 2008, 211; App. Milano 21 febbraio 2011, in Foro it., 2012, I, 919.
[16] Lupoi, Il procedimento della crisi tra genitori non coniugati avanti al Tribunale ordinario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 1316.
[17] Danovi, L’ascolto del minore nel processo civile, in Dir. fam. pers., 2015, 1608; Reali, L’ascolto del minore nei procedimenti di separazione e divorzio, in Giusto proc. civ., 2013, 747.
[18] Tale contesto normativo ha portato parte della dottrina, in maniera condivisibile, a ravvisare una questione di illegittimità costituzionale degli artt. 336 bis e 337 octies c.c., non soltanto nella parte in cui emerge l’eccesso di delega, ma soprattutto avverso l’art. 315 bis c.c. che riconosce al minore il diritto di essere sentito nel corso del giudizio: Graziosi, Osservazioni perplesse, cit., 1122.
[19] Cass., SS.UU., 21 ottobre 2009, n. 22238, cit., confermata da Cass. 27 gennaio 2012, n. 1251, in Foro.it, 2012, 889, con nota di Astiggiano, Ascolto del minore (infra)dodicenne nel procedimento di adozione in appello;
[20] Graziosi, Profili processuali della l. n. 54 del 2006 cd. sull’affidamento condiviso dei figli, cit., 1866.
[21] Graziosi, Profili processuali della l. n. 54 del 2006 cd. sull’affidamento condiviso dei figli, cit., 1870.
[22] Cass. 14 febbraio 2014, n. 3540, in Pluris, Wolters Kluwer Italia.
[23] Cass. 5 marzo 2014, n. 5097, in Foro.it, 2014, I, 1067.
[24] Cass. 7 marzo 2017, n. 5676, in Foro.it, 644655-01.
[25] Cfr. art. 2, n. 1, lett. B, l. n. 219/2012 e art. 336-bis c.c.
[26] Cass. 15 maggio 2013, n. 11687, in Foro it., Rep. 2013: «le modalità dell’audizione, che non costituisce un atto istruttorio tipico, bensì un momento formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto, sono affidate alla discrezionalità del giudice, il quale deve ispirarsi al principio secondo cui l’audizione stessa deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione (Cass. 26 gennaio 2011, n. 1838). […] Si ritiene in maniera quasi unanime, pur esprimendosi da più parti, anche in dottrina, preferenza per l’audizione diretta, che il giudice, soprattutto quando particolari circostanze lo richiedano, possa avvalersi di esperti, delegando agli stessi l’audizione del minore».
[27] Cass. 31 marzo 2014, n. 7479, in Foro it., 2014, I, c. 1543.
[28] Cass. 24 luglio 2013, n. 17992, RV627314.
[29] Tommaseo, Verso il decreto legislativo sulla filiazione: le norme processuali proposte dalla Commissione ministeriale, in Foro.it, 2013, 632.
[30] È rimasto peraltro immutato quanto dispone l’art. 145 cod. civ. a proposito dell’intervento del giudice in caso di disaccordo fra i coniugi sull’indirizzo della vita familiare: l’audizione è qui prevista, “per quanto opportuno”, solo dei figli conviventi ultra-sedicenni e quindi non soltanto dei figli minori.
[31] Così il nuovo art. 38 bis disp. att. cod. civ. che, a titolo esemplificativo, fa riferimento “all’uso di vetro specchio unitamente ad impianto citofonico”, ma ben può essere utilizzato altro strumento idoneo quale un collegamento televisivo a circuito chiuso come avviene nell’ascolto protetto del minore in sede penale.
[32] Cass., sez. un., 21 ottobre 2009, n. 22238, cit.
[33] Si tratta della legge, in vigore dall’11 novembre, che ha convertito il decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, recante misure urgenti di degiurisdizionalizzazione apportandovi peraltro numerose modifiche.
[34] Lupoi, Separazione e divorzio, cit., 290.
[35] Lupoi, Separazione e divorzio, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2015, 287 e seg.
[36] De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, VII ed., II, Messina, 1934, 5.
[37] Sempreché, in questa seconda ipotesi, la coppia non abbia figli minori. Noto per inciso che i coniugi non possono inserire nell’accordo stipulato davanti all’ufficiale dello stato civile «patti di trasferimento patrimoniale»: è interessante notare che una circolare del Ministro dell’Interno, datata 28 novembre 2014, precisa che questa esclusione deve essere interpretata in modo rigoroso dagli ufficiali dello stato civile e che pertanto va esclusa dall’accordo davanti a loro “qualunque clausola avente carattere dispositivo sul piano patrimoniale, come l’uso della casa coniugale, l’assegno di mantenimento, ovvero qualunque altra utilità economica tra i coniugi dichiaranti”, un’interpretazione che diminuisce di molto l’appetibilità di questo inedito strumento.
[38] A tal fine, anche se il testo della legge non lo dice espressamente, dovrà essere trasmessa al pubblico ministero anche la convenzione stipulata dai coniugi per utilizzare lo strumento della negoziazione assistita.
[39] Cass., sez. un., 21 ottobre 2009, n. 22238, cit., 364 ss. (v. nota 10).
[40] De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, cit., 10.
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