I metodi per la determinazione del contratto incompleto

Determinazione di un soggetto esperto

Il legislatore pur dettando una disciplina generale come quella dell’art. 1349 del codice civile prevede numerose ipotesi specifiche di arbitraggio tra le quali sussistono rilevanti diversità, tanto che alcuni dubitano dell’esistenza di normativa generale dell’arbitraggio.

Il legislatore ha regolato, insieme ad altre ipotesi specifiche, la determinazione ad opera del terzo del prezzo nella compravendita (art. 1473) e la rimessione, sempre al terzo, della scelta tra le prestazioni dedotte nell’obbligazione alternativa (artt. 1286, 1287). In materia di vendita, l’art. 1473 rubricato “Determinazione del prezzo affidata ad un terzo” declina che, nel caso in cui le parti non si accordino sulla nomina del terzo o sulla sua sostituzione, il terzo possa essere nominato dal presidente del Tribunale, su richiesta di una delle parti. La differenza di disciplina rispetto all’art. 1349 c.c, dove ad una mancata determina- zione del terzo supplisce la determinazione del giudice, viene spiegata in ragione del carattere prettamente tecnico della determinazione del prezzo. Secondo una parte della dottrina, la nomina giudiziaria sarebbe preclusa, in applicazione della regola contenuta nell’art. 1349 c.c, secondo comma, quando le parti si rimettono al mero arbitrio di un terzo che non vuole o non può accettare, ed esse non riescono ad accordarsi sulla sua sostituzione; appare tuttavia più corretta, alla luce del principio di conservazione del contratto, l’interpretazione che ritiene ammissibile la sostituzione del terzo in ogni caso. Per quanto riguarda le obbligazioni alternative, caratterizzate dall’indeterminatezza parziale dell’oggetto derivante dalla pluralità di prestazioni possibili dedotte in contratto, l’art. 1286 c.c prevede che la scelta debba essere effettuata da parte di un soggetto terzo: “La scelta spetta al debitore se non è stata attribuita al creditore o ad un terzo”. Nel caso in cui il terzo non effettui la scelta questa è effettuata dal giudice, si torna ad applicare il principio generale di determinazione ad opera del giudice.

La questione relativa alla natura della determinazione del soggetto terzo ha dato origine a molteplici teorie. Queste possono essere ricondotte a due filoni principali, uno che afferma l’altro che nega la natura negoziale.

Tra i sostenitori della natura negoziale, alcuni ritengono che il negozio sia un atto principale, invece la maggioranza sostiene la teoria di atto ausiliario con il solo scopo di attribuire efficacia al negozio principale.

Secondo altri giuristi la determinazione del terzo deve essere definita atto di arbitraggio, mero atto giuridico che si può configurare come atto di valutazione o di partecipazione. Infatti la determinazione del terzo deve essere considerata fatto giuridico in quanto non esprime mai un contenuto volitivo. Qualunque sia la qualificazione da attribuire alla determinazione, il terzo con questa, contribuisce alla regolamentazione di interessi esclusivamente altrui, ai quali è del tutto estraneo.

Per quanto riguarda la qualificazione del rapporto tra le parti ed il terzo, “l’arbitratore può genericamente essere considerato come un ausiliario delle parti in quanto collabora con loro, con poteri più o meno ampi, alla fissazione del regolamento negoziale.” Alcuni affermano che il terzo sia un rappresentante delle parti ma tale teoria non può essere accettata perché, se è vero che l’atto del terzo produce effetti nella sfera giuridica delle parti, non è però presente alcun altro elemento di contatto tra arbitraggio e rappresentanza.

Il rapporto che si crea tra arbitratore e parti viene, da alcuni, qualificato come mandato, mentre, da altri, come contratto d’opera intellettuale. A favore della qualifica di mandato milita l’affermazione che il mandatario esplica un’attività tecnica e professionale in esecuzione dell’incarico ricevuto, mentre contro tale qualifica si afferma che l’arbitratore esplica la propria attività nei confronti degli stessi soggetti che gli conferiscono l’incarico.

Inoltre, dal momento che si nega all’arbitratore un potere di rappresentanza si dovrebbe configurare l’arbitraggio come un mandato senza rappresentanza, prospettiva non accettabile in quanto comporterebbe che la dichiarazione che deve essere fatta dall’arbitratore venga acquisita a suo nome e poi ritrasferita al mandante, questo elemento milita a favore della configurazione come contratto d’opera intellettuale.

Per altri pensatori l’arbitraggio è un contratto atipico da qualificare come contratto di arbitraggio, ritenendo che: “l’arbitraggio è un contratto consensuale a forma libera, a titolo oneroso o gratuito, che prevede un obbligo per l’arbitratore di procedere alla determinazione secondo le modalità previste e per le controparti di provvedere alle spese sostenute ed al pagamento del compenso eventualmente pattuito”.

L’art. 1349 c.c menziona due diversi criteri secondo i quali il terzo può procedere alla determinazione: tali criteri possono essere riconnessi a quelli del “merum arbitrium” e dell’arbitrio “boni viri”, in realtà simile paragone ha generato non pochi equivoci in ordine al significato da attribuire ai due principi. Quando si parla di determinazione secondo equo apprezzamento si fa riferimento allo standard classico del “bonus pater familias”, il c.d. “uomo medio”. Determinando tramite questo criterio, il terzo guarda alle circostanze del singolo caso ed a queste adegua la sua determinazione, secondo un principio di equità inteso in senso oggettivo. Al contrario, tradizionalmente, quando si parla di determinazione secondo mero arbitrio si fa riferimento ad una decisione presa in base ad una libera scelta, secondo il proprio criterio morale senza far riferimento al senso comune. Si può affermare che la determinazione secondo equo arbitrio sia oggettiva, vincolata e controllabile mentre quella secondo mero arbitrio sia soggettiva, libera ed incontrollabile. In effetti, “senza che alcuna circostanza precisa abbia favorito una simile interpretazione, si è singolarmente radicato in una parte della dottrina il convincimento che in caso di equo apprezzamento il terzo debba procedere con serietà e ponderazione, mentre in caso di mero arbitrio possa decidere in base al suo capriccio.”

In realtà, non si può credere che le parti abbiano deciso di sottomettersi al mero “capriccio” di un soggetto terzo, né tanto meno che il legislatore abbia previsto una simile disciplina. Per questo motivo si afferma che anche la determinazione effettuata secondo mero arbitrio debba avere i requisiti della serietà e dell’obiettività, al contempo però il legislatore non si è voluto riferire con due termini diversi ad uno stesso criterio. Si ritiene, quindi, che la determinazione secondo mero arbitrio sia affidata ad un soggetto, ritenuto anche non particolarmente competente in quel determinato ambito, ma nei cui confronti si ha una grande fiducia perché a conoscenza di situazioni, anche extra-giuridiche e di carattere personale, non note ad altri soggetti.

L’intervento del giudice nelle ipotesi di determinazione affidata ad un soggetto terzo è in definitiva presente in cinque diverse ipotesi: Per procedere alla determinazione non effettuata dal terzo secondo equo apprezzamento al fine di annullare la determinazione iniqua o erronea del terzo che procede secondo equo apprezzamento, per effettuare la determinazione dopo l’annullamento di quella iniqua ed erronea, per annullare la determinazione effettuata secondo male fede nel caso in cui il terzo proceda per mero arbitrio ed, infine, per annullare la determinazione in caso di vizi della volontà o incapacità dell’arbitratore.

Determinazione unilaterale

La determinazione unilaterale può essere utilizzata per superare il problema dell’incompletezza economica. Essa è, in particolare, preferibile ad altre modalità di determinazione in almeno due ipotesi. La prima ipotesi riguarda le operazioni economiche con investimenti specifici unilaterali o bilaterali ma asimmetrici, dove esiste la necessità di tutelare la parte che ha effettuato tali investimenti. La seconda ipotesi riguarda i casi in cui il completamento o la modifica successiva del contratto siano dovuti a fattori esterni che rendono quindi superfluo un accordo per la modifica. Ad esempio nei contratti bancari, quando la variazione di alcuni elementi dipende da interventi delle competenti autorità, un’ulteriore trattazione sarebbe inutile e comporterebbe esclusivamente ulteriori costi.

La giurisprudenza, fino ad epoca recente, ha escluso la possibilità di rimettere l’arbitraggio ad una delle parti del contratto ma tale orientamento ha avuto importanti cambiamenti di rotta come dimostrato da una sentenza del Tribunale di Roma, che ha ammesso la determinazione unilaterale di elementi contrattuali, se agganciata a parametri che possono essere obiettivamente individuati.

La dottrina “conservatrice” esclude la possibilità della determinazione unilaterale guardando alla lettera dell’art. 1349 del codice civile. I sostenitori di tale teoria, affermano accanto al loro fermo rifiuto della figura in esame, la possibilità che lo schema contrattuale venga ricreato a seguito dell’accettazione della controparte della determinazione unilaterale. Solo in tale ipotesi potrebbe essere accettata la determinazione non sicuri della tenuta della loro opinione, che l’unico caso di determinazione unilaterale accettabile sarebbe quello effettuato con il criterio dell’equo apprezzamento.

“La più recente dottrina ammette la possibilità di determinazione unilaterale di elementi del contenuto contrattuale sulla base del principio di autonomia privata, […] tanto che si afferma: non vi sarebbe motivo di escludere l’“arbitrium boni viri” della parte. Si può quindi prevedere tale possibilità quando ci sono criteri predeterminati, la parte agisce secondo equo apprezzamento e sempre se la legge non prevede un espresso divieto”.

Il legislatore ha attribuito delle facoltà da esercitare in via unilaterale in presenza di alcune situazioni, tali previsioni possono essere utilizzate a sostegno della teoria dell’ammissibilità della determinazione unilaterale. Queste facoltà unilaterali sono definite “istruzioni integrative” ed hanno lo scopo di colmare lacune dell’iniziale regolamento contrattuale e di introdurre lievi variazioni su elementi che possono essere specificati esclusivamente in fase esecutiva.

Nella disciplina delle obbligazioni alternative, la facoltà di scegliere tra le due o molteplici obbligazioni dedotte in contratto spetta al debitore, se non è stata deferita al creditore o ad un soggetto terzo.

Anche nelle obbligazioni generiche la scelta può essere rimessa ad una sola parte o al solo creditore ex art. 1378 c.c. L’indeterminatezza della prestazione è vista come il punto di unione tra obbligazioni alternative e generiche che si differenziano perché nelle obbligazioni alternative, entrambe le prestazioni sono dedotte in obbligazione, mentre in quelle di genere è il genere in quanto tale ad esservi dedotto. L’art. 1560 c.c, dedicato al “contratto di somministrazione”, consente al creditore di determinare la quantità quando siano stati determinati un limite minimo e massimo complessivo o della singola prestazione, quindi, nell’ipotesi speciale in cui non ci si rimetta al normale fabbisogno del somministrato.

Si teme, infatti, che la determinazione contrattuale rimanga legata al mero capriccio di una parte e che questa possa cedere alla tentazione di alterare il sinallagma a proprio favore, alcuni ritengono che tale ipotesi sia simile a quella dell’art. 1355 c.c riguardante la condizione meramente potestativa che, ove prevista, comporta la nullità dell’intera vicenda negoziale.

In realtà tale paragone non è condivisibile in quanto la determinazione secondo mero arbitrio rimane pur sempre caratterizzata dalla doverosità delle determinazione e consiste in un’obbligazione che deve essere eseguita secondo buona fede, caratteristiche che nulla hanno a che vedere con la situazione nella quale si trova il soggetto a cui favore è disposta una condizione meramente potestativa.

Resta in ogni caso aperta la questione relativa all’ammissibilità della determinazione unilaterale sulla base del criterio del mero apprezzamento, soprattutto in relazione ad un maggiore rischio di determinazione abusiva, non tanto perché il criterio del mero arbitrio sia sinonimo di mero capriccio ma piuttosto per la difficoltà di rinvenire un criterio certo sulla base del quale valutare la determinazione.

Accordo successivo delle parti

Le parti possono prevedere che il completamento del contratto avvenga mediante un loro successivo accordo. Si ritiene che la determinazione successiva sia ammissibile quando le parti abbiano fissato dei criteri sulla base dei quali effettuarla, perché in tal caso la determinazione ha natura valutativa e non volitiva, ovvero qualora abbiano inteso comunque perfezionare il contratto; in quest’ultimo caso la determinazione rimessa a successivo accordo è ammissibile perché nell’intenzione delle parti, che viene interpretata secondo il principio della buona fede e della correttezza, è implicita la volontà, in caso di mancato accordo, di riferirsi all’equo apprezzamento. Si afferma che la determinazione bilaterale degli elementi contrattuali è ammissibile, quando le parti abbiano inteso riferirsi ad un criterio e questo sia desumibile dal contratto. Questa modalità di completamento del contratto è fonte di discussione in relazione al fatto se, effettivamente, un contratto con determinazione rimessa a successivo accordo tra le parti possa essere considerato dotato del requisito della determinabilità.

Il nostro codice fa esplicito riferimento ad un successivo accordo tra le parti ex art. 1378 c.c nel caso di contratto avente ad oggetto il trasferimento di cose determinate solo nel genere. La giurisprudenza ha affermato la possibilità di ritenere determinato un contratto nel caso in cui le parti abbiano rimesso ad un loro successivo accordo la definizione del prezzo, prevedendo nel caso di mancato raggiungimento dell’accordo la remissione della determinazione al giudice. In tal caso la giurisprudenza ha espresso un’opinione di favore nei confronti della determinazione effettuata tramite successivo accordo delle parti perché queste avevano già previsto un metodo con il quale superare l’eventuale stallo nella determinazione dell’elemento contrattuale in questione. Si giunge alla conclusione che i casi in cui la determinazione ad opera delle parti è considerata come accettabile sono inferiori ai casi nei quali lo sono la rimessione ad un soggetto terzo o ad una delle parti, per evitare che si consideri come accettabile una situazione in cui un contratto esistente contenga in sé elementi che portano alla sua nullità.

E’ possibile che i contraenti esprimano un’opzione in favore di una riapertura del contenuto contrattuale. “La necessità di rivedere durante l’adempimento il contenuto delle obbligazioni delle parti può porsi per una molteplicità di ragioni, che vanno dal fatto che taluni elementi del rapporto non sono stati specificati al momento della conclusione dell’accordo, (caso di incompletezza originaria) al sopravvenire di eventi al verificarsi dei quali i contraenti si sono impegnati a rinegoziare, all’emergere di particolari circostanze connesse con fatti ignoti al momento della stipulazione, che rendono più onerosa, per una parte, la prestazione dovuta” (casi di incompletezza successiva).

Le parti stipulano un’opzione di vendita relativa ad un pacchetto azionario, rinviando ad un momento successivo l’esatta determinazione del prezzo; l’oblato accettava tempestivamente la proposta ma il contratto non veniva portato ad esecuzione perché tra le parti sorgevano delle divergenze circa il prezzo effettivamente dovuto. Deceduta la titolare del diritto di opzione, gli eredi agivano in giudizio con azione di rivendicazione contro   i venditori, affermando che la loro dante causa era divenuta proprietaria del pacchetto oggetto di opzione nonostante il prezzo non fosse ancora stato determinato e, dunque versato. Si trattava di stabilire se l’oggetto     del contratto potesse essere considerato determinabile anche in quelle ipotesi in cui la sua determinazione è deferita dalle parti ad un accordo successivo. La cassazione ha risposto affermativamente perché le parti avevano già stabilito alcuni criteri per la determinazione del prezzo mentre la soluzione sarebbe stata di senso contrario se la determinazione fosse stata rimessa ad un successivo mero accordo. Nonostante tale affermazione si è prevista la possibilità che il giudice definisca l’oggetto del contratto anche nel caso di determinazione tramite successivo accordo perché si è presunto il riferimento all’equo apprezzamento. Alla base di pronunce favorevoli alla determinazione dell’oggetto del contratto da parte del giudice sta l’applicazione del principio di conservazione del contratto di cui all’art.1367c.c.

(“Con le clausole di rinegoziazione i contraenti esprimono la loro volontà a non contenere la collaborazione alla sola fase redazionale del contratto, ma, di estenderla anche nella fase critica dell’esecuzione.”)

Il contratto può, quindi, essere dotato di clausole che facilitino lo svolgimento di un’ulteriore trattativa tra le parti o adeguino automaticamente il contenuto contrattuale.

Tutto questo con lo scopo di evitare l’applicazione di rimedi, nei casi di sopravvenienze contrattuali, che nella maggior parte dei casi, non conservativi del rapporto contrattuale.

Il nostro codice civile, per quanto riguarda la disciplina dell’eccessiva onerosità, presenta non pochi elementi di modernità. Infatti, a fronte di una sopravvenuta eccessiva onerosità della prestazione la parte svantaggiata può, ex art. 1467 c.c, richiedere la risoluzione del contratto e a questa richiesta può seguire la proposta della controparte di ricondurre ad equità il rapporto, allo scopo di evitare lo scioglimento del contratto a favore del mantenimento della relazione contrattuale.

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