In tali casi, ai congiunti della persona deceduta, in conseguenza di un fatto illecito altrui, spetta il risarcimento del danno non patrimoniale per le sofferenze e i patimenti da loro sofferti, in conseguenza della morte del congiunto.
Tuttavia, tale danno, che viene definito da dottrina e giurisprudenza come “danno da perdita del rapporto parentale”, comporta non poche problematiche di ordine giuridico, segnatamente in tema di danni risarcibili, onere della prova e soggetti legittimati ad agire in giudizio per conseguirne il ristoro. Esaminiamo, quindi, la natura e i presupposti di tale pregiudizio e gli oneri probatori che incombono sulla parte interessata, atteso che, anche nei casi in cui la lesione riguardi i familiari più stretti, la sussistenza del danno non è in re ipsa per il mero fatto del decesso del parente.
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Il pregiudizio da perdita del rapporto parentale
Da anni la giurisprudenza ha elaborato la figura del danno da perdita parentale, definendolo come “quel danno che va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti” (Cass. civ., sez III, ord., n. 9196/2018).
In altre parole, il danno da perdita del rapporto parentale viene a configurarsi come un danno di natura non patrimoniale che un soggetto subisce, in conseguenza dell’attività illecita posta in essere da un terzo ai danni di altra persona legata alla prima da un rapporto di natura familiare e/o affettiva.
Il pregiudizio che il soggetto subisce si sostanza nello stravolgimento di un sistema di vita che trovava le sue fondamenta nell’affetto e nella quotidianità di tale rapporto con la persona deceduta.
Così, Il danno da perdita del rapporto parentale, si concreta nel non potere più godere della presenza di chi è venuto meno e del rapporto che si aveva con lui.
Esso comprende la lesione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente tutelati, tra i quali “il diritto all’esplicazione della propria personalità mediante lo sviluppo dei propri legami affettivi e familiari, quale bene fondamentale della vita, protetto dal combinato disposto degli artt. 2, 29 e 30 della Costituzione” (Cass. Civ., sez. III, n. 907/2018).
In questi termini, il pregiudizio da perdita del rapporto parentale rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale; esso riassume in sé i caratteri del danno esistenziale, in quanto afferente alla sfera dinamico-relazionale del soggetto interessato, più quelli propri del danno morale, inteso come sofferenza intima del superstite.
Se pensiamo, infatti, a quali sono le conseguenze fenomenologiche del danno per la lesione di un diritto, come può essere ad esempio quello per la perdita di una persona cara, e proviamo ad immaginare le conseguenze di questa vicenda, saremo tutti d’accordo a ritenere che le reazioni possibili sono di due tipi.
Sicuramente ci sarà una reazione di sofferenza più “interiore”, che riguarda la parte più intima, il dialogo interno con sé stessi; poi ci sarà una reazione, “esterna”, che riguarda la modificazione delle abitudini di vita, cioè la vita che cambia.
Sono due aspetti della persona umana, distinti, e non necessariamente automatici come reazione, atteso che ognuno di noi reagisce al dolore in modo personale e soggettivo e non sempre alla sofferenza interiore consegue un’alterazione della vita quotidiana.
Ciò che conta, in virtù del principio di unitarietà e omnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, è che il danno in parola non sia liquidato contemporaneamente al danno esistenziale, poiché il primo già comprende lo stravolgimento dell’esistenza, quale sua componente intrinseca; differentemente, il riconoscimento di un importo per danno esistenziale ulteriore, rispetto a quello liquidato per il danno da alterazione del precedente assetto relazione della vita, si risolverebbe in un’inammissibile duplicazione risarcitoria.
I soggetti legittimati a chiedere il risarcimento
Quanto ai soggetti legittimati a richiedere il risarcimento, si sono alternate varie teorie, dal riferimento al criterio tradizionale della famiglia unitariamente intesa, al criterio che considerava come legittimati i titolari di crediti alimentari, onde fare riferimento poi al criterio basato sull’esistenza di un rapporto familiare riconosciuto espressamente dalla legge, come il rapporto coniugale, di filiazione, di adozione e di affiliazione.
Oggi, possiamo riconoscere che si è adottato un criterio più estensivo che sostiene la legittimazione di chiunque dimostri di aver subito una perturbazione della propria sfera affettiva, ricollegabile con nesso eziologico all’evento dannoso, sia in relazione a posizioni costituzionalmente protette (matrimonio, unità e integrità della famiglia) sia a posizioni soggettive meritevoli di tutela, in relazione a particolari rapporti di convivenza, di affetto e di solidarietà socialmente apprezzabili (si pensi ad esempio alla convivenza di fatto, ai vincoli di fidanzamento o di altri casi di particolare affezione).
Al riguardo, infatti, il recente approdo giurisprudenziale ha chiarito che il danno non patrimoniale da lesione o perdita del rapporto parentale non è rigorosamente circoscritto ai familiari conviventi, poiché il rapporto di convivenza, non assurge a connotato minimo di esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà, escludendoli automaticamente in caso di sua mancanza.
La famiglia è, infatti, riconosciuta dalla Costituzione come una “società naturale” che può essere estesa al di là del nucleo ristretto di persone conviventi, come i coniugi e i loro figli, in modo da comprendere anche gli altri parenti prossimi.
Inoltre, è stato efficacemente sostenuto dalla giurisprudenza di Cassazione che “ben possono ipotizzarsi convivenze non fondate su vincoli affettivi ma determinate da necessità economiche, egoismi o altro e non convivenze determinate da esigenze di studio o di lavoro o non necessitate da bisogni assistenziali e di cura ma che non implicano, di per, sé, carenza di intensi rapporti affettivi o difetto di relazioni di reciproca solidarietà” (ex plurimis, Cass. Civ. n. 23917/2013, Cass. Civ. n. 18069/2018; Cass. Civ. n. 7743 /2020).
Su tale prospettiva, non è più, dunque necessaria la coabitazione con la persona deceduta poiché quello che realmente conta è che vi siano stati rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà.
La convivenza, ben può assurgere a connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali, ma costituisce pur sempre elemento probatorio utile, unitamente ad altri elementi, a dimostrare l’ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti.
Parimenti, il legame parentale se da un lato può giustificare un meccanismo presuntivo utilizzabile al fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno, attraverso il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame stesso, nell’ambito delle tradizionali figure parentali, dall’altro, rimane aperto alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva.
Sulla scia di tali considerazioni si è riconosciuta la legittimazione ad agire per il risarcimento a favore dei nipoti per la morte dei nonni con essi non conviventi (Cass. civ., sez. III, n. 21230/2016), del concepito nato successivamente alla morte del genitore (Cass. civ., sez. III, n. 9700/2011) e al coniuge anche legalmente separato, in ragione della pregressa esistenza del rapporto affettivo (Cass. civ., sez. III, n. 25415/2016).
Ulteriori conferme sono giunte ancora di recente con Ordinanza n. 2818 del 24 marzo 2021, in cui la Corte di Cassazione si è pronunciata in senso favorevole in merito alla configurabilità del diritto al risarcimento del danno in favore dei parenti anche in assenza del requisito della convivenza.
Secondo la Corte, insomma, ciò che rileva ai fini risarcitori è la dimostrazione del rapporto caratterizzato da reciproci affetti; l’assenza della convivenza non comporta aprioristica esclusione del risarcimento; piuttosto, la convivenza costituisce elemento probatorio utile a dimostrare l’ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti oltre a determinare anche il quantum debeatur.
La quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale
Il danno da perdita parentale, va quindi, allegato e adeguatamente dimostrato dalla parte interessata; la prova, in particolare, può essere offerta per testimoni oppure in via documentale o per presunzioni.
La dimostrazione del danno in parola deve mirare a dimostrare tutti gli aspetti sopra esaminati e perciò deve consentire di desumere l’attualità del legame affettivo tra il parente e la vittima, la sua importanza e la sua non occasionalità, anche al di fuori del nucleo familiare in senso stretto.
Tale onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche e non esistendo nel nostro ordinamento un danno minimo garantito, da liquidarsi in ogni caso ai parenti della vittima.
Quanto alla liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, essa deve avvenire in base a valutazione equitativa, vertendosi in tema di lesione di valori inerenti alla persona, e deve tener conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti (Cass. civ., sez. III, ord. n. 907/2018).
In particolare, nel procedere all’accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito deve valutare tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (c.d. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).
La giurisprudenza oggi si divide sull’utilizzo delle tabelle milanesi o di quelle romane. Entrambe offrono un valido riferimento per una uniforme valutazione di base del danno, ma quest’ultimo va, in ogni caso, personalizzato, cioè calcolato prendendo in considerazione le peculiarità del caso concreto.
I requisiti che la tabella dovrebbe contenere secondo la Suprema Corte sono: adozione del criterio “a punto variabile”; estrazione del valore medio del punto dai precedenti; modularità; elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza) e dei relativi punteggi (Così di recente Cass. n. 10579/2021).
Applicazioni pratiche e principi giurisprudenziali
L’analisi della giurisprudenza in tema di pregiudizio da perdita del rapporto parentale, ci consente di confermare alcuni principi fondamentali in tema di risarcibilità del pregiudizio da perdita del rapporto parentale.
Questi principi possono essere così riassunti:
- il giudice è tenuto a verificare, in base alle evidenze probatorie acquisite, se sussista il profilo del danno non patrimoniale subito dal prossimo congiunto e, cioè, l’interiore sofferenza morale soggettiva e quella riflessa sul piano dinamico-relazionale;
- il giudice dovrà inoltre apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti con il congiunto, anche ricorrendo a elementi presuntivi quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi (anche se al di fuori di una configurazione formale), la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l’età delle parti e ogni altra circostanza del caso;
- il danno derivante dalla sofferenza per la morte del congiunto non è rigorosamente circoscritto ai familiari con lui conviventi al momento del decesso;
- il rapporto di convivenza, pur costituendo elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, non assurge a connotato minimo di esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto, escludendoli automaticamente, in caso di insussistenza dello stesso.
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