Tra le faglie problematiche del diritto amministrativo contemporaneo spicca, per la singolare ricchezza delle questioni dibattute, nonché per la peculiare connotazione multidisciplinare che essa assume, la tematica della tutela ambientale.
In ambito comunitario, tale materia assume un ruolo di primo piano, tanto è vero che il legislatore dell’Unione ha dedicato ad essa una disciplina organica, enucleata non solo nell’ambito di molteplici direttive, ma, altresì, nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.
La politica dell’Unione in materia ambientale è fondata sui principi della “precauzione”, dell’ “azione preventiva”, sul principio di “correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente”, nonché sul principio di “chi inquina paga”.
Tale politica ha come obiettivo un elevato livello di tutela, tenendo conto, altresì, delle diversità delle situazioni emergenti nei vari Paesi dell’Unione.
Nel predisporre la relativa politica in materia ambientale, l’Unione, alla stregua di quanto statuito dall’art. 191 TFUE, deve tener conto delle condizioni dell’ambiente nelle varie regioni europee, dei dati scientifici e tecnici disponibili, nonché dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall’azione o dall’assenza dell’azione.
Inoltre, a dimostrazione di quanto l’attenzione verso tale materia sia accentuata, giova rammentare come il legislatore dell’Unione, mediante la disposizione normativa dianzi evocata, abbia contemplato, altresì, come nell’ambito delle rispettive competenze, l’Unione e gli Stati membri debbano collaborare con i Paesi terzi e con le competenti Organizzazioni internazionali.
Preme rilevare come i principi testé menzionati siano stati, in diverse occasioni, oggetto di indagine da parte della Corte di Giustizia Europea, con l’obiettivo di estrapolare da essi una disciplina uniforme che potesse adattarsi alle esigenze e contingenze dei diversi Paesi membri.
Il principio “chi inquina paga” deve essere inteso, secondo la Corte di Giustizia, nel senso che i danni ambientali non debbano ricadere sulla collettività, ma devono essere risarciti dai soggetti che li hanno cagionati. A tal fine, rileva la Corte, è necessario che i soggetti in questione versino in una situazione di dolo o di colpa e che vi sia un collegamento eziologico tra la condotta da costoro posta in essere e l’evento dannoso realizzatosi.
Va però precisato come la stessa Corte di Giustizia Europea abbia rilevato che l’art. 16 della direttiva 2004/35 (rubricato “ relazioni con il diritto nazionale”) prevede che la stessa direttiva non preclude agli Stati membri di mantenere o di adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, compresa l’individuazione di altre attività da assoggettare agli obblighi di prevenzione e riparazione previsti dalla stessa direttiva e l’individuazione di altri soggetti responsabili.
In base all’interpretazione della normativa comunitaria fornita dalla Corte di Giustizia, è agevole inferire come l’individuazione da parte dei Paesi membri di altri soggetti responsabili (oltre coloro i quali hanno provocato il danno) sia da intendere come mera facoltà e non come obbligo: milita in tal senso, da un lato la stentorea chiarezza della direttiva dianzi menzionata, nonché, come dianzi specificato, una consolidata esegesi della medesima disposizione normativa da parte del giudice europeo.
Allora, ne discende che un’eventuale normativa, adottata dai Paesi membri, che individui come soggetti responsabili dei danni da inquinamento solo coloro i quali materialmente cagionano l’evento dannoso (e non anche i proprietari incolpevoli dell’area da bonificare) non contrasta con la normativa comunitaria, la quale, è bene ribadirlo, non obbliga di certo i Paesi membri ad adottare una disciplina più severa rispetto a quella adottata in ambito comunitario.
Tali ultime riflessioni non sono però state condivise dal Consiglio di Stato, il quale, nella sua massima espressione nomofilattica, ha recentemente ritenuto, ex art 267 TFUE, di dover investire della questione la Corte di Giustizia Europea, onde consentire a quest’ultima di far maggior chiarezza su come debba essere inteso il principio comunitario “chi inquina paga”.
Il giudice amministrativo ha rilevato come, in base alla normativa nazionale (art 240 e ss., d.lgs. 152/2006), l’autorità amministrativa non possa imporre al proprietario incolpevole dell’area da bonificare opere di prevenzione o di riparazione del danno (se non nei limiti e secondo i presupposti contemplati dall’art 253 del medesimo decreto).
Di talché, una volta dipanato in tal senso il contrasto giurisprudenziale sul punto, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto di dover chiedere lumi al giudice europeo in ordine alla corretta interpretazione da attribuirsi alla normativa comunitaria di riferimento: laddove il giudice europeo rilevi un insanabile contrasto tra la disciplina comunitaria e la normativa nazionale, l’Adunanza Plenaria, in qualità di giudice rimettente, lungi dal dover sollevare necessariamente la questione di legittimità costituzionale degli artt. 240 e ss. del d.lgs. 152/2006, può, nel relativo giudizio, applicare direttamente i principi di diritto enucleati dalla Corte di Giustizia. Non vi è dubbio, infatti, come il principio “chi inquina paga”, in quanto contemplato direttamente dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea”, rappresenti una regola generale direttamente applicabile all’interno dei Paesi membri, senza necessità, pertanto, che lo stesso debba essere recepito negli ordinamenti interni dei Paesi dell’Unione mediante l’intermediazione dei legislatori nazionali. Ne consegue che anche il giudice nazionale, in caso di rilevato contrasto tra la disciplina nazionale e il principio de quo, avrà il potere-dovere di decidere la causa sulla base delle coordinate ermeneutiche tracciate dalla Corte di Giustizia Europea.
Gli ulteriori principi enucleati in ambito comunitario (principio della “precauzione”, “dell’azione preventiva”, “della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente”) rispondono ad una logica di anticipazione della soglia di intervento ad un momento prodromico rispetto alla concretizzazione dell’evento dannoso: il legislatore comunitario, atteso l’elevato rilievo sociale del bene giuridico da presidiare, tende a favorire una politica comunitaria che non si limiti alla riparazione del danno, ma che sia finalizzata, altresì, alla individuazione della mera esposizione al pericolo di tale bene.
I Paesi membri, allora, sono obbligati ad adottare una normativa interna che sia ossequiosa di tali principi: anche il mero sospetto che da una determinata attività possa sorgere il rischio d’inquinamento ambientale deve poter consentire all’autorità amministrativa di predisporre tutte le misure di prevenzione atte a scongiurare l’evento dannoso.
Come dianzi rammentato, tali principi, in quanto direttamente contemplati dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, non potevano non essere recepiti da parte degli ordinamenti dei Paesi membri.
Il nostro legislatore, in omaggio alla particolare importanza che assume tale materia, ha dedicato alla tutela ambientale una disciplina organica, compatta ed analitica.
Tra le fonti normative di rilievo, oltre ovviamente agli artt. 9 e 32 della Carta fondamentale, spicca il d.lgs 152/2006, denominato testo unico ambientale.
Il punto nodale, attorno a cui ruota l’intero impianto di disciplina di tale decreto, è incentrato sul perseguimento dell’obiettivo primario della promozione dei livelli di qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia e il miglioramento delle condizioni dell’ambiente. Per tali finalità il testo unico provvede al riordino, al coordinamento e all’integrazione delle disposizioni normative disciplinanti tale materia, in conformità ai principi e ai criteri direttivi enucleati dall’ordinamento comunitario, nonché nel rispetto degli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese.
I principi vigenti in materia sono, ex professo, predicati dagli artt. 3 bis, 3 quater, 3 quinquies del decreto e sono stati enucleati in omaggio e attuazione degli artt. 2, 3, 9, 32, 41, 42, 44 e 117 della Costituzione.
Essi costituiscono regole generali in tema di tutela dell’ambiente, nonché per l’adozione degli atti normativi, di indirizzo, di coordinamento e nell’emanazione dei provvedimenti di natura contingibile ed urgente.
Tra questi si segnalano: il principio “dell’azione ambientale”, “dello sviluppo sostenibile”, “di sussidarietà e di leale collaborazione”, oltre, ovviamente, a tutti i principi di matrice comunitaria più volte evocati nel corso della presente esposizione.
Il principio “dell’azione ambientale” postula che la tutela dell’ambiente debba essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati, nonché dalle persone fisiche e giuridiche, mediante un’adeguata azione che sia informata al rispetto dei canoni comunitari in materia.
Ad esso si affianca il principio “dello sviluppo sostenibile”, il quale predica che ogni attività umana giuridicamente rilevante debba esercitarsi al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non comprometta la qualità della vita delle generazioni future (art 3 quater).
Come sopra evidenziato, rilevanti, nel nostro ordinamento, appaiono, altresì, il “principio di sussidarietà”, nonché il principio di “leale collaborazione”, in base ai quali lo Stato interviene in questioni concernenti interessi ambientali solo ove gli obiettivi dell’azione prevista, in considerazione dell’entità dei relativi effetti, non possano essere sufficientemente realizzati dai livelli territoriali inferiori di governo e non siano stati comunque realizzati. Residua comunque, così come postulato altresì dall’art. 117 della Carta fondamentale, un potere sostitutivo del governo nei confronti delle regioni e degli enti locali, nonché, nelle materie di propria competenza, un potere sostitutivo delle regioni nei confronti degli enti locali.
Orbene, dopo questa breve panoramica relativa ai principi che presiedono, in ambito nazionale e comunitario, alla tutela ambientale, è ora possibile, a questo punto, addentrarsi nella disamina di una questione molto controversa in ambito nazionale: si allude ai criteri imputativi della responsabilità del danno da inquinamento.
Su tale punto specifico, sul versante pretorio si registrano contrasti che, come spesso accade, sono il frutto di elaborazioni accademiche non sempre convergenti: all’attenzione dell’interprete si è posta soprattutto la questione della natura giuridica di tale responsabilità, nonché la valutazione in ordine alla possibilità di addossare la responsabilità per il prodursi dell’evento dannoso anche al proprietario incolpevole dell’area da bonificare.
In relazione a tale ultimo soggetto, ci si è chiesti, inoltre, se egli, ancorché non sia configurabile nei suoi confronti una qualsivoglia responsabilità, sia comunque tenuto all’obbligo di risarcire i danni, soprattutto allorquando l’intervento dell’Autorità amministrativa si appalesi necessario ai fini della riparazione del danno cagionato (si pensi, a mero titolo esemplificativo, all’incombente necessità, da parte della P.A., di intervenire direttamente ed immediatamente, mediante opere di bonifica, su un’area di proprietà di un soggetto diverso rispetto a quello che ha effettivamente cagionato l’inquinamento).
Sulla questione della natura giuridica della responsabilità del soggetto che ha provocato l’inquinamento, non sembrano potersi nutrire particolari dubbi esegetici: egli ne risponderà in giudizio, ex art 2043 e ss. cc. Alla stregua di quanto statuito dall’art 311 del d.lgs. 152/2006, infatti, il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e se necessario per equivalente. In una prospettiva di maggiore analiticità, il comma secondo del medesimo articolo enuclea, quindi, i criteri imputativi della responsabilità del danno da inquinamento: chiunque, realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, regolamento, di provvedimento amministrativo, ovvero con negligenza, imprudenza o imperizia, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo, o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato all’effettivo ripristino a sue spese dello status quo ante, ovvero, quando ciò non sia possibile, il danneggiante è obbligato in via sostitutiva al risarcimento per equivalente, alla cui quantificazione provvede il Ministero, in applicazione dei criteri enunciati dallo stesso decreto.
Nei confronti del soggetto inquinante, i criteri imputativi della responsabilità del danno da inquinamento sono, pertanto, i medesimi richiesti dall’art. 2043 cc, ovvero: il collegamento eziologico tra condotta commissiva o omissiva ed evento inquinante realizzatosi, il nesso causale tra tale azione o omissione e i danni concretizzatisi come conseguenza diretta ed immediata dell’evento dannoso, nonché l’elemento psicologico (sub specie di dolo o colpa), quale ulteriore elemento costitutivo di tale responsabilità. Ove siano presenti tutte tali “condiciones sine quibus non”, il soggetto che ha provocato il danno potrà essere, allora, evocato in giudizio, affinché sia condannato al risarcimento in forma specifica, ovvero, in subordine, al risarcimento per equivalente.
Ora, se in riferimento all’inquadramento dogmatico, alla ratio, nonché alla natura giuridica della responsabilità del danneggiante, non si registrano particolari problemi ermeneutici di sorta, maggiori problematiche esegetiche sono sorte, per converso, in relazione all’eventuale responsabilità (con conseguenti obblighi risarcitori) del proprietario incolpevole dell’area da bonificare e al necessario intervento dell’Autorità amministrativa competente.
Un primo orientamento propende per la non configurabilità di una qualsivoglia responsabilità in capo a tale soggetto. Si assume, a tal proposito, come ad una siffatta conclusione si debba giungere attraverso argomentazioni di ordine letterale e sistematico. Si sostiene che non è dato rinvenire, nell’ambito dell’impianto del testo unico dell’ambiente, alcuna disposizione da cui inferire la responsabilità del proprietario incolpevole dell’area da bonificare e, quindi, mediante un’interpretazione “a contrariis” e con l’ausilio del noto brocardo “ubi lex voluit dixit, ubi lex noluit tacuit,” si conclude che, laddove il legislatore avesse voluto annoverare anche il proprietario tra i soggetti responsabili, lo avrebbe fatto espressamente. A tale riflessione di carattere letterale, se ne aggiunge un’ulteriore di ordine sistematico: si sostiene che ove si potesse ipotizzare una siffatta responsabilità, quest’ultima andrebbe considerata non come un paradigma di responsabilità oggettiva (attribuibile, pertanto, anche in assenza dell’elemento soggettivo della responsabilità aquiliana), ma come una sorta di responsabilità da posizione, configurabile nonostante l’assenza, oltre che del dolo o della colpa, anche del collegamento eziologico tra condotta ed evento dannoso: il proprietario incolpevole dell’area da bonificare sarebbe, allora, responsabile nonostante la palese inesistenza sistematica di un addentellato normativo disciplinante un siffatto giudizio di rimproverabilità. Mancherebbero, nella specie, sia l’elemento oggettivo, sia l’elemento soggettivo della responsabilità aquiliana, ex art 2043, nonché, sul versante della normativa speciale, difetterebbe una disciplina che, “expressis verbis”, enuclei una qualsivoglia responsabilità del soggetto in questione.
Tali suggestioni sono state fatte proprie finanche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, come si è già avuto modo di ricordare, dopo essere pervenuta a queste conclusioni, ha ritenuto, mediante lo strumento rimediale di cui all’art 267 TFUE, di sollecitare l’intervento della Corte di Giustizia Europea, onde addivenire ad una corretta interpretazione della disciplina comunitaria in materia.
Orbene, è fin troppo chiaro che chiunque voglia aderire a tale impostazione non potrà non ritenere, altresì, che il proprietario incolpevole dell’area da bonificare non abbia alcun obbligo risarcitorio, ex art 2043 e ss. cc, né sotto forma di risarcimento danni in forma specifica, né sotto forma di risarcimento danni per equivalente. Ne discende, pertanto, che, alla stregua di tale orientamento, l’Autorità amministrativa, non potrà rivendicare nei suoi confronti, in un eventuale giudizio, né il ripristino dello “status quo ante” (i.e., il risarcimento in forma specifica), né, tanto meno, i danni patrimoniali e non patrimoniali scaturiti dall’evento dannoso.
La stessa Adunanza Plenaria (che, come sopra ricordato, aderisce a tale ricostruzione) ha però precisato che, ancorché nei confronti del proprietario incolpevole dell’area da bonificare non sia configurabile alcuna responsabilità, egli non potrà comunque andare esente dal rispetto degli obblighi di cui all’art 253 del Testo unico dell’ambiente.
Tale ultima disposizione prevede che gli interventi di riparazione del danno ambientale (comprese le attività di bonifica) costituiscano onere reale sui siti contaminati, qualora effettuati d’ufficio dall’Autorità competente. Le spese sostenute per tali interventi sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, che si può esercitare anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull’immobile. Il medesimo, articolo, inoltre, soggiunge che il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell’inquinamento o del pericolo d’inquinamento, solo a seguito di provvedimento dell’autorità competente che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto.
Quindi, appare chiaro che, in base all’orientamento maggioritario, alcun risarcimento danni può essere chiesto al proprietario incolpevole dell’area da bonificare, il quale, pertanto, potrà essere condannato solo alla ripetizione delle spese sostenute dall’Autorità amministrativa, ma nei limiti e secondo i presupposti enucleati dall’art 253 del Testo unico dell’ambiente.
Un secondo orientamento, anche in relazione a tale ultima disposizione normativa, si affranca da quanto statuito dall’Adunanza Plenaria, evidenziando come, a ben vedere, nulla osti alla configurabilità della responsabilità da illecito civile anche nei confronti del proprietario incolpevole dell’area da bonificare: in primo luogo, militerebbe, in tal senso, la stentorea chiarezza dell’art 253 del medesimo decreto. E’ vero che tale disciplina è riferita solo agli interventi posti in essere d’ufficio dall’Autorità amministrativa, ma nulla vieterebbe, ex art 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, di applicare analogicamente tale disciplina anche nell’eventualità in cui, non essendo rintracciabile il soggetto resosi autore del danno ambientale, l’Autorità amministrativa avesse comunque la necessità di imporre determinati interventi atti alla rimozione e alla riparazione del danno. Quindi, si assume, il proprietario incolpevole dell’area da bonificare è sempre tenuto alla riparazione del danno e, allora, è sempre obbligato ad adottare gli interventi necessari a prevenire ulteriori danni, sia ex post (nel caso sia già intervenuta d’ufficio l’Autorità amministrativa), sia ex ante (mediante suo intervento diretto, volontario, ovvero imposto dall’autorità competente).
Il proprietario potrà essere direttamente obbligato da quest’ultima solo laddove la stessa Autorità pubblica riuscisse a dimostrare di non essere riuscita, senza alcuna colpa ad essa attribuibile, a rintracciare il soggetto responsabile dell’inquinamento. Sempre in base all’art 253 del decreto, si evince, altresì, che, in tale ultima circostanza, la P.A. potrà quindi imporre al proprietario incolpevole dell’area da bonificare tutti gli interventi finalizzati alla rimozione e riparazione del danno, nonché alla prevenzione di ulteriore eventuali danni ambientali che da quel sito potrebbero scaturire.
Nelle ipotesi in cui, ex art 250 del Testo unico dell’ambiente, sia già intervenuta d’ufficio l’autorità amministrativa, il proprietario avrà comunque l’obbligo, ex art 253, di ripetere le spese sostenute dalla P.A., ma, anche in siffatta ipotesi, solo nell’eventualità in cui l’Autorità amministrativa abbia giustificato l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile dell’inquinamento.
A conforto di tale ricostruzione non pare deponga, altresì, un’applicazione analogica dell’art 311 del decreto: è vero che tale disposizione normativa, non assumendo le vesti di disciplina di carattere eccezionale, potrebbe in astratto essere applicata anche nei confronti del proprietario incolpevole dell’area da bonificare, ma, tale procedimento per analogia legis, nella specie, non pare ipotizzabile, in quanto difetta proprio uno dei presupposti indicati dalla norma: ci si riferisce, come è ovvio, “all’omissione dell’attività o del comportamento doveroso, con violazione di legge, di regolamento o di provvedimento amministrativo, con imprudenza, negligenza o in violazione di norme tecniche”.
Per converso, alla medesima conclusione, in ordine alla responsabilità del proprietario incolpevole dell’area da bonificare, si giunge, invece, mediante un ulteriore argomentazione: il riferimento va alla responsabilità del custode, ex art 2051; responsabilità che, come è noto, non solo non postula alcun dolo o colpa in capo al proprietario in relazione al danno provocato dalla res, ma non richiede, altresì, alcuna condotta commissiva ad opera dello stesso proprietario: egli andrà incontro ad una siffatta responsabilità per non aver esercitato sulla cosa medesima tutti quei controlli finalizzati alla prevenzione o alla moltiplicazione del danno, a meno che non riesca a fornire la prova liberatoria del caso fortuito.
Laddove si acceda a tale ultima ricostruzione, appare ipotizzabile una condanna del proprietario incolpevole dell’area da bonificare al risarcimento dei danni patrimoniali (sub specie di danni emergenti, ex art 1223 cc, intesi, quindi, come tutte quelle spese necessarie al ripristino della situazione, ovvero, in mancanza, all’adozione delle misure di riparazione complementari, oppure, nel caso in cui il risarcimento in forma specifica non sia effettuabile, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato, determinato secondo le modalità indicate nello stesso decreto 152/2006).
Astrattamente, inoltre, sempre laddove si ritenga di voler accedere a tale ultimo orientamento, non pare si possa escludere la possibilità di un eventuale condanna al risarcimento danni non patrimoniali (sub specie di danni morali, ex art 2059 cc). La giurisprudenza, invero, stimolata dall’elaborazione accademica sul punto specifico, in diverse occasioni, non ha mancato di evidenziare come il danno morale non afferisca solo ed esclusivamente alle persone fisiche e che nulla osti affinché un risarcimento di tal fatta sia attribuibile anche alle persone giuridiche: tra queste ultime, ovviamente, non può non essere annoverato anche lo Stato.
Del resto, anche in questa sede, non pare potersi sottacere come il danno ambientale, lungi dall’acquisire una valenza meramente riparatoria o ripristinatoria, pare assumere una connotazione ben più ampia: un danno all’ambiente rappresenta un danno inferto a tutta la collettività nel suo insieme; collettività che, pertanto, subisce anche un pregiudizio di ordine morale: non appare, pertanto, peregrino ipotizzare che lo Stato, in un eventuale giudizio, possa, ex art 2059 cc, rivendicare anche il risarcimento danni non patrimoniali, sub specie di danni morali.
Milano, 17 marzo 2017
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