I rapporti di « conoscenza » tra commissario e candidato nei concorsi universitari e il criterio sintomatico di incompatibilità. L’applicabilità dell’art. 51 n. 4 c.p.c. con riguardo ai lavori « in collaborazione »

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Sommario. 1. Premessa. – 2. La normativa applicabile in materia di incompatibilità. I principi espressi dal Consiglio di Stato con riguardo ai rapporti tra candidato e commissario (il criterio sintomatico). – 3. Applicazioni concrete del c.d. criterio sintomatico. – 3.1. Si prescinde dal carattere “formale” dei legami. – 3.2. I rapporti maestro allievo sono irrilevanti solo nei concorsi per titoli, altrimenti opera il principio di «segretezza delle prove». – 3.3. Quando il rapporto non genera un «sufficiente» sospetto: i rapporti di collaborazione saltuaria od occasionale, la collaborazione ad attività meramente intellettuali – 3.4. In conclusione: la stabilità del legame come presupposto (necessario e sufficiente) del criterio sintomatico; l’irrilevanza della natura (patrimoniale o non patrimoniale) del rapporto. – 3.5. L’irrilevanza della «buona fede» del commissario e della «prova della resistenza». – 4. Risvolti di natura penale: i recenti chiarimenti della Suprema Corte in ordine all’obbligo generale di astensione ex art. 323 c.p. – 5. Conclusioni. L’applicabilità dell’art. 51 n. 4 c.p.c. per i lavori in collaborazione. –
 
1. Premessa.  
Le prese di posizione di alcuni autorevoli esponenti del mondo accademico[1], unitamente ai diversi interventi dello stesso Ministro, hanno posto in risalto l’attuale difficoltà del sistema universitario a garantire, nei concorsi per l’accesso ai ruoli, l’imparzialità delle commissioni giudicatrici.
               A quanto è dato capire, tale questione sarebbe in parte favorita da una disciplina che, devolvendo agli stessi atenei la diretta gestione delle singole procedure selettive, consentirebbe la formazione di vere e proprie «cordate elettorali» nel procedimento di nomina delle commissioni e, dunque, un «controllo» (più o meno sostanziale, a seconda dei casi) sui concorsi, con buona pace dei valori, eppure costituzionalmente protetti, dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione[2]. Da qui, peraltro, lo scarso numero di concorrenti che caratterizza tali procedure ed anche, forse, la conseguente «fuga di cervelli» a cui ormai alludono financo importanti esponenti delle istituzioni.
               Naturalmente, la soluzione di tali e consimili problemi non può che essere ricercata in sede legislativa, attraverso l’introduzione di adeguate riforme[3], anche se, sul fronte prettamente giurisprudenziale, non va sottaciuto come un importante ruolo sia stato all’uopo assunto dal Consiglio di Stato.
Quest’ultimo, in particolare, attraverso l’interpretazione teleologica della disciplina applicabile (tra cui spicca quella prevista dall’art. 51 del codice di rito civile) e l’elaborazione del c.d. criterio sintomatico di incompatibilità, ha avuto modo di censurare i casi più gravi ed evidenti, tra i quali vi rientrano quelli contrassegnati da peculiari rapporti di «conoscenza» tra candidato e commissario.
               E’ a tali rapporti che si intende dedicare le righe seguenti.
In tale sede, dopo una rapida verifica della disciplina e dei principi vigenti in materia, si cercherà di vedere rispetto a quali « legami » la giurisprudenza ha ritenuto configurabile l’obbligo di astensione del commissario (a pena di illegittimità della procedura concorsuale), per capire, in specie, che cosa è, ed entro quali limiti è destinato ad operare, il criterio sintomatico di incompatibilità da essa teorizzato.
 
2. La normativa applicabile in materia di incompatibilità. I principi espressi dal Consiglio di Stato con riguardo ai rapporti tra candidato e commissario (il criterio sintomatico). 
Sebbene la vigente legislazione ordinaria non contempli una specifica disciplina sulle cause di incompatibilità nei pubblici concorsi, per pacifica giurisprudenza, sono applicabili (per lo più analogicamente) tutte le norme previste a tutela dei fondamentali precetti di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.; art. 51 c.p.c.; art. 36 c.p.p.; art.19 R.D. 12 del 1941, etc.), precetti in relazione alla cui essenziale importanza la stessa Consulta è intervenuta più volte, evidenziandone la stretta connessione funzionale con i valori di eguaglianza (art. 3 Cost.), di pari condizioni di tutti i cittadini nell’accesso ai pubblici uffici (art. 51 Cost.), di efficienza ed indipendenza dell’azione amministrativa (art. 97 e 98 Cost.)[4].
               Segnatamente, per quanto concerne i « rapporti » tra i componenti delle commissioni di concorso e i candidati, principio ormai consolidato è che deve farsi applicazione dell’art. 51 del Codice di procedura civile, sicché la ricorrenza di una causa di incompatibilità, ivi prevista, comporta l’obbligo di astensione del componente (o dei componenti) della commissione e, in caso di violazione di detto obbligo, l’illegittimità degli atti concorsuali[5].
         Come prima si accennava, in ordine all’effettivo ambito di operatività di detta disciplina (ad onta di soluzioni ermeneutiche formalistiche e restrittive, che bene potrebbero essere favorite dal carattere «tassativo» dell’elenco di cui all’art. 51 c.p.c.), un particolare ruolo è stato svolto dal massimo organo della giustizia amministrativa attraverso la formulazione del criterio sintomatico di incompatibilità.
         In base ad esso sussiste l’incompatibilità quando « i rapporti personali » fra esaminatore ed esaminando siano tali da far sorgere il « sospetto » che il candidato sia stato giudicato non in base al risultato delle prove, bensì in virtù delle conoscenze personali ovvero quando sia accertata la sussistenza di rapporti personali diversi e più saldi di quelli che di regola intercorrono tra maestro e allievo[6].
         Si comprende appieno l’importanza di detto criterio.       
         In base ad esso, infatti, anche quando il legame che corre tra commissario e candidato non sia tale da essere icto oculi riconducibile entro i casi tassativi di astensione obbligatoria ex art. 51 c.p.c., sussisterà, comunque, l’incompatibilità se tale rapporto sarà idoneo a generare (anche solo) il sospetto di parzialità, cioè (per volere mutuare un linguaggio più consono al diritto penale) se esso esporrà a pericolo (lesione potenziale e non effettiva) il bene giuridico protetto dall’ordinamento (appunto, l’imparzialità e il buon andamento della P.A.)[7].
                Il massimo organo della giustizia amministrativa ha in tal senso specificato che in presenza dei legami testé accennati, idonei a radicare il sospetto di parzialità, non è necessario comprovare che questi si possano concretizzare in un effettivo favore verso il candidato, essendo sufficiente a radicare l’incompatibilità anche « il solo pericolo » di una compromissione dell’imparzialità di giudizio[8].
               In tal caso, l’effetto invalidante della procedura si verifica sulla base del mero giudizio in astratto ed ex ante circa gli effetti potenzialmente distorsivi del sospetto del difetto di imparzialità, ricollegato alla situazione specificata dal Legislatore e dai principi generali cristallizzati dall’art. 97 della Carta fondamentale, senza che assuma rilievo alcuno il profilo fattuale ex post dell’esito inquinante in concreto sortito[9]. Anzi, è stato ulteriormente precisato che viene a porsi in posizione di incompatibilità il soggetto, chiamato a provvedere sia come autorità monocratica sia quale membro di un organo collegiale, che risulti portatore di un proprio interesse, e ciò anche quando la determinazione adottata non avrebbe potuto conseguire altro apprezzabile esito o perfino quando la scelta sia, in concreto, la più utile ed opportuna per l’interesse pubblico[10].
 
3. Applicazioni concrete del c.d. criterio sintomatico.
Non facile risulta comprendere la reale incidenza del criterio sintomatico di incompatibilità teorizzato dalla giurisprudenza, probabilmente a causa dell’evidente (ed inevitabile) genericità della formula con cui esso viene sovente richiamato (la si ripropone per comodità di lettura): « sussiste l’incompatibilità (oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge) quando i rapporti personali fra esaminatore ed esaminando siano tali da far sorgere il sospetto che il candidato sia stato giudicato non in base al risultato delle prove, bensì in virtù delle conoscenze personali (prima ipotesi) ovvero quando sia accertata la sussistenza di rapporti personali diversi e più saldi di quelli che di regola intercorrono tra maestro e allievo (seconda ipotesi) »[11].
               Tale formula, infatti, nonostante preveda due distinte ipotesi, alternative tra loro, non indica dei parametri certi, capaci di chiarire –  in concreto – quali rapporti, tra commissario e candidato, siano «tali» da generare il «sospetto» radicante l’incompatibilità[12].
               Quando i rapporti possono dirsi «più saldi» di quelli che di regola intercorrono tra maestro e allievo?                Quando «i rapporti personali» fra esaminatore ed esaminando sono «tali» da far sorgere il sospetto che il candidato sia stato giudicato non in base al risultato delle prove, bensì in virtù delle conoscenze personali? Ai fini dell’incompatibilità, ad esempio, si richiede l’esistenza di «rapporti formali» di colleganza? Occorre, inoltre, che tali rapporti rivestano sempre natura «patrimoniale»?             
               A tali quesiti si cercherà di rispondere scandagliando i principali casi esaminati dalla giurisprudenza.
 
 3.1. Si prescinde dal carattere « formale » dei legami.
Un primo dato che si evince dall’analisi della casistica giurisprudenziale è quello secondo il quale, ai fini dell’applicazione del criterio sintomatico, non è indispensabile l’esistenza di rapporti di «formale colleganza».
Ciò in quanto la natura del giudizio che il Giudice amministrativo è chiamato a compiere, al fine di verificare la sussistenza dell’incompatibilità dell’organo, è quella propria di una prognosi di pericolo concreto e non può, perciò, reputarsi (sempre) sufficiente il vaglio dei soli legami formali che involgono i soggetti interessati alla vicenda concorsuale.
               Sulla base dei principi generali espressi, invero, la giurisprudenza ha ritenuto operante l’obbligo di astensione non solo nei casi in cui candidato e commissario fossero legati da rapporti professionali stabili e formalmente instaurati (v., ad es., la congiunta partecipazione ad associazione professionale medica)[13], ma anche quando il sospetto del difetto di imparzialità fosse generato da un complesso di elementi diversi, ciascuno dei quali, di per sé, non autonomamente considerabile come (sufficiente) causa di incompatibilità (in quanto non integrante legame «formale» di collaborazione)[14].
               Tale impostazione, volta, da un canto, a svincolare l’indagine del giudice da parametri formali e, dall’altro, a valorizzare le circostanze concretamente evidenziabili, è stata seguita dal Consiglio di Stato in una nota ed esemplare decisione (Cons. Stato, sez. IV, 22 febbraio 1994, n. 162), relativa ad una procedura concorsuale per «Dirigente ricercatore» presso il Consiglio Nazionale Ricerche, dove, nonostante tra candidata e commissario non fosse scorgibile un «formale» rapporto di collaborazione professionale (alla stregua di quello sopra menzionato), né altri rapporti diretti e patrimonialmente rilevanti, era stata comunque accertata l’esistenza di un vero e proprio «sodalizio professionale», desumendola, appunto, dall’interdipendenza di un variegato complesso di elementi (ciascuno dei quali, di per sé, non costituente causa di incompatibilità): pubblicazioni compiute in collaborazione e sotto l’influenza scientifica del commissario, presenza della candidata a due commissioni di studio presiedute dal commissario presso il C.N.R. e un ministero, attività didattica compiuta dalla candidata presso il Corso tenuto da Docenti già allievi del Commissario ed operanti presso il dipartimento da lui diretto, etc..
               Tutti elementi – a detta del Giudice – «che non è possibile, come preteso dagli appellanti principali, isolare ed esaminare separatamente, ma che, se considerati unitariamente, investendo le sfere di modificazione del servizio, della riconversione dell’attività di ricerca, dell’attività didattica, dell’attività scientifica organizzata anche in gruppo, delle commissioni di studio presso la pubblica amministrazione, delle interazioni e sinergie nell’approccio monografico, sono indicativi per l’appunto non del mero rapporto che di regola intercorre tra maestro e allievo, ma di un autentico sodalizio professionale che, se trasposto in una sede concorsuale in forma di rapporto esaminatore esaminanda, là dove più si impone l’esigenza di un vaglio neutrale, è tale da esporre a rischio, in sé ed agli occhi dei consociati, l’interesse pubblico all’imparzialità delle valutazioni»[15].
              
3.2. I rapporti maestro allievo sono irrilevanti solo nei concorsi per titoli, altrimenti opera il principio di «segretezza delle prove».   
Un secondo dato riguarda i rapporti tra « maestro e allievo » (tradizionalmente non ritenuti causa di incompatibilità), rispetto ai quali occorre fare una necessaria precisazione.
               Con riferimento ad essi, infatti, la giurisprudenza non ha escluso l’obbligo di astensione in maniera generalizzata – come talora si sostiene richiamando, invero solo parzialmente, la formula che esprime il criterio sintomatico in esame – ma con prevalente riguardo alle procedure concorsuali «per soli titoli», laddove non opera il fondamentale principio di «segretezza delle prove».
               É questa, infatti, la fattispecie esaminata dal Consiglio di Stato nella nota sentenza – pilota pronunciata nel 1978 (a cui la giurisprudenza successiva ha fatto sino ad oggi costante ed espresso richiamo) secondo cui «…la circostanza che in un concorso per titoli (nella specie, per l’insegnamento della scultura in un’Accademia di belle arti) uno dei candidati sia stato allievo del presidente della commissione giudicatrice non è decisiva per affermare l’incompatibilità – e quindi il dovere di astensione del detto presidente –, in quanto questa si verifica solo quando sia accertata la sussistenza di rapporti personali diversi e più saldi di quelli che di regola intercorrono tra maestro e allievo; l’incompatibilità, invece, può verificarsi in un concorso per esami, in cui la segretezza delle prove esige che tra esaminatore e concorrente non intercorrano rapporti personali tali da poter far sorgere il sospetto che il candidato sia giudicato non in base al risultato delle prove, bensì in virtù della conoscenza personale»[16]
               Come sembra possibile desumere dalla lettura del provvedimento (e dall’utilizzo dell’avverbio che separa le due proposizioni, «invece»), l’irrilevanza dei rapporti tra maestro e allievo è confinata ai soli «concorsi per titoli».
               Con riguardo alle prove per esami, «invece», il Consiglio di Stato sembra ritenere indispensabile una verifica concreta, tesa a valutare se i rapporti di conoscenza tra candidato e commissario – ivi compresi, perciò, anche quelli tra maestro e allievo – non siano comunque idonei a far sorgere il sospetto del difetto di imparzialità del commissario[17].
               Inoltre, la decisione sembra fare riferimento ai meri rapporti tra maestro e allievo (quali sono, ad es., quelli tra lo studente universitario e il docente relatore alla tesi di laurea; tra il dottorando e il tutor, limitatamente ai rapporti funzionali alle attività di ricerca del dottorato e sempre che non emergano ulteriori attività di collaborazione estranee al relativo piano di studio) e non anche a quelli (talora eppure così impropriamente denominati) tra il docente e il proprio «assistente» di cattedra: rapporto, quest’ultimo, che è senz’altro più corretto inquadrare nell’ambito delle relazioni di collaborazione professionale (sia pure gerarchicamente ordinate), a seconda dei casi, formali o «di fatto». 
        
3.3. Quando il rapporto non genera un «sufficiente» sospetto: i rapporti di collaborazione saltuaria od occasionale, la collaborazione ad attività meramente intellettuali.
Un ulteriore dato che emerge dall’analisi giurisprudenziale è quello dell’irrilevanza, ai fini dell’incompatibilità, dei rapporti di collaborazione «saltuaria» od «occasionale», sempre se considerati nella loro individualità.
               Così, sono stati esclusi dal novero dei casi di incompatibilità di cui si tratta i rapporti relativi a pregressa, e comunque episodica, non qualificata e assolutamente marginale, collaborazione presso sedi universitarie[18]: è questo il caso esaminato da Cons. Stato, VI, 5 maggio 1998 n.631, secondo cui la mera circostanza che il candidato sia stato designato dal commissario a componente di un comitato organizzatore di un congresso scientifico o che il commissario avesse all’uopo redatto una lettera «credenziale» di presentazione, non prova l’esistenza di rapporti idonei a generare un legame professionale o di vita stabile o comunque tali da attestare un sufficiente sospetto di parzialità.
               Parimenti, si è escluso che costituisca fonte di incompatibilità la realizzazione in collaborazione di lavori scritti pubblicati[19]: è il caso esaminato da Cons. Stato, VI, 24 ottobre 2002, n. 5879, secondo cui, stante l’estrema diffusione dei lavori pubblicati svolti in collaborazione fra più autori (con la presenza sistematica di un componente «eminente»), il fatto che il commissario e uno dei candidati abbiano pubblicato insieme una o più opere è irrilevante, non ritenendosi idonea a radicare l’obbligo di astensione la sussistenza di rapporti di collaborazione meramente intellettuale (cui siano estranei interessi patrimoniali)[20].
               Ancora sono state ritenute irrilevanti ulteriori forme di collaborazione professionale di carattere occasionale o saltuario[21]: si consideri, al riguardo, la fattispecie esaminata da Cons. Stato, VI, 8 maggio 2001, n. 2589, che ha escluso che la collaborazione non continuativa, ma occasionale, in équipe possa generare rapporti tali da radicare lo stato di incompatibilità del commissario.
               Si è escluso, infine, che possa determinare l’obbligo di astensione il mero rapporto tra maestro e allievo, nei limiti innanzi specificati (concorsi per soli titoli)[22].
 
3.4. In conclusione: la « stabilità » del legame come presupposto (necessario e sufficiente) del criterio sintomatico; l’irrilevanza della natura (patrimoniale o non patrimoniale) del rapporto.
 Alla luce dei casi in concreto esaminati dalla giurisprudenza, appare ora più facile stabilire quando una relazione, intercorrente tra candidato e commissario, possa generare il «sospetto» che lo stesso concorrente sia stato favorito nell’espletamento delle prove concorsuali e, pertanto (in applicazione del criterio sintomatico utilizzato dal Consiglio di Stato), quando essa sia idonea a radicare l’incompatibilità dell’organo giudicante.
         Se deve escludersi che rilevino rapporti professionali occasionali, non caratterizzati dal requisito della stabilità (ad es., e come già visto, episodiche esperienze di lavoro in équipe o di collaborazioni non qualificate e pregresse presso strutture universitarie; realizzazione di lavori scritti o di pubblicazioni in collaborazione, etc.), sembrano, invece, integrare l’obbligo di astensione innanzitutto i legami (rectius: i sodalizi) professionali o di vita stabili, sia che essi risulti0no da atti formalmente perfezionati (è il caso della fattispecie dell’associazione professionale sopra richiamata) sia che essi siano desumibili da elementi o rapporti (che, sia pure non suscettivi di radicare incompatibilità se considerati «atomisticamente», siano reputati) idonei a configurare la fattispecie del iudex suspectus se valutati nella loro unitarietà ed interdipendenza (è il caso della fattispecie, sopra ricordata, del concorso per Dirigente per ricercatore, esaminata da Cons. Stato, IV, 22 febbraio 1994, n.162).
               La stabilità (e/o la sistematicità) del legame, dunque, si pone come requisito necessario (e, come vedremo, anche sufficiente) affinché possa operare il criterio sintomatico di incompatibilità[23].
               Alle stesse conclusioni non si perviene, invece, per quanto riguarda la «natura patrimoniale» del rapporto.
               Invero, appare possibile sostenere che la «patrimonialità» dell’attività esercitata in comune tra candidato e commissario non costituisca un requisito alla cui presenza ancorare indefettibilmente l’operatività dell’obbligo di astensione.
               Questo non solo perché la stessa giurisprudenza, sovente, nel tentativo di specificare i casi entro cui opera il criterio sintomatico in esame, allude al carattere patrimoniale del rapporto in modo meramente esemplificativo[24], ma anche perché, si ritiene, il giudizio di incompatibilità deve essere incentrato (non sulla natura del vincolo, patrimoniale o non patrimoniale, quanto) sulla concreta idoneità perturbatrice che lo stesso legame esplica rispetto alla terzietà e neutralità dell’organo giudicante. D’altronde, è causa di incompatibilità ogni rapporto tale da «… esporre a rischio, agli occhi dei consociati, l’interesse pubblico all’imparzialità delle valutazioni…» (Cons. Stato, IV, 22 febbraio 1994, n.162), come, ad esempio, i legami di carattere affettivo: si pensi alla convivenza more uxorio che rileva ex art. 51 n.2 c.p.c. o allo stesso rapporto di «commensalità abituale» ivi citato. 
         Tale soluzione, inoltre, sembra rivelarsi del tutto conforme con gli orientamenti della Suprema Corte, la quale intende per « interesse personale » (in presenza del quale il Pubblico agente ha l’obbligo di astenersi, anche ai sensi dell’art. 323 c.p.) ogni interesse, anche non economico e del tutto affettivo, così come l’interesse di favorire taluno per ottenere una situazione di vantaggio nella sfera delle proprie relazioni sociali ed amicali[25], o comunque ogni altro vantaggio anche solamente di ordine morale[26].
         Ai fini del criterio sintomatico, rileveranno, dunque, sia i «sodalizi professionali» (formali o di fatto) sia ogni altro rapporto non patrimoniale «di vita» stabile tra commissario e candidato.
              
3.5. L’irrilevanza della «buona fede» del commissario e della «prova della resistenza».
Stanti i rapporti che generano l’incompatibilità del commissario, l’obbligo di astensione opererà oggettivamente. La giurisprudenza, infatti, ha chiarito come in tal caso a nulla rilevi la «buona fede» del soggetto incompatibile[27] e sia, comunque, parimenti irrilevante ogni qualsivoglia «prova della resistenza».
Si è invero aderito alla tesi secondo cui la mera presenza del soggetto incompatibile deve essere presuntivamente considerata quale fonte di perturbazione del processo logico valutativo che è alla base del giudizio a cui è chiamato l’organo (monocratico o, nel caso della prova della resistenza, collegiale)[28].
               Tali affermazioni, del resto, sembrano in linea con i principi sopra richiamati, secondo cui è sufficiente a radicare l’incompatibilità anche il solo «pericolo» di una compromissione dell’imparzialità di giudizio.
 
4. Risvolti di natura penale: i recenti chiarimenti della Suprema Corte in ordine all’obbligo generale di astensione ex art. 323 c.p. .
La presenza di un interesse personale nella procedura concorsuale, oltre a rilevare sotto il profilo della validità della stessa, può invero assumere importanza anche nell’ambito del diritto penale, ai sensi dell’art. 323 del Codice.
            Recentemente, al riguardo, la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta al fine di chiarire i rapporti tra l’obbligo di astensione sancito dall’art. 323 c.p. e le altre norme extrapenali vigenti in materia[29].
In tale occasione, i giudici di legittimità hanno precisato che l’art. 323 cod. pen., nel sancire l’obbligo di astensione «…in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto…», ha creato un dovere generale di astensione riguardante ogni pubblico agente che si trovi in conflitto d’interessi (fermo restando che l’elemento oggettivo del reato è integrato anche dalla mancata astensione non determinata da un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ma da un diverso interesse che sia – altrove – normativamente indicato).
            La Corte ha cioè chiarito che l’espressione «…omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti…» deve essere letta nel senso che l’art. 323 c.p. ricollega l’obbligo di astensione a due ipotesi distinte e alternative:
1)           quella dell’obbligo di carattere generale, derivante dall’esistenza, appunto, di un interesse proprio o di un prossimo congiunto;
2)           quella della verificazione dei singoli casi in cui l’obbligo sia prescritto da altre disposizioni di legge che vengono richiamate secondo il noto meccanismo dell’«incorporazione».
Tale richiamo – esteso, secondo lo schema della norma penale in bianco, anche alle norme speciali di futura emanazione – delinea, perciò, un sistema in cui l’ipotesi di carattere generale e quelle particolari risultano armonizzate grazie a un effetto parzialmente «abrogante» che esclude ogni possibile contrasto. Ciò nel senso che – secondo la Cassazione – in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, la «facoltà» di astensione eventualmente prevista da una norma speciale viene «abrogata» e sostituita dall’«obbligo» di astensione derivante, appunto, dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto (ipotesi che si verifica, ad es., con riferimento all’articolo 52 del C.p.p., che prevede la «facoltà» di astensione del pubblico ministero quando esistono gravi ragioni di convenienza, giacché, in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, detta facoltà di astensione, ai fini che interessano, è abrogata e sostituita dall’obbligo di astensione; analogamente, v. art. 51, secondo comma, c.p.c.).
Al fine di verificare la sussistenza dell’obbligo di astensione ai sensi dell’art. 323 c.p., non è dunque necessario che un siffatto obbligo sia previsto dalle specifiche norme di settore che disciplinano l’attività svolta dal pubblico agente, potendo ravvisarsene la fonte, direttamente, nel precetto generale contemplato dall’art. 323 c.p., ogni qualvolta questi sia portatore di un interesse personale[30].
Tale interpretazione rileva sommamente nei pubblici concorsi laddove, a rigore (ferma restando la possibilità che il reato venga integrato attraverso altre violazioni di legge o di regolamento che non siano quelle previste in materia di incompatibilità), mancando una disciplina specifica, l’obbligo di astensione ex art. 51 c.p.c. non potrebbe rilevare sotto il profilo penale, stante il divieto di analogia in malam partem (ex art. 25, secondo comma Cost., 14 Disp. prel.) vigente, appunto, nella materia delle incriminazioni.
 
5. Conclusioni. L’applicabilità dell’art. 51 n.4 c.p.c. per i lavori in collaborazione.
Come è evidente, la panacea per i mali che attanagliano la macchina (talora assai barocca) dei pubblici concorsi non può essere ricercata (solo) tra le soluzioni giurisprudenziali. Ciò non toglie che i giudici, come spesso è accaduto in diversi settori del nostro ordinamento, abbiano svolto (e possano ancora svolgere) un ruolo di avanguardia.
Certamente non si può sottacere come taluni indirizzi consentano di avallare soluzioni ermeneutiche eccessivamente formalistiche e poco idonee a tutelare il valore della terzietà delle commissioni giudicatrici.
Traccia di simili posizioni può rinvenirsi, ad esempio, in quelle decisioni che si sono espresse in maniera netta sulla irrilevanza, ai fini dell’obbligo di astensione, dei rapporti di collaborazione intellettuale[31].
            Al riguardo, conformemente alla natura del giudizio di verifica dell’incompatibilità del commissario sopra accennata (pericolo concreto), sarebbe auspicabile che la giurisprudenza differenziasse opportunamente le diverse forme di collaborazione in esame.
In specie, occorrerebbe distinguere l’ipotesi del lavoro scritto realizzato dal candidato «individualmente», ancorché pubblicato accanto ad altri contributi (tra cui vi capiti anche quello del commissario) in un medesima «raccolta» o «collana», dall’ipotesi del lavoro realizzato dal candidato «insieme» al commissario o nell’ambito di un progetto di ricerca da questi condotto, il quale sia poi oggetto di valutazione nella stessa procedura concorsuale[32].
In tale ultima ipotesi, infatti, affermare che il commissario possa – ciò nonostante – risultare imparziale appare quantomeno discutibile.
Il solo fatto che questi (per esserne coautore o principale ispiratore) conosca approfonditamente lo scritto, e dunque sia in condizione di poterlo valutare con più attenzione e consapevolezza, non può non alterare il processo di valutazione, a vantaggio del candidato coautore del lavoro e a scapito degli altri, o quanto meno violare il principio della par condicio: la condizione di partenza dei diversi concorrenti, in ordine ai tempi di valutazione da dedicare alle rispettive pubblicazioni, sarà, infatti, nettamente sperequata, per cui potrebbe verosimilmente verificarsi il caso che lo scritto realizzato in collaborazione, per ciò stesso (e nonostante le migliori intenzioni del commissario), venga meglio compreso e così valutato.
Se a ciò si aggiunge che il lavoro in collaborazione è di norma non solo il risultato di un’attività collegiale, ma anche – se non soprattutto – delle linee di ricerca dettate dallo studioso più autorevole (che di solito è proprio il docente che diviene membro della commissione), ci si rende conto di come il commissario non possa trovarsi in quella posizione di terzietà ed indifferenza che è assolutamente richiesta affinché la valutazione possa per davvero risultare obiettiva ed imparziale e non si traduca in un giudizio pro forma, in cui l’organo giudicante è chiamato a valutare – nella sostanza e almeno in parte – se medesimo.
Ad onta di tale soluzione, del resto, non pare opporsi nemmeno l’esiguo novero di ipotesi in cui ricorre l’obbligo di astensione ai sensi dell’art. 51 c.p.c. .
Anche quando (e nella misura in cui) non si ritenga che la collaborazione intellettuale possa assumere rilievo come rapporto stabile, idoneo ad attivare il « criterio sintomatico di incompatibilità » (che, per quanto chiarito in nota 11, potrebbe essere riconducibile, sistematicamente, entro il n.1 dell’art. 51 c.p.c.), rimarrebbe comunque da verificare l’applicazione dell’art. 51, n. 4, nella parte in cui prescrive l’obbligo di astensione nel caso in cui il giudice abbia dato consiglio o prestato patrocinio nella causa.
Tale disposizione, infatti, sembra confermare (analogamente a quanto previsto dagli artt. 34 e ss. c.p.p.) che la terzietà del giudice discende, non solo dalla sua estraneità alle parti (v. art. 51, n. 2, 3, 5, c.p.c.), dalla sua indifferenza rispetto agli interessi coinvolti (v. art. 51, n.1, c.p.c.), ma anche dalla sua oggettiva neutralità con riguardo all’oggetto del giudizio: se ha già giudicato o dato assistenza o prestato financo consiglio, etc., la legge presume che il giudice non sia più in grado di decidere obiettivamente.
Analoghi principi dovrebbero essere applicati al caso del commissario che sia coautore delle opere prodotte dal candidato, ai fini della valutazione comparativa, laddove il giudizio sulle pubblicazioni di ciascuno dei partecipanti (e cioè sulla cosiddetta «produzione scientifica» degli stessi) costituisce passaggio decisivo nelle prospettive di vittoria del pubblico concorso.
 


[1]              Si fa cenno alle note denunce dei Proff. Giugni e Barcellona, pubblicate la scorsa estate nelle pagine del Corriere della Sera e del quotidiano locale La Sicilia.
[2]              La disciplina a cui si fa riferimento nel testo è il D.P.R. n. 117 del 2000, recante il Regolamento nazionale per l’espletamento delle procedure per il reclutamento dei professori universitari di ruolo e dei ricercatori (G.U.R.I. n. 109 del 12 maggio 2000). Sul nuovo sistema recentemente introdotto, v. però la Legge 4 novembre 2005 n. 230, recante Nuove disposizioni concernenti i professori ed i ricercatori universitari e delega al Governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari (G.U.R.I. n. 258 del 5 novembre 2005); per un primo commento sulla stessa, v. Cassatella, In materia di Università ed insegnamento universitario, in Diritto & Formazione, fasc. 11/05.
[3]              Per quanto, prima di tutto, sembri indispensabile un vero e proprio mutamento di mentalità e di costumi (talora diffusi nel nostro Paese) avverso i quali, si crede, nessuna riforma potrebbe mai, da sola, recare rimedi del tutto risolutivi.
[4]              Ex multis, Corte Costituzionale, 27 luglio 1993, n. 333.
[5]          Tra le tante, cfr. Cons. Stato, VI, 11 gennaio 1999 n.8; Cons. Stato sez. IV, 22 febbraio 1994 n. 162.
Recentemente, sulla rilevanza del possibile «scambio incrociato di favori», v. Cons. Stato, VI, 21 maggio – 23 settembre 2004, n. 7797, secondo cui «…la partecipazione alla commissione giudicatrice di soggetti obiettivamente beneficiati dall’attività illecita compiuta dal padre di uno dei candidati alla selezione genera una situazione obiettivamente lesiva dell’imparzialità amministrativa, in quanto causa di potenziale predisposizione favorevole…». Infatti, secondo l’Alto consesso, «…Il criterio nemo iudex in causa propria è rispettato non solo quando il giudice (o l’amministratore) si astiene dal valutare rapporti giuridici dei quali egli è titolare, o quando debba valutare su identiche questioni di diritto, ma anche quando sussistono situazioni obiettive, quale un pericolo di scambio di favori, che siano di tale rilevanza da togliere credibilità all’esercizio della funzione pubblica…»
In ordine alla disciplina applicabile in materia di incompatibilità, cfr. pure Cons. Stato, VI, 13 luglio 2004 n. 6912, con riguardo ad un concorso per dirigente ricercatore presso il CNR ove due membri della commissione risultavano legati da rapporti di coniugio. In tale occasione, il giudice amministrativo ha ritenuto applicabile analogicamente l’art. 19 della disciplina di ordinamento giudiziario (r.d. 12/41) nella parte in cui si prescrive che i magistrati che hanno tra di loro vincoli di parentela o di affinità fino al terzo grado non possono fare parte della stessa corte o dello stesso tribunale o dello stesso ufficio giudiziario, «…non sembrando dubbio che la relazione di parentela o di coniugio esistente tra i commissari determina un potenziale condizionamento dell’autonomia di giudizio che deve presiedere all’esercizio della funzione valutativa…».
[6]              Cons. Stato, VI, 11 gennaio 1999 n. 8, cit.
[7]              In tal senso, cfr. Cons. Stato, VI, 21 maggio – 23 settembre 2004, n. 7797, cit.
[8]              Cons. Stato, VI, 11 gennaio 1999 n. 8, cit.
[9]              Cons. Stato, VI, 13 luglio 2004 n. 6912, cit.
[10]             Cons. Stato, VI, 11 gennaio 1999 n. 8, cit.
[11]             Alla base di tale criterio vi è la presunzione (parrebbe iuris et de iure, stante quanto precisato supra § 2) che in presenza dei rapporti in esso descritti sia scorgibile in capo al commissario quell’interesse personale nella procedura che giustifica, ex art. 51, n.1, c.p.c., l’obbligo di astensione. Dunque, per quanto in base al suddetto criterio risulti ampliato l’ambito di operatività della citata norma di rito, salvo rimarrebbe il principio di tassatività, in essa contemplato, dei casi in cui il giudice ha l’obbligo di astenersi. Ma sulla sostanziale assenza di un principio di tassatività delle cause di incompatibilità delle commissioni nei pubblici concorsi, cfr. Cons. Stato, VI, 21 maggio – 23 settembre 2004, n. 7797, secondo cui, peraltro, «…la mancata ostensione delle gravi ragioni di convenienza (ex art. 51, comma secondo, c.p.c.) può essere oggetto di sindacato giurisdizionale, non assumendo di per sé efficacia viziante, né dovendosi necessariamente, per la sua rilevanza, muovere un addebito ai commissari, ma potendosi poi apprezzare sul piano della legittimità degli atti del concorso, nel caso in cui sia vulnerato, in concreto, il bene protetto dalla norma, ossia si sia determinata un’obiettiva e grave lesione o messa in pericolo del bene costituzionale dell’imparzialità amministrativa. L’inesistenza di un diritto del privato alla ricusazione non comporta infatti l’irrilevanza della violazione dei doveri di trasparenza da parte dei commissari di un concorso, tenuti all’apprezzamento discrezionale della fattispecie, apprezzamento che costituisce il nucleo della facoltatività dell’astensione e può essere sindacato dal giudice amministrativo…».
[12]             Ferma restando (come chiarito supra, § 2) la natura prognostica della valutazione che il giudice è chiamato a compiere, ex ante (senza che assuma rilievo alcuno il profilo fattuale ex post dell’esito inquinante in concreto sortito), essendo sufficiente a radicare l’incompatibilità anche il solo «pericolo» di una compromissione dell’imparzialità di giudizio.
[13]             Fattispecie esaminata da Cons. Stato, VI, 11 gennaio 1999 n. 8, relativa ad un concorso universitario, nella quale il giudice ha accertato l’incompatibilità del commissario (per violazione dell’obbligo di astensione ex art. 51 c.p.c. ed in base al criterio sintomatico testé riferito) a causa dell’esistenza di un «sodalizio professionale» tra lo stesso e il candidato, desunto, appunto, dalla partecipazione dei medesimi soggetti (sia pure con differenti apporti) ad un’associazione professionale medica.
[14]             Cfr. Cons. Stato sez. IV, 22 febbraio 1994 n. 162.
[15]            La decisione 162/94 è richiamata, in senso adesivo, dalla successiva elaborazione giurisprudenziale: cfr. Cons. Stato, VI, 5 maggio 1998 n. 631, § 1.; Cons. Stato, VI, 11 gennaio 1999 n. 8, § 5.3.; da ultimo Cons. Stato, VI, 13 luglio 2004 n. 6912, § 3.
[16]             Cons. Stato, VI, 27 giugno 1978 n. 890. Cfr. anche Cons. Stato, VI, 25 marzo 1959 n. 183; Cons. Stato, VI, 28 ottobre 1969, n. 539.  
[17]             In tal senso, più recentemente, v. Cons. Stato, IV, 22 febbraio 1994, n.162, § 2.3., che esclude che la conoscenza personale e il rapporto docente allievo siano di per sé motivo di astensione «….a meno che non venga in considerazione il principio della segretezza delle prove…»; per un’applicazione conforme a tali principi, v. anche Tar Puglia Bari, 18 dicembre 2002 n. 5694.
[18]             Cfr. Cons. Stato, VI, 5 maggio 1998 n.631.
[19]             Cfr. Cons. Stato, VI, 24 ottobre 2002, n. 5879.
[20]             Per una possibile rilevanza dei lavori in collaborazione, v., però, TAR Campania, II, 21 novembre 2003, n.13792. Sul punto, v. anche infra, § 5. 
[21]             Cfr. Cons. Stato, VI, 8 maggio 2001, n. 2589.
[22]             Cfr. Tar Puglia Bari, 18 dicembre 2002 n. 5694.
[23]             Per la rilevanza di peculiari rapporti «non sistematici», cfr., comunque, TAR Campania, II, 21 novembre 2003, n.13792, che ha annullato una procedura concorsuale per la circostanza che commissario e candidato avessero partecipato, in qualità di componenti, ad altra commissione giudicatrice, nella medesima tornata concorsuale. Tale circostanza, infatti, secondo il Tar, integra la violazione «…dei principi del giusto procedimento e della par condicio tra i candidati (a loro volta espressione dei canoni costituzionali di imparzialità, di buon andamento e di legalità) …», in quanto causa di una situazione di dubbio, anche solo potenziale, sul “giusto” andamento della procedura concorsuale, come tale ritenuta priva delle necessarie garanzie di trasparenza, serenità ed obiettività di giudizio (cfr. Consiglio Stato sez. V, 1 marzo 2000, n. 1071).
[24]             Il riferimento ad attività patrimonialmente apprezzabili è chiaramente esemplificativo, ad es., in Cons. Stato, VI, 8 maggio 2001, n. 2589, § 3.4; Tar Puglia Bari, 18 dicembre 2002 n. 5694, § 3. Visioni più formalistiche e restrittive compaiono invece in alcuni passaggi di Cons. Stato, VI, 24 ottobre 2002, n. 5879.
[25]             Così, in ordine all’obbligo di astensione di cui all’art. 323 c.p., Cass., VI, 19 novembre 1997, Cappabianca; Cass. VI, 5 novembre, 2001, Chiarotto. Conforme a tale interpretazione anche Cons. Stato, VI, 21 maggio – 23 settembre 2004, n. 7797.
[26]             Così, in relazione all’obbligo di astensione del giudice penale per la presenza di un interesse nel procedimento ex art. 36, lett. a), c.p.p., Cass., II, 21 giugno 99, n.1660; Cass., VI, 5 marzo 98, n. 4452.
[27]             In tal senso, Cons. Stato, V, 13 agosto 1996, n. 920
[28]             In tal senso, Trga Trento, 6 agosto, 1992, n. 305
[29]             Si tratta di C. Cass., VI penale, 19 ottobre 2004 – 2 marzo 2005 n. 7992, in «Guida al Diritto» n.18/05.
[30]             Intendendosi per tale, come chiarito sopra, ogni interesse, anche non economico e del tutto affettivo, così come l’interesse di favorire taluno per ottenere una situazione di vantaggio nella sfera delle proprie relazioni sociali ed amicali.
[31]            É il caso sopra riferito ed esaminato da Cons. Stato, VI, 24 ottobre 2002, n. 5879, secondo cui, stante l’estrema diffusione dei lavori pubblicati svolti in collaborazione fra più autori (con la presenza sistematica di un componente «eminente»), il fatto che il commissario e uno dei candidati abbiano pubblicato insieme una o più opere è irrilevante, non ritenendosi idonea a radicare l’obbligo di astensione la sussistenza di rapporti di collaborazione meramente intellettuale (cui siano estranei interessi patrimoniali). Ma sul punto, cfr. Cons. Stato, IV, 22 febbraio 1994, n.162, che bene evidenzia la possibilità di inferire un «sodalizio professionale» (e, dunque, un rapporto idoneo a generare l’obbligo di astensione) dall’attività di collaborazione intellettuale, allorquando essa (unitamente ad altri elementi) risulti in concreto funzionale all’accesso ai ruoli o all’avanzamento in carriera.
[32]             Come è noto, infatti, le valutazioni per l’accesso ai ruoli accademici riguardano non solo le prove di esame, ma anche i titoli prodotti dai candidati, tra cui, appunto, presentano particolare importanza le pubblicazioni.

Fiorentino Mario G.F.

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