Le sentenze pronunciate a conclusione del primo grado di giudizio sono suscettibili di essere impugnate, alternativamente, o tramite appello, ovvero mediante ricorso per revocazione. I motivi presupposti all’appello si pongono, però, in un rapporto di continenza rispetto a quelli posti alla base dell’azione revocatoria (siano essi relativi a vizi “palesi” della sentenza ovvero a vizi “occulti” della sentenza) con la conseguenza che, in pendenza dei termini per la proposizione dell’appello, non può essere esperita l’azione revocatoria.
Da ciò ne deriva, quale logica conseguenza, l’impossibilità di proporre, avverso le sentenze del giudice di prime cure, la revocazione ordinaria, per i motivi di cui ai nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. Ciò in considerazione del fatto che tale mezzo di impugnazione è utilizzabile solo in pendenza dei termini previsti per l’appello che, come accennato, prevale rispetto al ricorso per revocazione. La revocazione delle sentenze di primo grado è, quindi, possibile, unicamente, a seguito del passaggio in giudicato delle medesime e in relazione ai motivi individuati ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c.
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Diversamente, contro le sentenze emesse dalla Commissione tributaria regionale, la parte soccombente ha la possibilità di esperire sia il ricorso per cassazione che il ricorso per revocazione (ordinaria o straordinaria). In pendenza dei relativi termini per l’impugnativa è, infatti, possibile elevare, avverso la medesima sentenza, contemporaneamente o alternativamente, entrambi i rimedi, sulla base dei motivi diversi e specifici che caratterizzano ciascun mezzo di impugnazione. A ben vedere, infatti, sia il ricorso per cassazione che quello per revocazione, sono mezzi di impugnazione della sentenza a critica vincolata, esperibili solo nelle ipotesi tassativamente previste dalle norme di legge. La revocazione, in effetti, può essere utilizzata per eccepire i vizi attinenti al merito della controversia, mentre il ricorso per cassazione involge questioni relative alla violazione o falsa applicazione di norme processuali o sostanziali (i.e., error in procedendo ed error in iudicando). I rispettivi motivi, dunque, si pongono in un rapporto di complementarità e concorrenza (c.d. rapporto di “non interferenza”) e non già di continenza, come nel caso dell’appello.
Per quanto riguarda, invece, il coordinamento tra i due mezzi di impugnazione, occorre precisare che, nonostante il carattere pregiudiziale del giudizio revocatorio, rispetto a quello per cassazione, la proposizione dell’azione di revocazione non comporta, sic et simpliciter, la sospensione dei termini per la proposizione del ricorso per cassazione avverso la medesima sentenza o del relativo procedimento (cfr., art. 398, comma 4, c.p.c.).
Il giudice davanti a cui è proposta la revocazione può, però, su istanza di parte, disporre la sospensione dell’uno o dell’altro termine fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione, qualora ritenga non manifestamente infondata l’azione proposta.
Peraltro, è ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale che tende a riconoscere alla notifica del ricorso per revocazione, contro la sentenza emessa dal giudice di seconde cure, l’effetto di far decorrere il termine “breve” di sessanta giorni per la proposizione del ricorso dinanzi alla Suprema Corte (Pasquale Formica e Liliana Peruzzu, GIUDIZIO DI REVOCAZIONE: MAGGIORI CERTEZZE E UNIFORMITÀ DI TUTELA, Il fisco, 2/2016, p. 132).
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