I vizi della volontà ingenerati mediante artifizi, raggiri e menzogne

Il buon funzionamento di una qualsiasi economia di mercato presuppone lo sviluppo di scambi all’interno dei quali la volontà dei contraenti abbia la possibilità di formarsi correttamente e liberamente.

Ne consegue che l’ordinamento giuridico predispone rimedi specifici per le situazioni in cui la volontà sia assente o il processo di formazione della stessa risulti patologicamente viziato.

     Indice

  1. I vizi della volontà
  2. Artifizi, raggiri e menzogne secondo il recente orientamento della S.C. (Cass. civ., 23 giugno 2022,20231)
  3. Risarcimento del danno e concorso del deceptus

1. I vizi della volontà

La volontà è elemento essenziale del negozio giuridico, al punto che se essa manca del tutto, come nelle ipotesi di manifestazione di volontà non serie (quelle fatte per scherzo, per fini didattici, ecc.) oppure estorte facendo ricorso alla violenza fisica, il negozio giuridico è nullo.

Diverso è, invece, il caso della volontà viziata.

In tale circostanza, la volontà effettivamente esiste, ma il suo processo di formazione è “deviato” e cioè in qualche modo distorto.

Sotto questo profilo, è il Codice civile a definire il catalogo dei vizi cui può andare soggetta la volontà.

Più precisamente, lo fa laddove al Libro Quarto, Titolo II, trattando dell’annullabilità del contratto (Capo XII), espressamente richiama i “vizi del consenso” e stabilisce all’art. 1427, rubricato “errore, violenza e dolo”, che “il contraente, il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo, può chiedere l’annullamento del contratto, secondo le disposizioni seguenti”.

Il contratto è, dunque, annullabile su richiesta del contraente che (i) prestò il proprio consenso per errore, (ii) o il cui consenso fu estorto con violenza (iii) o carpito con dolo.

Ma andiamo con ordine.

Innanzitutto, non qualsivoglia “errore” può porsi all’origine di un vizio di volontà apprezzabile ai fini dell’annullamento del contratto, ma solo l’errore “essenziale” e “riconoscibile da parte dell’altro contraente” (art. 1428 c.c.).

In tale quadro, l’errore è “essenziale” quando cade su uno degli elementi qualificanti del contratto, quali la sua natura, l’identità dell’oggetto o della prestazione ovvero su una loro determinante qualità, l’identità o le qualità dell’altro contraente quando siano determinanti ai fini del consenso o, infine, quando trattandosi di “errore di diritto”, esso abbia rappresentato la ragione unica o principale del contratto (art. 1429 c.c.).

Allo stesso tempo, l’errore è “riconoscibile” da parte dell’altro contraente “quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo” (art. 1431 c.c.).

Passando poi a considerare il consenso estorto con la “violenza”, occorre subito precisare che quella considerata dall’art. 1427 c.c. è la violenza di tipo psichico, intesa come minaccia concreta e probabile. E, infatti, come chiarito dall’art. 1435 c.c., la violenza minacciata deve avere una natura tale “da fare impressione sopra una persona sensata” e da farle temere di esporre a “un male ingiusto e notevole” sé o i suoi beni, ma anche, per espressa previsione dell’art. 1436 c.c., “la persona o i beni del coniuge del contraente o di un discendente o ascendente di lui” e, financo, persone diverse da quelle in precedenza indicate o i loro beni, salvo che in tale ultimo caso l’annullamento del contratto sarà rimesso alla prudente valutazione delle circostanze da parte del giudice.

Infine, ex art. 1427 c.c., il consenso può essere carpito con “dolo”, ma il dolo diventa causa di annullamento del contratto soltanto “quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato” (art. 1439 c.c.).

Resta, in ultimo, da chiarire un aspetto.

La legge richiama i “vizi del consenso” quando esamina le ipotesi di annullabilità del contratto. Ciò è pienamente comprensibile alla luce del fatto che il “contratto è l’accordo di due o più parti” (art. 1321 c.c.) e, naturalmente, non vi è accordo senza che vi sia stata una legittima e libera espressione di volontà.

Merita, però, di essere sottolineato che la portata dei rimedi approntati dall’ordinamento per contrastare le conseguenze negative che derivano dalla “viziata” manifestazione della volontà travalicano l’ambito, pur vasto, del “contratto” per spingersi a coprire anche il perimetro degli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale, atteso che, a norma dell’art. 1324 c.c., “salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili” anche ai predetti atti unilaterali.


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2. Artifizi, raggiri e menzogne secondo il recente orientamento della S.C. (Cass. civ., 23 giugno 2022, n. 20231)

Con propria recente pronuncia la S.C., richiamando il proprio costante orientamento (Cass. civ.. 20792/2004; Cass. civ., 12424/2006; Cass. civ., 12982/2015), ha avuto modo di confermare che “a norma dell’art. 1439 c.c., il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati siano stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe prestato il proprio consenso per la conclusione del contratto” (Cass. civ., 23 giugno 2022, n. 20231).

Conseguentemente, secondo la S.C., non basta per poter ottenere l’annullamento del contratto una qualunque influenza psicologica sull’altro contraente, essendo invece necessaria la macchinazione di artifici o raggiri o anche semplici menzogne, tali da esercitare “un’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte e, quindi, sul consenso di quest’ultima”.

Ciò, tuttavia, gli “ermellini” hanno sottolineato che, ai fini dell’annullabilità del contratto, sia nella ipotesi di dolo commissivo che in quella di dolo omissivo, la portata degli artifici o raggiri, anche al limite manifestata nelle forme della reticenza o silenzio, non è causalmente assoluta, giacché essa è destinata ad interrompersi dinanzi alla colpevole negligenza del deceptus.

In altri termini, la S.C. sostiene che “ricorre il dolus malus solo se, in relazione alle circostanze di fatto e personali del contraente, il mendacio sia accompagnato da malizie e astuzie volte a realizzare l’inganno voluto ed idonee in concreto a sorprendere una persona di normale diligenza e sussista, quindi, in chi se ne proclama vittima, assenza di negligenza o di incolpevole ignoranza”.

Né, d’altra parte, l’idoneità dei raggiri posti in essere dal deceptor per trarre in inganno la controparte, ai fini della invalidazione del contratto, viene meno “solo perché il deceptus avrebbe potuto espletare una certa attività di verifica e di controllo per sventare l’errore” (Cass. civ., 29 agosto 1991, n. 9227).

Ma, e questo è ovvio, la sussistenza della predetta idoneità degli artifici a coartare la volontà del deceptus dovrà essere attentamente vagliata e motivata dal giudice di merito.

3. Risarcimento del danno e concorso del deceptus

A norma dell’art. 1439 c.c., dunque, la possibilità di ottenere l’annullamento del contratto per dolo richiede unicamente che i raggiri posti in essere da uno dei contraenti siano stati tali che, in assenza di essi, l’altra parte non avrebbe prestato il proprio consenso per la conclusione del contratto.

Nessun riferimento viene, pertanto, effettuato dalla norma al pregiudizio che dal perfezionamento del contratto possa essere derivato in capo al deceptus.

Da ciò discende che la prefata norma assicura protezione alla lesione della libertà negoziale e non anche all’integrità patrimoniale del contraente raggirato.

Tuttavia, sebbene il danno patrimoniale del decptus non rappresenti un elemento costitutivo della fattispecie regolata dall’art. 1439 c.c., esso, quando ne è provata l’esistenza, non rimane privo di tutela.

E, infatti, con proprio arresto del 2006 la S.C. ha affermato che “il contraente il cui consenso risulti viziato da dolo può bene richiedere giudizialmente il risarcimento del danno conseguente all’illecito della controparte lesivo della libertà negoziale, sulla base della generalissima previsione in tema di responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c., a prescindere dalla contemporanea proposizione della domanda di annullamento ai sensi del citato art. 1439 c.c.” (Cass. civ., 19 settembre 2006, n. 20260).

D’altra parte, però, il risarcimento del danno potrà essere preteso dal deceptus, in tutto o in parte, sempreché quest’ultimo non abbia concorso a cagionare il danno patito. Stabilisce, infatti, l’art. 1227 c.c., al primo comma, che “se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”; e, al secondo comma, che “il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”.

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Dott. Carmine Di Palo

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