Il buono pasto, carattere assistenziale o natura retribuiva?

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La disciplina del servizio sostitutivo di mensa, reso tramite l’utilizzo dei buoni pasto, è prevista dal regolamento del ministero dello sviluppo economico n. 122 del 7 giugno 2017 in attuazione dell’art. 144, comma 5, del decreto legislativo n. 50 del 18 aprile 2016.

Quest’ultima disposizione contiene la definizione del buono pasto come «un servizio sostitutivo di mensa di importo pari al valore facciale del buono»[1] e utilizzabile «esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l’orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto, nonché dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato».[2]

La normativa deve, inoltre, essere letta congiuntamente con gli accordi derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale che, generalmente disciplinano l’erogazione dei buoni pasto nel proprio settore di riferimento.

La disposizione legislativa è stata quindi oggetto di diversi contenziosi volti a riconoscere l’effettivo inquadramento giuridico del buono pasto. Il più delle volte il ricorrente, quasi esclusivamente il lavoratore o l’organizzazione sindacale in sua rappresentanza, è ricorso allo strumento giudiziario affinché venisse riconosciuta all’erogazione del servizio sostituivo della mensa un valore inscindibile e direttamente collegato alla retribuzione e quindi al contratto di lavoro; volendo definire il buono pasto più che un onore per il datore di lavoro un vero e proprio obbligo.

Il risultato dei diversi contenziosi ha invece escluso, più volte, una definizione giuridica volta a classificare il buono pasto come un’obbligazione contrattuale e anzi, ha tracciato una giurisprudenza consolidata con esito non favorevole al lavoratore.

Già nella sentenza della Corte di Cassazione n. 14388 del 14 luglio 2016, richiamando un indirizzo giurisprudenziale consolidato nella stessa corte e, in particolare, la sentenza n. 11212 del 17 luglio 2003 e la n. 14047 del 1 luglio 2005 in merito all’effettivo obbligo per il datore di lavoro di versare all’INPS i contributi derivanti dalle somme volte a garantire il servizio mensa, i giudici hanno ribadito come il «valore del c.d. buono pasto, salva diversa disposizione, non è un elemento della retribuzione concretandosi lo stesso in una agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale»[3] in quanto, orientando la lettura sia in ambito normativo europeo (decreto legislativo n. 66 dell’8 aprile 2003 in recepimento delle direttive comunitarie 93/104 e 2000/34) sulla disciplina dell’organizzazione dell’orario di lavoro affinché venga garantito un ambiente salubre al lavoratore e, nel nostro ordinamento attraverso una necessaria lettura dell’art. 32 sulla tutela della salute quale diritto irrinunciabile, si attribuisce appunto ai buoni pasto un carattere assistenziale volto a garantire una finalità conciliativa tra le esigenze dell’organizzazione del lavoro con le esigenze quotidiane del lavoratore.[4]

Data questa premessa, si può comprendere come, la stessa Corte di Cassazione abbia, nell’ordinanza n. 16135 del 28 luglio 2020, addirittura, attribuito alla corresponsione del buono pasto una «unilaterale»[5] revocabilità da parte del datore di lavoro, in tutti quei casi dove non si ravvedano più le condizioni di agevolazione nell’ambiente lavorativo che sono il presupposto per l’erogazione del «servizio».

Nel caso di specie, la Corte oltre a ribadire la costante giurisprudenza precedente, ha respinto l’interpretazione proposta dal lavoratore quale erogazione dei buoni pasto «in funzione del rapporto contrattuale»[6] e basata sulla sua «reiterazione nel tempo» e quindi appartenente alla retribuzione, negando che tali elementi modifichino la natura del buono pasto da prestazione assistenziale a retributiva e, quindi, accogliendo la possibilità di una modifica unilaterale da parte del datore di lavoro attraverso un semplice «atto interno» (Corte di Cass. N. 10354, 19 Maggio 2016).

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Buono pasto e smart-working

Questa conclusione risulta ancora più importante nel periodo attuale della pandemia da COVID-19 in quanto, l’erogazione del buono pasto ai lavoratori in c.d. smart-working ovvero lavoro agile, risulta una discrezionalità rimessa agli accordi tra l’azienda e le parti (sia in abito di contrattazione collettiva sia individuale) che potranno decidere in autonomia se il buono pasto debba spettare anche nei confronti di coloro che prestano il lavoro attraverso tale modalità.

Il legislatore infatti ha sommariamente previsto, nel decreto legislativo 81/2017, la parità del trattamento economico del lavoratore in lavoro agile e del lavoratore in azienda ma non ha inserito una puntualizzazione specifica sul buono pasto. Il silenzio del legislatore, quindi, soprattutto nel settore del pubblico impiego, sembrerebbe protendere verso un’interpretazione del lavoro agile come una prestazione che non necessita di una vicinanza all’azienda e quindi del servizio mensa ovvero del buono pasto ma anzi, ai sensi dell’art.18 del d.lgs. 81/2017 il lavoro agile deve essere organizzato «per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luoghi di lavoro»[7] e ancora, l’art. 19 dello stesso decreto assicura al lavoratore il diritto alla disconnessione dagli strumenti informatici necessari alla prestazione lavorativa.

Tutto ciò sembrerebbe quindi non rendere più attuale il binomio esistente tra previsione di un servizio mensa, volto ad agevolare il lavoratore vicino alla sede di lavoro, e la modalità smart-working.

È di recente attualità infatti la pronuncia del Tribunale di Venezia tramite il decreto n. 3463 del 08/07/2020. Quest’ultimo, dovendo decidere sul ricorso presentato da un’organizzazione sindacale che lamentava l’eliminazione della corresponsione dei buoni pasto da parte dell’Ente essendo i propri lavoratori in smart-working, ha rigettato la domanda poiché, oltre a rilevare le già citate pronunce giurisprudenziali sulla natura non retributiva del buono pasto (ma anzi, assistenziale), non ravvede una violazione del medesimo trattamento economico e normativo ai sensi dell’art. 20 della legge 22 maggio 2017. Tale decisione è validata in quanto i presupposti della natura del buono pasto lo definiscono come un elemento volto a corrispondere «un beneficio conseguente non alla prestazione di lavoro in quanto tale ma alle modalità concrete dell’organizzazione dell’orario di lavoro».[8]

Quindi quando la prestazione, secondo il Tribunale, viene effettuata in modalità «agile» il lavoratore, avendo possibilità di organizzare il lavoro nella maniera più flessibile alle sue esigenze, non matura il buono pasto poiché non soggetto a stringenti cadenze lavorative imposte dall’orario lavorativo o dalla sede fisica in cui svolge il lavoro (nel caso di specie il riferimento è, tra l’altro, direttamente contenuto nella disciplina del contratto nazionale lavorativo di settore ex art. 45 CCNL di comparto).

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Note

[1] Art. 2, d. ministero dello sviluppo economico, 7 giugno 2017, n. 122.

[2] Art. 2, d. ministero dello sviluppo economico, 7 giugno 2017, n. 122.

[3] Corte di Cass. n. 14388, 14 luglio 2016.

[4] Direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, recepite con il d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66.

[5] Corte di Cass. n. 16135 del 28 luglio 2020.

[6] Corte di Cass. n. 16135 del 28 luglio 2020.

[7] Art. 18, d.lgs. 81/2017.

[8] Tribunale di Venezia sez. lavoro, Decreto n. 3463, 08/07/2020.

Mattia Petrianni

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