Premessa
A partire dalla metà degli anni Novanta del XX secolo, la cooperazione tra poteri pubblici ed operatori economici privati cominciò a diffondersi rapidamente nei Paesi del Nord Europa, specialmente nel Regno Unito ed in Irlanda: si faceva perlopiù ricorso allo strumento del Private Finance Initiative (PFI), una sorta di contratto complesso in forza del quale il soggetto privato si impegna a progettare e costruire a proprie spese un’opera pubblica, mentre l’amministrazione gli rimborsa a rate il capitale investito, gli interessi maturati come pure il servizio prestato entro 10 anni1. Peraltro, tali collaborazioni andavano espandendosi in assenza di una disciplina comunitaria di riferimento, finendo inevitabilmente per destare timori e preoccupazioni in merito alla tutela della concorrenza all’interno del mercato unico.
Di conseguenza, sebbene a livello comunitario già noto quale forma di politica di coesione economica e sociale, la Commissione Europea avviò lo studio in tema di partenariato pubblico privato (PPP) nel 1999, durante la fase di stesura della “Comunicazione interpretativa sulle concessioni nel diritto comunitario”. Una significativa tappa intermedia fu senza dubbio la pubblicazione del Parere del Comitato Economico e Sociale sul “Rafforzamento del diritto delle concessioni e dei contratti di partenariato pubblico privato (PPP)”, all’interno del quale il CESE sottolinea come lo sviluppo dell’apporto privatistico nelle opere pubbliche fosse ancora ostacolato dalla mancanza tanto di una normativa quadro per i contratti di partenariato, quanto di una disciplina specifica sulle concessioni2. Ad ogni modo, pur continuando le istituzioni europee a monitorare con attenzione il mercato degli appalti pubblici e delle concessioni, il dibattito vero e proprio in materia di partenariato pubblico privato venne inaugurato solo con l’adozione del Libro Verde relativo ai “Partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni” del 30 aprile 2004.
Volume consigliato
Il primo intervento normativo del Legislatore comunitario: il Libro Verde del 30 aprile 2004
In concomitanza con l’adozione delle nuove direttive sugli appalti, la Commissione Europea presentò in data 30 aprile 2004 la bozza di un nuovo Libro Verde relativo sia ai partenariati pubblico-privati sia al diritto comunitario in materia di appalti pubblici e di concessioni. In effetti, in sede comunitaria è solo da questo momento che si assiste all’avviamento di un serio e costante approfondimento del fenomeno partenariale, intendimento rafforzato dalla contestuale pubblicazione da parte dell’Eurostat della Decisione 11 febbraio 2004, n. 18 con ad oggetto proprio il trattamento contabile, nel bilancio di ciascun singolo Stato membro, dei contratti di partenariato stipulati dalla Pubblica Amministrazione con operatori economici privati. Emergendo infatti da tale documento la possibilità di registrare fuori bilancio i costi sostenuti per le infrastrutture realizzate con il contributo dei privati3, con grandi benefici per il debito pubblico, la Commissione non esitò a delineare quantomeno una prima base definitoria nonché i punti cardine della normativa sul PPP. Dopotutto, lo scopo primario della Comunità Europea era quello di assicurarsi che pure lo sviluppo del partenariato avvenisse in un contesto concorrenziale e perciò nel pieno rispetto dei principi generali in tema di appalti pubblici.
Nel Libro Verde del 2004 il partenariato pubblico privato viene genericamente definito quale “forma di cooperazione tra le autorità pubbliche ed il mondo delle imprese che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la manutenzione di un’infrastruttura o la fornitura di un servizio”, senza però elencare nello specifico tutte le possibili declinazioni che questa collaborazione poteva assumere. Tuttavia, al fine di consentire se non altro l’individuazione delle forme organizzative sussumibili all’interno della categoria partenariale così definita, distinguendoli di conseguenza da tutte le altre possibili formule collaborative fra amministrazioni e privati, sempre nel Libro Verde sono stati previsti i caratteri indispensabili al fine di poter considerare un’operazione come PPP: a) una collaborazione di lunga durata tra potere pubblico e soggetto privato; b) il finanziamento del progetto garantito in tutto o in parte dal settore privato; c) la partecipazione strategica dell’operatore privato a tutte le fasi del progetto, dove l’amministrazione si occupa innanzitutto di definire gli obiettivi da raggiungere al fine di soddisfare l’interesse pubblico sottostante; d) un’effettiva distribuzione dei rischi tra autorità pubblica e comparto privato, da effettuarsi caso per caso.
Ciò nonostante, con il Libro Verde il diritto comunitario non giunse ad elaborare né una definizione né una regolamentazione cogente del partenariato pubblico privato; ecco perché, in assenza di una disciplina distinta rispetto a quella degli appalti e delle concessioni, al suo interno l’elemento di maggior interesse rimane senza dubbio la distinzione dei modelli di PPP sotto il profilo tipologico. Difatti, è appunto con questo atto che le figure partenariali vengono per la prima volta bipartite in due categorie: da un lato il PPP contrattuale, comprensivo delle fattispecie fondate su un contratto stipulato tra un partner pubblico ed un partner privato, entrambi i quali mantengono comunque la loro individualità; dall’altro lato il PPP istituzionalizzato, che invece implica una cooperazione tra sfera pubblica e sfera privata, la quale postula l’esistenza, per non dire la creazione ad hoc, di un’entità giuridica distinta, deputata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse o alla gestione/fornitura di un servizio a favore della collettività4. Il primo risulta quindi regolato da obbligazioni contrattuali, mentre il secondo esige una struttura societaria le cui quote siano detenute congiuntamente dalla parte pubblica e da quella privata5.
Nondimeno, il discrimen contenuto nel Libro Verde, nonostante un’indiscutibile efficacia descrittiva, «ancora non coglieva il dato davvero rilevante ai fini di una sostanziale distinzione tra differenti forme di partenariato». Effettivamente, sancito che la stabilità nel tempo della collaborazione tra soggetto pubblico e soggetto privato costituisce un presupposto irrinunciabile del partenariato, il quale consentiva già in quel tempo di distinguerlo da altre forme di collaborazione occasionali o di corto raggio, ciò che fin dalle prime fasi di sviluppo del PPP è sembrato esclusivamente meritevole di considerazione è l’oggetto di quella stabile cooperazione. Invero, secondo l’autore, il documento della Commissione Europea ha tracciato una linea di demarcazione: da un lato le ipotesi di PPP in cui «la collaborazione prevede una rigida separazione di ruoli, così che pubblico e privato svolgono, ciascuno con autonome competenze e responsabilità, parti ben distinte dell’attività complessiva, che risulta, quindi, la somma coordinata di due azioni separate»; dall’altro lato quelle in cui «la collaborazione è assai più organica ed il “fare insieme” non consiste nella fusione di due azioni separate, bensì in un’unica azione posta in essere dai due partner, che concorrono alla medesima attività, spesso mettendo in comune risorse finanziarie ed organizzative».
Peraltro, questa bipartizione molto netta pare in realtà indebolirsi nell’applicazione pratica: se è vero che il partenariato istituzionalizzato spesso si esprime attraverso nuove entità giuridiche partecipate in pari misura da entrambe le parti, mentre le prime fattispecie esposte adottano frequentemente il partenariato contrattuale, in ogni caso è altrettanto vero che questo non è un legame inderogabile. Anzi, non di rado accade che la collaborazione organica trovi forme contrattuali di attuazione. Pertanto, nell’intento di ripercorrere l’origine e l’evoluzione del fenomeno partenariale, per illustrare la comparsa di nuovi modelli di PPP atipici, a metà strada tra il contratto sinallagmatico e quello associativo, appare più opportuno soffermarsi sul diverso grado di integrazione e stabilità della collaborazione fra pubblici poteri e comparto privato presente in ciascuno di essi piuttosto che sulla circostanza della creazione o meno di un nuovo soggetto destinato all’attività comune.
Eppure, all’indomani della pubblicazione del Green Paper del 2004, era forte nelle istituzioni comunitarie la consapevolezza che «il PPP […] non rappresentava ancora una categoria giuridica specifica, incarnando più che altro una “nozione descrittiva6”, riferita a tutte le situazioni contrattuali ed istituzionalizzate caratterizzate dalla compresenza di soggetti pubblici e privati». Allo stesso tempo, però, queste erano risolute a proseguire il dibattito sul tema partenariale, in quanto decise a valorizzare qualsiasi mezzo finalizzato al prezioso «avvalimento, soprattutto per interventi complessi, delle capacità tecniche, progettuali, economiche, finanziarie, propositive, ideative del comparto privato» in virtù «dell’esigenza del pubblico di acquistare dal privato utilità sia in termini di know how sia in termini di risorse economiche».
La stessa Commissione Europea si rese perfettamente conto che non era ancora possibile ricondurre tutte le forme di partenariato pubblico privato nella sfera applicativa del diritto comunitario, chiarendo che l’adozione del Libro Verde costituiva semplicemente un espediente attraverso cui avviare una ben più approfondita consultazione al fine di constatare, per prima cosa, se vi fosse la reale necessità di intervenire a livello sovranazionale, e poi eventualmente quale fosse lo strumento più adeguato per farlo. Conseguentemente, il Libro Verde si limitò a fare una rilevazione statistica delle fattispecie di collaborazione pubblico-privati al momento più diffuse in ambito europeo, per poi catalogarle e quindi illustrare quali principi della disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici e concessioni dovessero essere a quelle applicati. Dunque, alla luce di quanto esposto, è possibile constatare come nel 2004 le istituzioni comunitarie presentarono il PPP non come nuovo istituto giuridico, bensì come metodo di soddisfacimento di interessi collettivi che si esprime in figure ed istituti, tipici ed atipici.
Dibattito, comunicazioni e risoluzioni all’indomani del Libro Verde sul partenariato pubblico privato
Nella consultazione pubblica avviata con il Libro Verde dalla Commissione, furono coinvolti direttamente gli operatori economici dei singoli Stati membri allo scopo di appurare se vi fosse effettivamente il bisogno di conferire loro una disciplina unitaria in ordine all’accesso alle varie forme di partenariato pubblico privato; le osservazioni pervenute vennero poi state compendiate nel c.d. rapporto Mc Cravy, anche se non si arrivò a trarne immediatamente delle conclusioni. Il primo intervento della Commissione Europea successivo al Libro Verde risale infatti al 15 novembre 2005: una nuova comunicazione sui partenariati pubblico-privati e sul diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni, questa volta persino indirizzata ad organi quali il Consiglio ed il Parlamento Europeo.
Sebbene persino in questa occasione ci si guardò bene dal porre in essere una vero e proprio intervento legislativo, con questo documento i commissari vollero rendere noto come avrebbero esercitato il loro diritto di iniziativa riguardo alle tante informazioni e proposte raccolte nel rapporto Mc Cravy, “al fine di assicurare un’effettiva concorrenza nel settore dei partenariati pubblico-privati PPP senza limitare indebitamente la flessibilità necessaria per realizzare progetti innovativi e spesso complessi”. In aggiunta, fu con questa comunicazione che la Commissione precisò come tutte le fattispecie partenariali rientrino nell’ambito del Trattato CE e come siano, coerentemente, tutte soggette ai principi di trasparenza, non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e mutuo riconoscimento derivanti dagli articoli 49 e 56 TCE. Le numerose ipotesi di collaborazione pubblico privato riscontrabili nei diversi Stati membri, tuttavia, non erano sottoposte ad un meccanismo di aggiudicazione unitario; visto però lo scarso interesse degli interpellati, per il momento le istituzioni europee si rivelarono non favorevoli a dotare il PPP di una specifica procedura di aggiudicazione7.
Ad ogni modo, a livello comunitario persisteva l’interesse nei confronti del fenomeno partenariale come pure lo studio delle sue potenzialità, tanto che già il 26 ottobre 2006 fu il Parlamento Europeo ad intervenire di nuovo sull’argomento con una risoluzione nella quale definiva il PPP come “una forma di cooperazione a lungo termine disciplinata contrattualmente tra il settore pubblico e quello privato per l’espletamento di compiti pubblici, nel cui contesto le ricorse richieste sono poste in gestione congiunta ed i rischi legati ai progetti sono suddivisi in modo proporzionato sulla base delle competenze di gestione del rischio dei partner del progetto”.
Col volgere degli anni, l’Europa piombò in una grave crisi economica: la Commissione si convinse che era necessario fare ancor più affidamento «sul partenariato pubblico privato come mezzo di aiuto per le autorità pubbliche al fine di creare posti di lavoro investendo nel futuro e come strumento per riportare le finanze pubbliche in equilibrio». Adottata quindi una nuova comunicazione il 19 novembre 2009 al fine di illustrare una nuova strategia, il partenariato andò evolvendosi nel contesto europeo sulla base di tre linee guida: a) un miglior coordinamento, un rafforzamento ed un’ulteriore razionalizzazione degli strumenti di finanziamento per i partenariati pubblico-privati a livello dell’Unione Europea; b) una stretta cooperazione con la Banca Europea per gli Investimenti (BEI); c) il potenziamento delle capacità del settore pubblico.
Per di più, all’interno di questo atto della Commissione Europea venne anche stilato un esaustivo elenco tanto dei vantaggi quanto degli svantaggi riconducibili al PPP: una prova inequivocabile di quanto le istituzioni europee fossero coscienti del ruolo centrale che la partnership pubblico privato poteva rivestire in un periodo in cui «la crisi economica e finanziaria ostacolavano la capacità dei fondi pubblici di mettere a disposizione finanziamenti adeguati e di assegnare risorse a politiche importanti e progetti specifici». Su questa linea, del resto, si mantenne del resto il Parere del Comitato economico e sociale europeo del 21 ottobre 2010, il quale oltre al fattore finanziario, giustificò ed incoraggiò il ricorso al PPP per la rapidità con cui era possibile realizzare infrastrutture rispetto alla procedure ordinarie nonché per la coerenza interna con cui era possibile sviluppare ogni progetto, ottenendo così una visione globale dello stesso che raramente si sarebbe conseguita con la ripartizione di compiti e responsabilità propria del settore degli appalti pubblici.
Nel complesso, se in questo parere da un lato si dimostrava come proprio con il partenariato pubblico privato fosse possibile raggiungere un livello di efficienza economica mai vista prima, dall’altro il non si mancò di mettere in luce il fatto che, sul piano giuridico e normativo, ancora mancava una definizione precisa del concetto di PPP. Per quanto tale lacuna non impedisse né il progresso né il monitoraggio delle operazioni, rimetteva inevitabilmente alla discrezionalità di ciascuno Stato membro il compito di dare al partenariato che si adattasse al suo contesto specifico ed ai suoi usi. Il Comitato suggerì quindi un approfondimento della figura partenariale così come l’introduzione di una normativa specifica al fine di conferire, tra l’altro, stabilità normativa alla cospicua giurisprudenza della Corte di Giustizia sulla materia8.
In conclusione, il primo decennio degli anni Duemila del XX secolo si chiudeva con un’Unione Europea alla quale non interessava, pur avendone la possibilità, attribuire al PPP una base normativa comune di matrice eurounionale: per il momento, riteneva infatti fosse sufficiente individuarlo «come fenomeno al quale ricondurre una serie di fattispecie disciplinate a livello europeo, sia mediante atti normativi, sia attraverso la giurisprudenza della Corte di Giustizia». Tutto sommato, il diritto unionale era comunque riuscito nell’intento di regolare la rapida diffusione su vasta scala delle partnership pubblico privato riconducendole, seppur solo indirettamente, sotto l’egida del Trattato UE: si voleva assolutamente evitare che queste, all’interno dei singoli Stati membri, potessero costituire «una fonte di elusione delle regole comunitarie in materia di concorrenza, di libera circolazione di servizi e di non discriminazione», irrinunciabili per il buon funzionamento del mercato unico europeo.
La direttiva 2014/23: la prima disciplina organica in materia di concessioni
Negli anni successivi, il dibattito sul partenariato pubblico privato, inaugurato dalla Commissione Europea nel 2004 con la pubblicazione del Libro Verde, è proseguito intensamente nell’ambiente comunitario, tanto che per giungere ad un punto di sintesi nonché di svolta si è dovuto attendere sino al 2014. Un percorso ultradecennale, dunque, quello del PPP, di certo non privo di ostacoli ed accidenti, che ha raggiunto un primo ed importante traguardo in occasione del completamento della disciplina europea dei contratti pubblici. Sebbene a livello eurounitario non abbia ancora trovato una disciplina generale ed unitaria, finanche per il fenomeno partenariale le direttive adottate il 26 febbraio 2014, ed in particolare la “direttiva concessioni”, rappresentano, allo stato attuale delle cose, l’esito normativo dello studio e dell’approfondimento intrapreso sul tema dalle istituzioni dell’Unione.
Ciò nonostante, i risultati conseguiti sono ben lontani dalle originarie proposte fissate dieci anni prima con i l Green Paper, soprattutto se si pensa che nelle nuove direttive non si faccia alcun riferimento al PPP, nemmeno implicitamente. Probabilmente, questa omissione non è stata casuale, bensì indice di come per il Legislatore europeo, in quel momento, né sussistessero le condizioni per una disciplina unitaria degli istituti giuridici riportabili al PPP, né tantomeno ce ne fosse bisogno, avendo comunque disciplinato compiutamente il cuore della tematica del partenariato pubblico privato: le concessioni. Su tale base, dunque, è possibile affermare che, in linea generale, se da un lato nel contesto dell’Unione Europea si è abbandonato l’obiettivo di elaborare una normativa complessiva sul tema, dall’altro si mira piuttosto a regolamentare alcuni tra i maggiori istituti che tradizionalmente vengono ricondotti al partenariato.
Di conseguenza, la figura partenariale ad oggi risulta sostanzialmente incentrata sulla figura delle concessioni dinamiche9 disciplinate dalla recente direttiva 23; peraltro, non appare ancora chiaro «se in questa figura si esaurisca la rilevanza giuridica del PPP, oppure se ciò rappresenti solo una prima disciplina di un complesso fenomeno ancora da completare». E questa non è cosa da poco se si pensa che, non essendo tale tematica parte delle competenze esclusive dell’Unione Europea, in ogni Stato membro potrebbe crearsi una situazione di duplice regime di PPP, nazionale ed europeo, in cui, una volta rispettati i principi generali che rilevano in materia, il primo potrebbe procedere autonomamente.
Più in generale, tra le tre direttive, pure sotto il profilo sistematico è senza dubbio la numero 2014/23/UE “sull’aggiudicazione dei contratti di concessione” a costituire la novità più rilevante per il diritto europeo: innanzitutto, sono proprio gli 88 “considerando” (i quali non sono mere esplicazioni, ma hanno una precisa valenza regolatoria), 55 articoli ed 11 allegati che essa contiene a disciplinare per la prima volta le concessioni, e molto spesso in modo così dettagliato da configurare disposizioni self-excuting10. Non meno ragguardevole poi, l’aver finalmente stabilito una precisa linea di demarcazione tra appalti e concessioni come pure l’aver definitivamente risolto il problema delle “concessioni fredde”, visto che la direttiva, di fatto, disciplina tutte le concessioni di lavori e di servizi unitariamente, comprese quelle dove il principale pagatore è la Pubblica Amministrazione. Per quanto riguarda, invece, la disciplina del trasferimento del rischio, si tratta indubbiamente di una questione tutt’altro che inedita per il diritto comunitario, assodato che, pur non essendo sino ad allora riuscite né la scarsa normativa in vigore né la giurisprudenza a delimitarne precisamente l’ambito di applicazione, era stato già da tempo individuato quale elemento di differenziazione rispetto agli appalti; non a caso, è uno dei caratteri irrinunciabili di qualsivoglia forma di PPP e massimamente delle concessioni, unito alla traslazione della gestione.
Sebbene in questa sede di trattazione non sia possibile dar conto del contenuto normativo della direttiva 2014/23/UE nella sua interezza, appare determinante soffermarsi ed approfondire quantomeno gli elementi di innovatività suesposti, prima di tutto al fine di comprendere le ripercussioni che questa poi ha avuto sulle singole discipline nazionali in materia concessoria. Anzitutto, si rileva come le definizioni delle concessioni di lavori e di servizi, fornite dall’articolo 5 comma 1, punto 1 della direttiva 2014, non differiscano sostanzialmente dalle definizioni riportate nelle precedenti direttive 2004: dunque, due enunciazioni che colgono l’ubi consistam dell’istituto nella permanenza del rischio operativo in capo al soggetto privato, finendo così per assoggettare le concessioni di lavori e le concessioni di servizi alla medesima disciplina; un’armonia senz’altro voluta viste, ancora, l’indicazione di una sola soglia per la pubblicazione del bando di gara sulla GUUE (€ 5.186.000) e l’estensione ad entrambe dei mezzi di ricorso previsti nel settore degli appalti dalla direttiva 2007/66/CE11. Ciò nondimeno, ci sono apprezzabili tracce di novità quali la prospettazione di una pluralità di soggetti tanto dal lato della domanda pubblica (amministrazioni aggiudicatrici ed enti aggiudicatori), quanto dal lato dell’offerta (ammissibile l’affidamento della concessione ad un raggruppamento di imprese) e la specificazione di che cosa realmente comporti per un operatore economico privato l’aggiudicarsi un contratto di concessione e dunque la gestione in prima persona dei lavori e/o servizi.
Ebbene, la direttiva “concessioni” va a colmare quella lacuna normativa a livello europeo che per anni, non potendosi stimare diversamente il valore dell’eventuale perdita economica connessa al trasferimento del rischio operativo, nella prassi aveva permesso di eludere i precetti comunitari sulla contrattualistica pubblica. Difatti, già i considerando 1853 e 2054 adottano una formulazione di rischio operativo che non ora consente più ai concessionari di introdurre celatamente formule di attenuazione o eliminazione dell’elemento aleatorio che li riguarda, le quali di fatto lo facevano irrimediabilmente ritornare in capo alla Pubblica Amministrazione; come se ciò non bastasse, i due enunciati vengono in seguito richiamati e puntualizzati nell’articolo 5, comma 1, punto 1 della direttiva stessa: “Si considera che il concessionario assuma il rischio operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione. La parte del rischio trasferita al concessionario comporta una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile”. All’interno di questa enunciazione, semmai sia consentito ritenerlo tale, un carattere “di bilanciamento” nella ripartizione del rischio operativo legato alla gestione dei lavori e/o dei servizi lo si può nella clausola di salvezza “in condizioni operative normali”: una sorta di tutela per il soggetto privato in ipotesi eccezionali di rischi finanziari sistemici, contro cui egli nulla potrebbe.
Del resto, emerge come ora, anche all’interno del contesto europeo, il tema del rischio risulti finalmente delineato integralmente, in virtù di una regolamentazione che non lascia più margini di incertezza all’interprete, ma nemmeno grandi spazi di manovra ai Legislatori nazionali in fase di attuazione. Tuttavia, la portata innovativa della direttiva 2014/23/UE non si esaurisce certamente nell’inquadramento del rischio operativo: invero, si rivela di ben altro spessore il superamento della divisione tra le concessioni cd. calde12 e le concessioni cd. fredde13, a ben vedere avallata di fatto finanche dalla decisione Eurostat 11 febbraio 2004, n.18 nel ritenere fuori dal bilancio delle pubbliche amministrazioni soltanto le prime e, viceversa, assimilando l’aspetto contabile delle seconde a quello degli appalti pubblici. In effetti è proprio la direttiva 23 che, al fine di individuare un sicuro criterio discretivo tra le diverse tipologie di concessioni PPP, finisce col porre l’accento sul tipo di contratto e tanto più sulla precisa allocazione del rischio, ben presente anche nelle concessioni cd. fredde; diviene perciò irrilevante la tradizionale ripartizione di matrice giurisprudenziale fondata sulla struttura del rapporto giuridico, bilaterale o trilaterale, che veniva a crearsi in seguito all’aggiudicazione di una concessione.
Nondimeno, si osserva come, alla fin fine, persino tale rilettura dell’istituto concessorio dipenda dalla sopracitata specificazione del rischio operativo prevista dalla direttiva 23 all’articolo 5, comma 1, punto 1: “L’aggiudicazione di una concessione di lavori o di servizi comporta il trasferimento al concessionario di un rischio operativo legato alla gestione dei lavori o dei servizi, comprendente un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta, o entrambi”. Emerge infatti da questa norma come la decisione Eurostat 11 febbraio 2004, n. 18 sia stata decisamente superata altresì sotto il profilo dell’individuazione delle tre categorie di rischio trasferibili al privato, dopo essere stata a lungo impiegata proprio per suddividere appalto e concessione (o, più in generale, per separare appalto e PPP). Sorvolando ora sul rischio di costruzione, per definizione insito in ogni contratto pubblico indipendentemente che si tratti di appalto o concessione, della tripartizione Eurostat l’articolo 5 della recente direttiva trascura segnatamente il rischio di domanda – che afferendo alla gestione dell’opera o del servizio, riguarda principalmente le opere calde – ed il rischio di disponibilità – che attenendo alla capacità, da parte del concessionario, di erogare o meno le prestazioni contrattuali con il volume e gli standard di qualità pattuiti, interessa più che altro le opere fredde. E parimenti fa la seconda parte del considerando 20 nel disporre che: “Il rischio operativo dovrebbe essere inteso come rischio di esposizione alle fluttuazioni del mercato, che possono derivare da un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta ovvero contestualmente da un rischio sul lato della domanda e sul lato dell’offerta”.
Ebbene, nonostante le differenze sostanziali che sussistono tra opere e servizi cd. caldi ed opere e servizi cd. freddi nonché il considerando 20, parte prima, ai sensi del quale “un rischio operativo dovrebbe derivare da fattori al di fuori del controllo delle parti”, non pare potersi affermare né che nelle concessioni cd. calde il rischio sul lato della domanda debba essere relazionato unicamente alle fluttuazioni della domanda che proviene dagli utenti del servizio gestito, né tanto meno che nelle concessioni cd. fredde tale rischio si configuri soltanto qualora il canone pagato dall’amministrazione al concessionario sia direttamente proporzionale all’utilizzo effettivo dell’opera e del servizio da parte degli utenti14. Anzi, letta in questo modo, la definizione del rischio sul lato della domanda esplicitata dalla direttiva 23 andrebbe a coincidere perfettamente con quella individuata dalla decisione Eurostat dell’11 febbraio 2004, n. 18 per il rischio di domanda. Per quando riguarda invece il rischio sul lato dell’offerta, considerato che la domanda può provenire sia dal mercato sia dall’amministrazione, pare altrettanto evidente che la concessione delineata dalla direttiva 2014/23 non inglobi i soli rischi di costruzione e di disponibilità già identificati da Eurostat nel 2004, ma anche il rischio che il concessionario risponda con un’offerta insufficiente alla domanda di utenti per opere o servizi caldi. Di conseguenza, coerentemente con queste osservazioni, oggi la dottrina maggioritaria fa rientrare anche le concessioni di lavoro e le concessioni di servizi cd. fredde nell’ambito di applicazione della direttiva 2014/23/UE.
Un altro sostanzioso contributo all’evoluzione normativa della disciplina europea in materia di concessioni, la direttiva 2014/23/UE lo dà a proposito dell’aggiudicazione dei relativi contratti. Invero, sebbene questa esordisca con l’intenzione di realizzare un “coordinamento minimo delle procedure nazionali di aggiudicazione”, in realtà, al suo interno, la normativa sul tema si rivela abbastanza minuziosa, tanto per le concessioni nell’ambito dei settori cd. tradizionali, quanto per quelle nell’ambito dei settori cd. speciali; per di più, vengono inserite alcune disposizioni sui mezzi di ricorso. Dunque, tenendo conto che nella direttiva 2004/18/CE vi erano soltanto poche regole in ordine a trasparenza e pubblicità, tra l’altro circoscritte alle sole concessioni di lavori, poiché questa si accontentava dell’applicazione dei noti principi desumibili dal Trattato CE, ora, anche per il solo il fatto di aver dedicato, all’opposto, ben nove articoli alla procedura di aggiudicazione, risulta evidente quanto sia progredita direttiva 23 è altresì importante poiché, indirettamente, obbliga le amministrazioni pubbliche ad attrezzarsi adeguatamente per essere poi in grado di monitorare le modalità con cui il concessionario svolge l’attività oggetto del proprio contratto.
Avviandosi alla conclusione, merita infine menzione l’introduzione di un’implicita limitazione della durata delle concessioni: attualmente l’articolo 18, comma 2 della direttiva 2014/23/UE sembra infatti porre un limite massimo di durata del rapporto concessionario pari a 5 anni, il quale può essere superato solo nel caso in cui ciò sia necessario al fine di consentire al concessionario di recuperare gli investimenti effettuati nell’esecuzione dei lavori o dei servizi. In buona sostanza, con questa disposizione il Legislatore europeo ha voluto evitare che interminabili durate temporali, in special modo se paragonate all’equilibrio economico-finanziario, possano dar luogo a vantaggi eccessivi per l’operatore privato15.
Osservazioni conclusive
Con questo breve excursus sul PPP all’interno del quadro europeo, avviatosi con il Libro Verde nel 2004 e conclusosi nel 2014 con le nuove direttive appalti e concessioni, si è cercato di dare conto del crescente interesse che le istituzioni europee hanno mostrato, nell’arco di questo decennio, nei confronti del fenomeno partenariale. Del resto, dopo un fitto susseguirsi di dibattiti e comunicazioni, questo accidentato percorso ha trovato un primo fondamentale punto di snodo nell’adozione della “direttiva concessioni” 2014/23/UE. Aldilà dell’ “epocale” decisione di dare finalmente una regolamentazione unitaria di matrice europea ad una materia che a lungo era invece stata lasciata da parte, soprattutto se paragonata ad una disciplina degli appalti pubblici che negli anni si faceva sempre più analitica, rileva il fatto che il diritto dell’Unione Europea, nella prospettiva di dare concretezza a quel costante interesse dimostrato riguardo alle innumerevoli potenzialità del partenariato pubblico privato – consapevole del ruolo che questa fattispecie avrebbe potuto giocare in un contesto sempre più contraddistinto da un’onerosa crisi economica e finanziaria – si sia concentrato sul particolare tipo di concessioni previsto nella direttiva 23 quale istituto per eccellenza di partenariato. Peraltro, al momento la Commissione Europea non ha in programma interventi circa gli ulteriori istituti giuridici riportabili alla nozione generale di PPP.
A tal proposito, è interessante richiamare ancora una volta l’assenza ultradecennale di una specifica disciplina comunitaria sulle concessioni simile a quella degli appalti pubblici; secondo alcuni è dipesa dalla volontà granitica degli Stati membri di mantenere un ruolo predominante nella materia, secondo altri, invece, conseguenza dell’atteggiamento poco propenso all’intervento che la Commissione, negli anni, ha mantenuto a fronte di pronunce della Corte di Giustizia già sufficientemente incisive rispetto all’affidamento delle concessioni. Di talchè, per molti anni le istituzioni comunitarie si sono limitate a pretendere che i principi di cui agli articoli 20 e 49 del Trattato CE venissero applicati in maniera estensiva pure alle fattispecie concessorie. Tuttavia, come si è avuto modo di far emergere nei paragrafi precedenti, nell’ultimo periodo la tendenza si è invertita, tanto che ha cominciato a farsi sempre più sentita la necessità di adottare, anche a livello europeo, una disciplina organica delle concessioni, in primo luogo con l’obiettivo di armonizzare gli ordinamenti dei diversi Paesi membri fornendo, finanche, delle sicure linee guida per la creazione di modello partenariale comune. In effetti, la mancanza di una normativa europea unitaria, la quale rassicurasse i cittadini e gli operatori economici privati circa la possibilità di ricorrere a mezzi di tutela effettivi, cominciava a penalizzare in maniera eccessiva il mercato delle concessioni.
Per questa ragione, l’approvazione della direttiva 2014/23/UE costituisce, senza dubbio, un importante passo in avanti nonché decisivo nell’ancor breve cammino normativo della disciplina eurounitaria sui contratti pubblici, partenariato pubblico privato compreso: «la nuova disciplina introdotta dalle direttiva 2014 va senza dubbio nella direzione di creare un moderno quadro legislativo sostanziale e processuale in grado di garantire al meglio lo sviluppo economico all’interno del mercato europeo nel rispetto dei principi generali di libera concorrenza e trasparenza». Oggi dunque, in virtù della direttiva 23, gli Stati membri e gli operatori economici sul mercato unico godono di una normativa armonizzata sull’aggiudicazione delle concessioni, la quale non si limita a fornire agli operatori una mera definizione degli istituti giuridici, ma impone piuttosto ai Paesi membri delle linee guida chiare e precise. Tuttavia, il tragitto del PPP a livello europeo risulta tutt’altro che completato, anzitutto perché la volontà di garantire maggiore concorrenzialità tra gli operatori economici si inserisce nel quadro degli obiettivi perseguiti dall’Unione Europea, al fine di favorire altresì le piccole-medie imprese: dopotutto le disposizioni della direttiva 2014/23/UE hanno come primo obiettivo quello di migliorare il clima imprenditoriale generale.
In conclusione, si rileva come il partenariato pubblico privato occupi oggi un posto di prim’ordine nel presente difficile contesto unionale; invero, la situazione critica delle finanze pubbliche, unita ai vincoli di bilancio, rendono indispensabile il coinvolgimento dei privati nella realizzazione di attività di pubblico interesse. Cionondimeno, bisogna sempre tenere a mente che il PPP non è e non può rappresentare la panacea di tutti i problemi che i tradizionali contratti pubblici hanno evidenziato nel tempo: «gli strumenti di partenariato vanno dunque scelti e monitorati in modo efficace nel loro svolgimento»16.
Volume consigliato
Note:
1 Cfr. A. Di Giovanni, Il contratto di partenariato pubblico privati tra sussidiarietà e di solidarietà, Torino, Giappichelli, 2012, p. 37.
2 Cfr. Ivi, p. 38.
3 La decisione Eurostat 18/2004 subordina però la contabilizzazione off-balance di queste operazioni al rispetto di due condizioni: 1) il partner privato si assume il rischio di costruzione; aumento dei costi; inconvenienti ti tipo tecnico nell’opera; mancato completamento dell’opera; 2) il partner privato si assume almeno uno dei due rischi seguenti: quello di disponibilità e quello di domanda. Sul punto si veda G. Bassi, Le operazioni a lungo termine in parternariato pubblico privato. Effetti sui bilanci pubblici ed obblighi di comunicazione dati ed informazioni in base alla decisione Eurostat dell’11 febbraio 2004, Appalti&contratti, 1/2, 2009, p. 61 ss.
4 Cfr. G. Santi, Il partenariato pubblico-privato ed il contratto di concessione nella normativa europea e nazionale.
Gli interventi di sussidiarietà orizzontale ed il baratto amministrativo. Il contraente generale, in Diritto dei contratti pubblici. Assetto e dinamiche evolutive alla luce del nuovo codice, del decreto correttivo 2017 e degli atti attuativi,Mastragostino (a cura di), II ed., Torino, Giappichelli, 2019, pp. 139-140.
5 Sul punto, cfr. M. Viggiani, Le forme di partenariato, in Appalti Pubblici, 10 voll., M.A Cabiddu, M.C. Colombo
(a cura di), Milano, Il Sole 24 Ore Editore, 2018, VII, Partenariato pubblico e privato/1. Forme, profili finanziari
e internazionali, p. 10.
6 Così M.P. Chiti, I partenariati pubblico-privati e la fine del dualismo tra diritto pubblico e diritto comune,
in Il partenariato pubblico-privato, Napoli, Editoriale Scientifica, 2009.
7 Cfr. A. Di Giovanni, op. cit., pp. 68-69.
8 La Corte di Giustizia si è pronunciata spesso in ordine al partenariato pubblico privato, specie istituzionalizzato: fondamentale il suo apporto per la regolamentazione degli affidamenti in house. Si veda la sentenza 18 novembre 1999 in causa C-107/98 nota come caso Teckal; la sentenza 13 ottobre 2005 in causa nota come caso Parking Brixen Gmbh;
la sentenza 13 novembre 2008 in causa C-324/07 nota come caso Coditel Brabant.
9 La direttiva 23/2014/UE infatti esclude espressamente le mere concessioni traslative dal suo ambito di applicazione, in quanto concessioni prive di rischio e dunque irrilevanti per il diritto europeo.
10Cfr. G.F. Cartei, Il contratto di concessione di lavori e servizi: novità e conferme a 10 anni dal codice De Lise, Urbanistica e appalti, 8-9, 2016, p. 941.
11 B. Raganelli, Il contratto di concessione come modello di partenariato pubblico-privato ed il nuovo codice dei contratti, 2017, p. 21.
12 Concessioni tipiche di settori infrastrutturali con tariffe tali da generare sensibili flussi di cassa, generando così ricavi di gestione (parcheggi, cimiteri, reti del gas, metropolitane, etc.)
13 Concessioni caratterizzate dall’impossibilità di conseguire ricavi attraverso la vendita agli utenti del servizio che è oggetto della gestione poiché proprie di settori nei quali mancano apprezzabili flussi di cassa (ospedali, scuole, carceri, strade non a pedaggio, etc.). Pertanto può risultare necessario un concorso finanziario pubblico; non a caso spesso è la Pubblica Amministrazione a diventarne utilizzatrice diretta, pagando al privato un canone di disponibilità.
14 Fenomeno che prende il nome di shadow tall (pedaggi ombra) e che vede l’amministrazione pagare un canone per l’opera o per il servizio solo in relazione all’utilizzazione che effettivamente ne fanno i terzi
15 Cons. St., A.P., n. 3, 7 maggio 2003.
16 B. Raganelli, op. cit., p. 9.
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