Il carattere informato del consenso al trattamento sanitario: gli obblighi informativi a carico del medico

 

Quando si parla di consenso alle cure del paziente, si deve intendere una manifestazione di volontà che presenti delle caratteristiche e dei presupposti ben precisi: la violazione del consenso da parte del medico non si realizza infatti soltanto nell’ipotesi di assoluta mancanza di consenso, ma anche nel caso, di gran lunga più frequente, di vizi nel procedimento di acquisizione dello stesso, primo tra tutti la mancanza di un previo adeguato processo informativo, requisito fondamentale in quanto strumentale alla garanzia della libera e consapevole adesione del paziente alla proposta terapeutica.       

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1. L’informazione come condizione essenziale del consenso.

A monte della prestazione del consenso vi è il processo informativo. Infatti, in una relazione terapeutica improntata al principio di parità tra le parti risulta determinante adottare meccanismi direttamente rivolti a contrastare le cc.dd. asimmetrie informative, intese come le differenze conoscitive tra medico e paziente, le quali rappresentano una turbativa della libertà decisionale di quest’ultimo: la trasmissione di informazioni dal medico al paziente, dunque, è condizione propedeutica, necessaria ed ineliminabile affinché la scelta terapeutica sia realmente consapevole e il diritto all’autodeterminazione sia effettivamente garantito [1]. Ne consegue che il paziente subisce una lesione del suo diritto di autodeterminarsi anche quando, pur in presenza di consenso, questo non sia stato preceduto da una adeguata e completa informazione sanitaria. La strumentalità dell’informazione rispetto alla corretta formazione della volontà del paziente è stata compiutamente riconosciuta a partire dagli anni novanta: una delle prime prese di posizione in tal senso è stata quella del Comitato Nazionale per la Bioetica che, nel 1992, ha affermato che l’informazione è finalizzata a “porre il paziente nelle condizioni di esercitare correttamente i suoi diritti e di formarsi una volontà che sia effettivamente tale; in altri termini a porlo in condizione di scegliere consapevolmente, a ragion veduta” [2]. All’indomani di questa insigne proclamazione, sono iniziate ad apparire prescrizioni informative anche nei codici deontologici medici, già in quello del 1995, ma soprattutto in quelli del 1998, 2006 e 2014 (quello attuale) [3]. Di qui, attraverso l’opera di dottrina e Giurisprudenza, si è sempre più sensibilizzata la classe medica alla prassi dell’informazione, fin quando poi è intervenuto il legislatore del 2017 a positivizzarne la disciplina: infatti, con l’entrata in vigore della legge 22 dicembre 2017, n. 219, gli obblighi informativi a carico del medico sono stati dettagliatamente regolati, ed è quindi a tale provvedimento (e alla Giurisprudenza più autorevole in materia) che bisogna oggi far riferimento, se si vuole tracciare i caratteri di una corretta informazione sanitaria [4].

2. Gli obblighi informativi a carico del medico: i caratteri dell’informazione.

Procedendo con la descrizione del processo informativo che deve precedere l’acquisizione della volontà del paziente, il primo punto da affrontare è quello relativo all’oggetto dell’informazione: rispetto a che cosa il paziente va informato? Ebbene, il medico è chiamato ad adempiere ad una molteplicità di obblighi informativi, dovendo renderlo edotto in merito alle sue condizioni di salute, e in particolare a:

  • Diagnosi: consiste nell’identificazione della malattia, della sua sede e della sua natura, e rappresenta il primo momento dell’informazione al paziente, che ha diritto di conoscere innanzitutto il proprio eventuale stato patologico;
  • Prognosi: consiste in un giudizio di previsione probabilistico circa il decorso e l’esito della malattia, fondamentale in quanto, mettendo il paziente al corrente del verosimile andamento della sua patologia, consente allo stesso di deliberare la scelta terapeutica con maggior cognizione di causa;
  • Accertamenti diagnostici/trattamenti sanitari che il medico intende porre in essere, nonché benefici e rischi degli stessi: arriviamo qui ad un elemento cruciale dell’informazione: una relazione terapeutica improntata all’alleanza tra le parti impone che il medico innanzitutto indichi al paziente l’intervento – diagnostico o curativo, a seconda dei casi – che egli ritiene più opportuno da realizzare (è questo il momento della proposta terapeutica, sulla quale il paziente esprimerà poi l’assenso o il dissenso), e che a seguire lo informi anche di quelli che sono i benefici e i rischi attesi dall’intervento indicato, il che equivale a dire che il medico è tenuto a comunicare possibilità di successo e di fallimento dell’intervento, e quindi dati come la portata e l’estensione dei risultati conseguibili, il rapporto tra costi e benefici, l’eventualità di effetti collaterali e l’incidenza di complicanze. Sul punto, l’aspetto più delicato è indubbiamente rappresentato dal tipo dei rischi che il medico deve rappresentare: più precisamente, l’obbligo informativo si limita ai soli rischi statisticamente più frequenti e prevedibili, o si estende anche a quelli eccezionali ed inconsueti, insomma agli esiti anomali, al limite del fortuito? In linea di massima, è opportuno che l’estensione dell’informazione venga determinata sulla base degli interessi in gioco, e quindi sulla base dell’importanza dell’intervento, e della sede e della funzione corporea su cui esso incide. Dunque, in caso di interventi semplici e routinari, che magari non sono idonei a condizionare in modo rilevante l’integrità psico-fisica del paziente, allora appare preferibile sostenere che l’informazione si limiti ai soli rischi più ricorrenti, dovendosi intendere quindi che il medico è tenuto a comunicare i soli rischi più comuni, quelli che più verosimilmente potrebbero concretizzarsi a seguito della terapia, e non invece i rischi remoti, quelli che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, e ciò per evitare che il paziente possa scoraggiarsi e rinunciare, anche solo per una remota eventualità di imprevisto, a sottoporsi ad un banale intervento; mentre in caso di interventi più complessi e maggiormente incisivi sull’integrità psico-fisica del paziente, appare opportuno e doveroso che il quadro dei rischi sia quanto più completo possibile, e che il medico quindi rappresenti al paziente anche le complicanze, gli effetti collaterali e le problematiche post-intervento statisticamente più remote ed infrequenti;
  • Possibili cure alternative: il medico non si deve limitare a proporre soltanto una singola cura e le possibili conseguenze della stessa, ma deve illustrare anche le cure alternative a quella “standard”, o comunque a quella da lui preferita e proposta in via principale. Dunque, la portata dell’informazione dovrà comprendere tutte le diverse opzioni terapeutiche con le relative valutazioni di rischio e beneficio;
  • Conseguenze dell’eventuale rifiuto delle singole terapie proposte e dell’eventuale rinuncia alle cure: premesso che il paziente ha pieno diritto di autodeterminarsi e quindi anche di rifiutare singole cure o di rinunciare alle cure tout court, queste sue eventuali decisioni devono essere ben ponderate, e quindi guidate da una compiuta informazione sulle conseguenze [5];

 

Uno degli aspetti più innovativi in tema di informazione è rappresentato dalla circostanza che nel suo oggetto sia incluso anche il livello di efficienza della struttura ospedaliera: il paziente deve essere messo al corrente dell’eventuale, magari momentanea, carenza di mezzi, dotazioni e attrezzature della struttura sanitaria, e ciò affinché egli possa non soltanto valutare se sottoporsi o no al trattamento, ma anche se farlo in quella struttura oppure chiedere di trasferirsi in un’altra, soprattutto se si tratta di interventi di una certa importanza [6].

Detto questo, va da sé che, come quello alle cure è un diritto disponibile, per cui il paziente può scegliere, a seguito di adeguata informazione, di non farsi curare, così anche il diritto all’informazione lo è, potendo il paziente senz’altro chiedere ed ottenere di non essere affatto informato e di autodeterminarsi quindi senza il previo processo informativo, come precisato dalla stessa legge sul consenso informato [7].

3. Specificità dell’informazione a seconda del trattamento.

Detto questo, bisogna però ricordare che non è possibile determinare a priori, in via generale e astratta, l’esatto e preciso contenuto dei doveri informativi, insomma individuare un regime informativo valevole sempre e per ogni tipo di intervento medico, in quanto l’informazione può assumere connotati più o meno diversi e caratteri specifici a seconda del tipo di intervento: ad esempio, se questo consiste in un semplice accertamento diagnostico o in una semplice visita medica, è chiaro che l’oggetto dell’informazione sarà più scarno e ristretto, non ponendosi qui, per dirne alcune, il problema dei rischi e dei benefici del trattamento o quello della rappresentazione di diagnosi e prognosi (proprio in quanto trattasi in questo caso di un semplice esame fisico del paziente, esso stesso propedeutico all’accertamento della malattia di cui non si conosce ancora l’esistenza); oppure, come forse abbiamo in parte accennato anche in precedenza, qualora la prestazione medica abbia ad oggetto trattamenti routinari, cioè prestazioni sanitarie di ampia frequenza e diffusamente eseguite su una pluralità indeterminata di individui, e caratterizzate da scarsa idoneità ad incidere sulle condizioni psico-fisiche del paziente e da una marginale rilevanza dei rischi connessi, è chiaro che l’attività informativa sarà meno intensa ed impegnativa; se invece ci soffermiamo sui “nuovi” trattamenti, cioè quelle tecniche sanitarie che, come afferma D’Aloia [8], vanno oltre la terapia, perseguendo obiettivi diversi da quello della mera guarigione dallo stato patologico, l’informazione assumerà caratteri ancora più specifici, arricchendosi di contenuti nuovi ed inediti: per esempio, se prendiamo la medicina estetica, l’informazione dovrà andare oltre la semplice prospettazione delle possibili cure e dei relativi rischi, in particolare la valutazione dei miglioramenti estetici dovrà estendersi ad un giudizio globale sulla persona come questa risulterà dall’intervento [9]; se invece consideriamo le tecniche di medicina “predittiva”, lì informazione significherà anche e soprattutto avvertire il paziente delle possibili conseguenze della “scoperta” genetica di sé, e addirittura sarà necessario ed opportuno un lavoro di counselling psicologico post-intervento: insomma, tutto ciò per dire che “informazione” non vuol dire sempre la stessa cosa.

4. La “individualizzazione” dell’informazione.

Procedendo con l’illustrazione del processo informativo, si affronta ora il problema della modalità di comunicazione delle informazioni. Indubbiamente, il medico deve utilizzare un linguaggio semplice, chiaro e adeguato al livello culturale e alle capacità di comprensione del paziente: non serve infatti, ed anzi è controproducente che il medico sia estremamente preciso e dettagliato da un punto di vista tecnico-scientifico, che utilizzi un lessico eccessivamente specialistico, e ciò perché lo scopo dell’informazione non è di certo quello di realizzare uno stato di parità conoscitiva assoluta tra medico e paziente, ma di fornire a quest’ultimo le conoscenze sufficienti e necessarie perché egli sia in grado di comprendere la propria situazione e di decidere se e a quali cure sottoporsi. La comunicazione deve essere reciproca e bilaterale, e ciò sta a significare che il momento dell’informazione non si deve ridurre ad una trasmissione di dati scritta ed unidirezionale, ma deve consistere in un dialogo cooperativo tra le parti, in una conversazione attiva, libera ed informale, in cui il paziente abbia la possibilità di esprimere dubbi e perplessità, di chiedere ed ottenere delucidazioni. L’informazione deve essere anche “personalizzata”, e cioè calibrata ed adattata alla specifica situazione del paziente: ecco perché è fondamentale che il medico conosca le condizioni del paziente, la sua situazione personale, familiare, lavorativa e relazionale, nonché le sue esigenze e aspettative terapeutiche. Inoltre, pur dovendo essere l’informazione onesta e veritiera, il medico deve utilizzare un linguaggio “non traumatizzante”, cioè usare sempre la massima sensibilità e, in caso di prognosi infausta, lasciare spazio, ove possibile, ad un margine di speranza per il paziente, cosicché egli ponga sempre il massimo impegno nel processo terapeutico e la massima fiducia nella seppur non probabile guarigione [10].

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Riferimenti:

[1] Vedi C. P. CAMPOBASSO et al., Medicina legale. Per studenti e medici di medicina generale, coordinato da E. Silingardi, Napoli, Idelson-Gnocchi, 2019, 35-38.

[2] CNB, Informazione e consenso all’atto medico, 1992.

[3] Dei codici passati, vedi ad esempio CDM del 1998, titolo III, capo IV; del codice attuale, che dedica al tema l’intero titolo IV (Informazione e comunicazione: consenso e dissenso), vedi l’art. 33.

[4] Vedi C. P. CAMPOBASSO et al., op. cit., 35-38.

[5] Gli elementi che devono essere oggetto di informazione sono chiaramente indicati nell’art. 1, comma 3 della citata legge 22 dicembre 2017, n. 219, al quale si rinvia; in tema di informazione su rischi e benefici dei trattamenti proposti, con particolare riferimento al grado di estensione dell’informazione, vedi (una tra tutte) Cass. civ., sez. III, 30 luglio 2004, n. 14638.

[6] Così, Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2000, n. 6318; Cass. Civ., sez. III, 21 luglio 2003, n. 11316; Cass. civ., sez. III, 17 febbraio 2011, n. 3847.

[7] L’art. 1, comma 3 della legge 22 dicembre 2017, n. 219, nell’ultima parte così statuisce: “[il paziente] può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.

[8] A. D’ALOIA, Oltre la malattia: metamorfosi del diritto alla salute, in “BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto”, 1, 2014.

[9] Così, Cass. pen., sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 4541.

[10] Sull’importanza rivestita dalla comunicazione tra medico e paziente, vedi M. GRAZIADEI, in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, I diritti in medicina, a cura di L. Lenti, E. Palermo Fabris, P. Zatti, Milano, Giuffrè Editore, 2011, pp. 219 ss.; sui contenuti dell’informazione e sulle modalità di trasmissione della stessa, si rinvia a C. P. CAMPOBASSO et al., op. cit., 35-38 e G.A. NORELLI-C. BUCCELLI-V. FINESCHI, Medicina legale e delle assicurazioni, II ed., Padova, Piccin, 2013, pp. 34-43; sugli obblighi informativi nell’ambito dei “nuovi” trattamenti, quelli non strettamente terapeutici, si rinvia a A. D’ALOIA, op. cit., 93 ss..

Carmine Iacoviello

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