precedenti giurisprudenziali: Cass., Sez. Un., Sentenza n. 20138 del 3/10/2011
La vicenda
Un Comune sottoponeva ad obbligo di pagamento orario la sosta degli automezzi nell’area di un marciapiede di proprietà di un condominio, installando a tal fine la relativa segnaletica stradale.
I condomini reagivano a tale iniziativa proponendo domanda di reintegrazione nel possesso del marciapiede antistante il fabbricato condominiale. Il Tribunale accoglieva la domanda di reintegrazione nel possesso, disponendo la rimozione dei cartelli segnaletici e dell’obbligo di pagamento di tariffa oraria per la sosta nell’area controversa. Contro tale decisione il Comune presentava reclamo con successo, ottenendo l’annullamento della decisione a favore dei condomini per del difetto di giurisdizione del Giudice ordinario in ordine al ricorso possessorio proposto dal condominio. Tale decisione veniva confermata anche dalla Cassazione. Successivamente, il Comune comunicava ai condomini l’imminente inizio di lavori ed in particolare l’allargamento della sede stradale con conseguente demolizione parziale del marciapiede prospiciente il condominio; la modificazione in senso parallelo all’asse stradale dell’orientamento dei parcheggi e l’assoggettamento della sosta alla tariffa di pagamento “a rapida rotazione”; il posizionamento di due cassonetti per la raccolta dei rifiuti. Il condominio presentava un ulteriore ricorso per denuncia di nuova opera e per reintegrazione o manutenzione nel possesso ma le domande dei condomini venivano respinte; al contrario veniva accolto il reclamo che confermava la giurisdizione del giudice ordinario ed ordinava la reintegra nel possesso, disponendo a tal fine la rimozione dei cassonetti per la raccolta dei rifiuti, dei cartelli e della segnaletica orizzontale indicanti l’obbligo di pagamento negli stalli di sosta insistenti sulla parte di marciapiede rimasta dopo il compimento dell’opera denunciata.
La giurisdizione del giudice ordinario veniva contestata ancora dal Comune ma senza successo.
I condomini quindi riproponevano al Tribunale l’accertamento dello spoglio e della turbativa del possesso precedentemente goduto sul marciapiede antistante il fabbricato condominiale.
Il Comune domandava il rigetto di ogni avversa pretesa.
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La questione
Un comune può installare la segnaletica stradale e la sosta a pagamento sul marciapiede condominiale soggetto all’uso pubblico?
La soluzione
Il Tribunale ha dato ragione al Comune.
In primo luogo il giudice ha notato che sia nei titoli di acquisto sia nei titoli autorizzativi di costruzione del fabbricato condominiale tale area è sempre stata destinata a marciapiede, non a parcheggio, considerato che gli stessi condomini avevano espressamente convenuto di rinunciare alle aree per le quali la concessione edilizia aveva previsto ulteriori parcheggi esterni rispetto a quelli realizzati nel piano interrato del fabbricato. In ogni caso il marciapiede era soggetto a servitù pubblica. A tale proposito il Tribunale ha sottolineato come per l’esistenza di tali servitù sia sufficiente l’esistenza di un titolo valido a sostenere l’affermazione di un diritto di uso pubblico, nonché l’oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse. Questi elementi per lo stesso giudice esistono e sono incontestabili. Il titolo è costituito dall’atto notarile e dalla concessione edilizia; l’idoneità del bene all’uso pubblico è risultata evidente per la mancanza di una qualsiasi delimitazione del marciapiede e per l’esistenza di un collegamento tra la sede stradale ed il portico condominiale, anch’esso aperto al pubblico e soggetto al passaggio indiscriminato di persone. Il marciapiede frontistante il condominio quindi costituisce pertinenza stradale e come tale è soggetto all’uso pubblico, con la conseguenza che l’autorità comunale è tenuta a disciplinarlo anche attraverso l’installazione della segnaletica stradale e la sosta a pagamento.
Le riflessioni conclusive
Le servitù di uso pubblico su un bene condominiale richiedono l’esistenza di un titolo valido a sostenere l’affermazione di un diritto di uso pubblico, nonché l’oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l’esercizio della servitù.
In ogni caso nella servitù di uso pubblico manca il soddisfacimento dell’utilità di un fondo “dominante”.
In particolare il consequenziale diritto di godimento non è costituito in capo ad uno o più soggetti determinati in qualità di proprietari di un fondo detto, appunto, dominante, bensì in capo alla intera collettività.
Pertanto, nel caso di portico soggetto a pubblico passaggio si è chiaramente in presenza di una servitù di uso pubblico, che non trova la sua ragione di esistere nel soddisfacimento dell’utilità di un fondo “dominante”, trattandosi piuttosto di un peso imposto sopra un fondo privato per l’utilità di una collettività generalizzata di individui. In tal senso, nemmeno la presenza di un marciapiede contiguo al porticato vale, di per sé, a mettere in discussione il diritto spettante alla generalità dei cittadini di utilizzare il portico stesso qualora questo sia di fatto adibito ad uso pubblico, posto che l’interesse della collettività dovrà inquadrarsi non tanto nel raggiungimento di un fondo dominante, quanto piuttosto nell’uso stesso del porticato (con i consequenziali corollari in termini di utilità quali il riparo da eventi metereologici, uso di locali, accesso ai negozi ecc.).
Tale affermazione vale soprattutto se i condomini hanno garantito alla cittadinanza l’utilità sociale costituita dal libero passaggio sull’area, sulla quale non sono state mai apposte barriere o segnali volti ad impedire il libero passaggio, garantendo nel concreto da tempo lunghissimo e per fatto notorio, con continuità, il transito libero ed indiscriminato da parte della generalità dei cittadini.
In ogni caso il condominio non può rivendicare la titolarità di un area pertinenziale al caseggiato se per disposizione dell’originario proprietario è stata messa a disposizione della collettività e i condomini non sono in grado di provare a supporto di aver utilizzato l’area con esclusività, di averla pavimentata e di aver provveduto allo sgombero della neve.
Si deve considerare infatti che la servitù di uso pubblico può nascere per effetto della c.d. dicatio ad patriam che consiste nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona l’esistenza (Cass. civ., sez. I, 16/03/2012, n. 4207).
Si deve escludere, perché si concreti l’uso pubblico per dicatio ad patriam, un necessario computo di termini minimi sulla falsariga di quelli per l’usucapione, dovendosi piuttosto accertare se sia da escludere o meno una semplice precarietà dell’uso del bene da parte di soggetti diversi dal titolare
Le servitù di uso pubblico però possono essere acquistate anche mediante il possesso protrattosi per il tempo necessario all’usucapione anche se manchino opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio, essendo il requisito dell’apparenza prescritto dall’art. 1061 c.c. soltanto per le servitù prediali.
L’usucapione dei diritti reali immobiliari prevista dall’art. 1158 c.c. si perfeziona grazie al solo possesso continuato per venti anni, per cui una volta qualificata la fattispecie concreta in termini di servitù di uso pubblico, la non necessarietà del requisito dell’apparenza discende dall’acquisto per usucapione dei diritti reali diversi dalla servitù.
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